Le 9 parti del discorso

■ Quali sono le parti del discorso? ■ Come si classificano le parti del discorso? ■ Che differenza c’è tra le parti del discorso variabili e invariabili? ■ Come si fa l’analisi grammaticale?  ■ Quali sono le 5 parti variabili del discorso? ■ Quali sono le 4 parti invariabili del discorso?

Nell’analisi grammaticale ogni parola appartiene necessariamente a una delle nove parti del discorso: cinque variabili e quattro invariabili.

Ognuna di queste parti è stata qui suddivisa in vari paragrafi che contengono le spiegazioni necessarie per la comprensione dei concetti chiave e per fugare i dubbi grammaticali più diffusi.

Le parti variabili del discorso, tradizionalmente, sono:


verbi; → nomi; → articoli; → aggettivi; → pronomi.

Si chiamano variabili perché si possono flettere (di solito la radice rimane uguale ma cambia la desinenza) e si concordano nel genere e nel numero. Nel caso dei verbi la flessione si chiama coniugazione, nei tempi, nei modi o nella persona, al singolare (io, tu, egli) e al plurale (noi, voi, essi). Nel caso delle altri parti la declinazione avviene attraverso le concordanze al singolare e plurale (il numero) o al maschile e femminile (il genere).

Le restanti quattro parti del discorso non si concordano, e sono perciò dette invariabili:

preposizioni; → congiunzioni;
avverbi; → interiezioni e onomatopee.

L’analisi grammaticale consiste nel classificare ogni parola della frase attraverso queste categorie, e specificando ogni volta le sottocategoire (per esempio: cane = nome o sostantivo comune di animale, singolare). Davanti a una parola di cui non si riesce a stabilire imediatamente a quale parte del discorso appartenga, perciò, un buon criterio di partenza è quello di domandarsi: si tratta di una parola variabile o invariabile? Dalla risposta è possibile cominciare a stabilire a quale dei due gruppi appartenga, procedendo poi per esclusione e applicando le regole e i consigli dispensati in ogni articolo dedicato, fino a sciogliere ogni esitazione.

Le esclamazioni (o interiezioni) e le onomatopee

■ Cosa sono le esclamazioni o interiezioni? ■ Quali sono le sono le esclamazioni proprie? ■ Quali sono le sono le esclamazioni improprie? ■ Quali sono le sono le locuzioni esclamative? ■ Cosa sono le onomatopee? ■ “Oddio” è una locuzione esclamativa? ■ “Andiamo”, anche se è un verbo, può essere usato come una locuzione esclamativa? ■ Si può scrivere una parola come “brr””? ■ “Chicchirichì” è un’onomatopea?

Le interiezioni (dal latino interjectio, cioè “intromissione”), dette anche esclamazioni, sono parti invariabili del discorso che esprimono stati d’animo come stupore, gioia, meraviglia, dolore e altri ancora.

Le esclamazioni proprie possono essere: ah, eh, ih, oh, uh, ahi, ehi, ohi, ehm, uhm… e altre di stile fumettistico, spesso seguite dal punto esclamativo: toh! Uffa!

Le esclamazioni improprie sono invece costituite da nomi, aggettivi e altre parole, anche verbi, usate con senso di esclamazione: evviva! Urca! Ciao! Zitto! Fuori! Andiamo! Scusa! Esatto! Bello!

A volte queste esclamazioni sono espresse da locuzioni esclamative, che di solito sono frasi fatte come: santo cielo! Oddio! Al diavolo! Al ladro! Al fuoco! Mamma mia! Guai a te! Mio Dio!

Le onomatopee

In questa categoria di parti invariabili del discorso rientrano anche le onomatopee, cioè quelle parole costituite da sequenze di caratteri che riproducono determinati suoni o rumori e vengono usate come interiezioni o esclamazioni. Per esempio brr, un brivido, il drin di un campanello, il bum di un’esplosione o il dindon delle campane, e ancora  i versi degli animali (chicchirichì, bau, miao, cra cra), ma anche sob, gulp e tutto il repertorio dei fumetti, molto spesso espresso in inglese (wow, smack).

