Gli accenti grafici

■ Quando l’accento grafico coincide con l’accento tonico? ■ Quali sono gli accenti grafici? ■ Quando si usa l’accento circonflesso? ■ È meglio scrivere l’accento per non confondere parole come àncora e ancòra? ■ Che differenza c’è tra accento grave e accento acuto? ■ Quando si usa l’accento nei monosillabi? ■ Perché su qui e qua l’accento non va? ■ Perché sugli avverbi e è obbligatorio l’accento? ■ Perché me e te si scrivno senza accento ma vule l’accento? ■ Perché sulle tastiere la E è presente con due tipi di accento mentre tutte le altre vocali ne hanno uno solo? ■ Perché nei monosillabi come giù, già o ciò si mette l’accento?

Non bisogna confondere l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere e riguarda l’ortografia, con quello tonico, che riguarda la pronuncia e dà l’intonazione: sono due cose diverse che solo in pochi casi possono coincidere.

Quando pronunciamo una parola facciamo sempre cadere l’accento tonico su una vocale che contraddistingue una sillaba, e le parole possono essere perciò piane (accentate sulla penultima sillaba, per es. càne), sdrucciole (accentate sulla terz’ultima, per es. càvolo), tronche (accentate sull’ultima, per es. maestà) e così via (vedi → “La pronuncia delle parole”).

Solo in quest’ultimo caso l’accento tonico (che si pronuncia ma non si scrive) coincide con l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere. Questo accento si usa solo sulle vocali alla fine delle parole per indicare quando sono tronche, cioè accentate sull’ultima sillaba (papà, però, virtù).

Gli accenti grafici sono due, quello acuto (es. perché, pronuncia stretta) e quello grave (es. è, pronuncia aperta) e si mettono solo sulle vocali. Si può immaginare questo segno come un rubinetto che apre o chiude la pronuncia spostando la lineetta da sinistra a destra: , caffè (pronuncia aperta) e , (pronuncia chiusa e stretta). Per saperne di più → “E e O aperte o chiuse? La pronuncia cambia il senso“.

Un tempo nei libri si poteva trovare anche l’accento circonflesso, che si usava per indicare un’originaria doppia i, poi caduta, per esempio in parole come principî o dominî (contrazione dei plurali principii e dominii) proprio per fare capire la giusta pronuncia e non far confusione con “i prìncipi” e “tu dòmini”, ma nell’italiano corrente questa consuetudine sta sempre di più scomparendo e l’accento circonflesso è ormai caduto in disuso: nell’editoria si tende a non utilizzarlo più.

Anche la consuetudine di indicare gli accenti tonici in caso di confusione possibile (àncora e ancòra) è poco seguita, si capisce dal contesto e indicarla forzatamente costituisce uno strappo alle regole che si può fare se proprio è necessario, ma non è affatto obbligatorio né necessariamente elegante.

Nel caso di à, ì e ù, non è importante distinguere l’accento: la pronuncia è una sola, e di solito si usa l’unica lettera accentata presente sulla tastiera, con l’accento grave. Anche nel caso della “o“, benché abbia due pronunce possibili, quando è accentata a fine parola si legge sempre aperta, e dunque si usa l’accento grave (però, menabò, Totò…).

La questione si complica per la lettera “e”, che può avere l’accento grave pronunciato aperto (è) o acuto che si pronuncia chiuso (é). Quindi si scrive sempre perché (e mai perchè o perche’ con l’apostrofo al posto dell’accento), esattamente come poiché, affinché, benché, cosicché, purché, , e tutti i composti di tre (ventitré, trentatré, centotré).

L’accento acuto si usa di solito anche nelle terze persone singolari del passato remoto di verbi come poté, batté, ripeté, mentre nel caso del verbo essere si scrive e pronuncia aperto: è.

In genere nei monosillabi l’accento non si usa: qui e qua (“su cui l’accento non va”, come recita la regola), sta, su, sto… e si aggiunge solo quando è necessario indicare una differenza rispetto a un altro monosillabo che possiede un diverso significato, per esempio: bevanda e te pronome (dico a te); pronome e se congiunzione; congiunzione negativa e ne particella; affermativo e si riflessivo (per il no invece non è necessario); nel senso di giorno e di preposizione (c’è anche di’ imperativo di dire, con l’apostrofo, non con l’accento); e avverbi di luogo e li pronome e la articolo; dal verbo dare e da preposizione.

Nel caso di fa e do (voci dei verbi fare e dare) non è necessario distinguerli dalle note musicali (che non sono mai accentate), si capisce dal contesto, come anche per le note re e si, che è difficile confondere con il titolo di re o il si riflessivo. Tuttavia si usa quasi sempre l’accento quando i monosillabi si fondono con altre parole: re diventa viceré, tre diventa ventitré, su diventa lassù… perché acquisendo altre sillabe si rende necessario rimarcare l’accento finale che quando sono monosillabi si dà per scontato. Analogamente si usa l’accento su parole come giù, ciò e già, perché pur essendo monosillabi hanno più di una vocale, e dunque presentano ambiguità di pronuncia e l’accento finale è indicato come nel caso dei polisillabi.

Bisogna fare attenzione a non confondere l’accento con l’apostrofo e scrivere per esempio “” (accentato) invece di po’, oppure e’ e E’ al posto di “è” e “È“.

Vedi anche
→ “Si scrive se stesso o sé stesso?
→ “Quando l’accento cambia il significato

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