Vedi anche → “Il linguaggio degli animali nelle onomatopee” e “I rumori delle onomatopee

Gli avverbi

■ Cosa sono gli avverbi? ■ Che differenza c’è tra gli avverbi derivati e primitivi? ■ Gli avverbi terminano tutti in “-mente?” ■ Quali sono le locuzioni avverbiali? ■ Quali sono  gli avverbi di modo? ■ Quali sono gli avverbi di tempo? ■ Quali sono gli avverbi di luogo? ■ Quali sono gli avverbi di quantità? ■ Quali sono gli avverbi di affermazione? ■ Quali sono gli avverbi di negazione? ■ Quali sono gli avverbi di dubbio? ■ “Ecco” è un avverbio? ■ Quali sono gli accrescitivi e i diminutivi degli avverbi? ■ Si dice “a cavalcioni” o soltanto “cavalcioni”? ■ Quali sono gli avverbi che terminano in “-oni”? ■ “Eccetera” è un avverbio?

L’avverbio si chiama così perché “sta vicino al verbo” (ad verbum), ma la vicinanza non è nella sua collocazione all’interno della frase (può essere anche lontano), bensì nel fatto che si riferisce al verbo e ne specifica una qualità quasi come fosse “l’aggettivo del verbo”: mangio avidamente, corro velocemente, cioè in modo rapido.

Per essere più precisi, però, un avverbio può anche specificare altre parti del discorso per esempio un sostantivo (riposo specialmente la domenica) o un aggettivo, soprattutto nei casi del predicato nominale (questo libro è enormemente pesante) o anche un’intera frase (indubbiamente, mangi con avidità), ma in tutti questi esempi è sempre legato anche al verbo.

Gli avverbi sono classificati tra le parti invariabili del discorso perché non si concordano nel genere e nel numero, e molto spesso si riconoscono facilmente perché terminano in –mente e nascono proprio dalla modifica dell’aggettivo con questo suffisso (facile diventa facilmente, lento diventa lentamente). Ma non è sempre così. Altre volte si possono formare con la desinenza in –oni che nascono dai sostantivi o dai verbi: tentare diventa tentoni, come gatto diventa gattoni, ma c’è anche il procedere cavalcioni, ciondoloni, carponi che a volte si possono introdurre con la preposizione a, ma vivono anche senza.

Oltre a questi avverbi (chiamati anche derivati, perché derivano di solito dall’aggettivo) ce ne sono tantissimi altri chiamati talvolta primitivi (o semplici, perché non derivano da un’altra parola), che possono essere per esempio subito, dopo, prima, poco, bene, male, forte… e a loro volta si possono classificare in base alla loro funzione di specificare un modo, un tempo, una quantità…

Se gli avverbi derivati sono molto semplici da riconoscere grazie alla desinenza, quelli primitivi sono molto più problematici, perché si tratta di parole che in altri contesti possono avere altre funzioni ed essere per esempio aggettivi come poco, oppure congiunzioni come prima o preposizioni improprie come dietro.

Per capire quando sono avverbi bisogna di volta in volta analizzare la frase: gli aggettivi si variano nel e genere e numero e si riferiscono al nome, dunque questo piatto è poco (riferito al nome, piatto) si può volgere al plurale (questi piatti sono pochi) e in questo caso poco è aggettivo. Mangio poco invece si riferisce al verbo ed è un’espressione invariabile. Allo stesso modo le stesse parole possono essere avverbi in espressioni come guardo dietro o arrivo prima (riferite al verbo) oppure diventare una preposizione impropria (prima di pranzo) o una congiunzione subordinativa di una frase dipendente (riposo prima che arrivi = frase dipendente temporale).

Per approfondire → “Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congiunzioni o preposizioni

Oltre agli avverbi derivati e primitivi, esistono anche le locuzioni avverbiali, cioè espressioni complesse che hanno gli stessi significati o le stesse funzioni, come di rado, di corsa, di fretta… formate da altre parti del discorso che però sono usate in senso avverbiale, cioè riferite al verbo e diventate invariabili (non si possono declinare al femminile o al plurale).

Volendo classificare gli avverbi  in base a ciò che qualificano, ci sono per esempio quelli:

di modo, che rispondono alla domanda “in che modo?”, per esempio: cammino dolcemente, caparbiamente, piano, forte, carponi, volentieri
di luogo, che rispondono alla domanda “dove?” o indicano un dove, per esempio: andare qui, qua, , , ovunque (possono includere anche delle locuzioni avverbiali: di qui, di là)…
di tempo, che rispondono alla domanda “quando?” o indicano un periodo, per esempio: quando, ora, adesso, subito, prima, dopo, presto, tardi, oggi, domani, spesso, raramente, mai, sempre
di quantità, che rispondono alla domanda “quanto?” o esprimono quantità, per esempio: quanto mangi, mangi molto, troppo, poco, tanto, poco, meno, minimamente
di dubbio: chissà, probabilmente, forse, magari, eventualmente
di affermazione: , sicuramente, certamente, certo, proprio, ovviamente, decisamente
di negazione: no, non, , nemmeno, mai, neanche, neppure
interrogativi o esclamativi: come, dove, quando, perché, quanto

Eccone altri!
Queste etichette possono variare secondo le grammatiche (alcune raggruppano negli avverbi di valutazione quelli di affemazione, negazione e dubbio) e da queste classificazioni possono sfuggire avverbi come eccetera (considerato una locuzione avverbiale, vedi anche → Meglio scrivere “eccetera”, “ecc.” o “etc.”?) oppure un avverbio come ecco, che si trova in locuzioni come ecco fatto, e ha una forza particolare che può sostituire un verbo e subire trasformazioni: eccomi = sono qui (eccoci, eccola), o anche essere unito a nomi (ecco ecco un cocco un cocco per te! nella poesia di Pascoli) e pronomi: eccone un altro!

Pur essendo invariabili nel genere e nel numero, alcuni avverbi si possono alterare in forme vezzeggiative, diminutive, accrescitive o peggiorative (benino e benone, maluccio e malino, pochino e pochetto, o “andavano a scuola adagino e pianino…”); inoltre (come gli aggettivi), possono in alcuni casi avere → i gradi di comparativo e superlativo assoluto.

Le congiunzioni

■ Che differenza c’è tra le congiunzioni semplici e composte? ■ Che cosa sono le locuzioni congiuntive? ■ Che differenza c’è tra congiunzioni coordinanti e subordinanti? ■ Per è una preposizione o una congiunzione? ■ Come si dividono le congiunzioni coordinative? ■ Quali sono le congiunzioni copulative? ■ Quali sono le congiunzioni disgiuntive? ■ Quali sono le congiunzioni avversative? ■ Quali sono le congiunzioni dichiarative? ■ Quali sono le congiunzioni correlative? ■ Come si dividono le congiunzioni subordinative? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le congiunzioni?

Le congiunzioni sono quelle parole, sempre invariabili, che servono a congiungere tra loro altre parole o intere frasi. Sono perciò dei connettivi, e a seconda di come sono strutturate (la loro forma) possono essere semplici o composte.

Tra le congiunzioni semplici ci sono: e, o, se, ma, però, che, dunque, anzi, quindi

E tra quelle composte le grammatiche annoverano: perché (formata da per + che), sebbene (= se + bene), seppure (= se + pure), neanche (= + anche)… Ma altre volte questa stessa funzione di connettere può avvenire non solo con queste parole semplici, ma anche con espressioni dallo stesso significato o dalla funzione analoga, e in questo caso sono classificate come locuzioni congiuntive, per esempio: come se, in modo che, tranne che, fino a che

Passando dalla loro forma alla loro funzione, un’altra distinzione fondamentale (soprattutto per l’analisi del periodo) che si può fare è quella di raggrupparle in due categorie a seconda del loro uso: le congiunzioni coordinanti e quelle subordinanti.

Le congiunzioni coordinanti (dette anche coordinative) collegano due parole o frasi che sono sullo stesso piano, per esempio:

cane e gatto (congiunzione tra parole)
compro un cane e regalo un gatto (collegamento tra due frasi indipendenti = che si reggono da sole)

sono coordinate dalla congiunzione e.

Le congiunzioni subordinanti (dette anche subordinative) congiungono invece due frasi che non sono sullo stesso piano, uno dipende dall’altro in una concatenazione che rende il secondo elemento subordinato, per esempio:

compro un cane per regalarlo a Silvia;

in questo caso il collegamento è tra una frase indipendente (che si regge da sola) e una frase dipendente dalla prima: per regalarlo non si regge da sola senza la principale (è una frase subordinata o dipendente).

Nell’esempio sopra, per che è di solito una preposizione (non una congiunzione) ha assunto il valore di congiunzione come può accadere spesso nelle forme implicite di una frase: “Corro per (= affinché, congiunzione) far presto” ha un valore finale che è diverso da: “Passo per (= attraverso) il centro”, con valore spaziale. Quindi, individuare quando una parola rientra in una certa categoria grammaticale, come sempre, dipende dal contesto. Sia le congiunzioni sia le preposizioni sono infatti dei connettivi (ma anche altre parti del discorso lo possono diventare a seconda del loro uso). Vedi anche → “Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congunzioni e preposizioni“.

Volendo andare ancora più a fondo nelle classificazioni, le congiunzioni coordinanti vengono di solito distinte ulteriormente dalle grammatiche in varie tipologie:

copulative, congiungono due elementi: e, anche, inoltre, ancora (positive), , neppure, neanche, nemmeno (negative);
disgiuntive, separano gli elementi spesso escludendone uno: o, oppure, ovvero;
avversative, mettono in contrapposizione: ma, però, tuttavia, invece;
dichiarative o esplicative, spiegano un fatto: cioè, infatti, per esempio…;
conclusive, traggono delle conclusioni: dunque, quindi, perciò, pertanto, sicché…;
correlative, si usano per fare confronti, ma sono solo il raddoppiamento delle copulative: ee, siasia (“sia… che” è da evitare), tantoquanto, cosìcome, oraora,

Le congiunzioni subordinanti si possono invece distinguere a seconda dei rapporti logici che determinano (tempo, luogo, causa, scopo, conseguenza…), per esempio:

temporali: quando, mentre, finché, che, dopo che, prima che (es. mangio quando ho fame);
finali: finché, affinché, perché, per (mi corico per riposare);
consecutive: cosìche; tantoche, tantoda (è così bravo da saperlo);
concessive: benché, sebbene, per quanto (lavora sebbene sia malato);
condizionali: se, qualora, ove, casomai, nel caso che (vengo se mi inviti);
modali: come, siccome (ho fatto come mi hai detto);
comparative: come, nel modo che (mangia come parli);
interrogative: perché, come (dimmi perché non vieni);
dubitative: se (non so se verrò);
dichiarative: che, come (credo che tu sia nel giusto);
eccettuative o limitative: tranne che, eccetto che, a meno che, fuorché (fammi di tutto tranne il solletico).

Queste congiunzioni introducono spesso frasi subordinate che, a seconda del significato della congiunzione, danno alla frase dipendente valori diversi. Per esempio: mi tira la palla perché gli sono vicino (= causa) e mi tira la palla perché io faccia canestro (= affinché, frase finale). Dunque, nell’analisi del periodo bisogna sempre cogliere il significato e non guardare semplicemente alla singola parola slegata dal contesto.

Vedi anche
→ “E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche
→ “Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?

Le preposizioni

■ Quali preposizioni si possono articolare? ■ Perché si dice dagli (da + gli) ma “per gli”? ■ Meglio dire “con lo” o “collo”? ■ Meglio dire “tra” o “fra”? ■ Quali preposizioni si apostrofano e quali non si possono apostrofare? ■ Cosa sono le locuzioni prepositive? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni semplici? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni articolate? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni proprie? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni improprie?

Le preposizioni (dal latino praeponere, cioè “porre prima”) sono particelle chiamate così perché “si mettono prima” (su precede sempre il nome, per es. sul tavolo) e hanno una funzione di collegamento.
Possono collegare tra loro due parole (il cane di Marco, cibo per cani), si usano nel caso dei complementi indiretti (torno da Roma, vado con lui) e per legare insieme le frasi principali con quelle dipendenti (o subordinate): ti propongodi correre;  corro per allenarmi.

Oltre a quelle semplici e articolate che sono dette proprie, ci sono anche quelle improprie, e cioè che hanno gli stessi significati (per esempio sopra invece di su) o analoghe funzioni (per esempio davanti).

Preposizioni proprie semplici e articolate

Le preposizioni semplici, cioè di, a, da, in, con, su, per, tra e fra (come nella filastrocca che si impara a memoria), sono parti invariabili del discorso (non si volgono al singolare, plurale, maschile o femminile), ma quando si uniscono all’articolo in una parola sola (dello, della, degli, delle) diventano articolate, e in questo caso si concordano con le parole che precedono seguendo le regole degli articoli che le compongono.

Ma non sempre è possibile fondere preposizione con l’articolo in una preposizione articolata: da + il = dal, ma nel caso di per + lo non si usa “pello”.

Il prospetto che segue riassume ogni possibile caso di articolazione possibile e mostra i casi in cui non si articolano e rimangono separate.

Se in alcuni casi le preposizioni non si uniscono mai all’articolo (non si può dire “fralle” o “perle” al posto di fra le o per le), i casi indicati tra parentesi indicano le forme che grammaticalmente si possono articolare, ma nell’uso dell’italiano moderno tendono  a rimanere  staccate. Forme come “pei”, “pegli” o “pei” sono arcaiche e non si usano più, vivono solo nei libri del passato. Nel caso di collo, colla o colle si usano di frequente nel parlato, ma quando si scrive la tendenza moderna è di preferire le forme staccate, che suonano meglio e non creano confusioni con altre parole dallo stesso significato (il collo, il colle, la colla). Col e coi sono invece più diffuse.

Tra e fra e sono sinonimi perfetti, e scegliere una o l’altra forma dipende solo da motivi eufonici. Dire per esempio “tra trame” e “fra farfalle” produce  un bisticcio e suona quasi come uno scioglilingua, perciò è consigliabile usare forme come fra trame o tra farfalle. In tutti gli altri casi scegliere tra una e l’altra preposizione dipende solo dai gusti personali, entrambe sono perfettamente lecite (tra papaveri o fra papaveri).

Tra, fra e su talvolta si possono rafforzare attraverso l’aggiunta di “di”: si può dire fra di voi o su di voi… oppure fra voi e su voi, ancora una volta ognuno può scegliere la forma che preferisce. Per saperne di più vedi → “Sopra al o sopra il? Dubbi sull’uso delle preposizioni”.

Le preposizioni che si apostrofano
Anche se finiscono per vocale, fra, tra e su non si apostrofano mai (fra amici, e mai fr’amici), e anche da non si apostrofa di solito, tranne in alcune locuzioni come: d’altro canto, d’altra parte, d’ora innanzi, d’ora in poi, d’altronde…). La preposizione di invece si tende ad apostrofare: un gioiello d’oro, un vassoio d’argento, d’un tratto, tutto d’un pezzo, protocollo d’intesa… (vedi anche → “L’apostrofo: elisione e troncamento“).

La preposizione “a” può prendere la “d eufonica” e diventare “ad” solo quando precede una parola che comincia per “a” (per saperne di più → “E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche“).

Preposizioni improprie e le locuzioni prepositive

Le preposizioni improprie sono parole diverse dalle preposizioni proprie, anche se il loro significato o la loro funzione sono simili: invece di dire in (preposizione propria) è possibile dire dentro (preposizione impropria). Tra queste ultime, che sono sempre invariabili, ci sono anche parole che in altri contesti possono essere avverbi di luogo o di tempo come davanti, dietro, sopra, sotto, giù, dentro, fuori, vicino, presso, accanto, intorno, prima, dopo o aggettivi come secondo, salvo, lungo (aggettivi) e altre parole ancora usate con funzione di preposizione, come mediante, eccetto

Locuzioni prepositive
A volte le preposizioni improprie si appoggiano a preposizioni proprie; per esempio, invece di dire i calzini nel cassetto (preposizione propria) si può dire i calzini dentro il cassetto, ma anche i calzini dentro al cassetto (per saperne di più → “Sopra al o sopra il? Dubbi sull’uso delle preposizioni”). E in certi casi questi stessi significati si possono rendere anche con più di una parola, e in questo caso si parla di  locuzioni prepositive: per mezzo di, per opera di, a favore di, nell’interesse di, a causa di, a dispetto di

I pronomi: quali sono e che funzione hanno

■ Cosa sono i pronomi? ■ Qual è la funzione dei pronomi? ■ Come si possono classificare i pronomi? ■ Molto spesso sono identici agli aggettivi (mio, quello…), come si distinguono? ■ Quali sono esempi di frasi con i pronomi?

Letteralmente, pronome significa “che sta al posto del nome” (pro nomen), cioè lo sostituisce, ma per essere più precisi possono sostituire anche altre parti del discorso, per esempio aggettivi e altre parole. Insomma, i pronomi sono dei “segnaposto” abbastanza elastici, che si usano per evitare di ripetere una stessa parola, per economicità e per non appesantire una frase. Per esempio: “Ho uno zaino pesante, non è che me lo porteresti un po’ tu?”. In questo caso lo significa lo zaino, sostituisce il nome. Invece: “Credevo fosse veloce, ma non lo è affatto” sostituisce l’aggettivo veloce.

Quasi sempre, i pronomi sono parole che diventano tali solo all’interno di un contesto, ma in altri contesti le stesse parole hanno altri ruoli e funzioni, e per esempio possono essere aggettivi: questo libro o il mio libro sono aggettivi, perché affiancano il nome e si concordano con il suo numero e genere, ma da soli: prendi questo o dammi il mio, diventano pronomi. La loro classificazione è dunque in parte simile a quella degli aggettivi, e tradizionalmente vengono distinti in:

personali, io, tu
possessivi, mio, tuo
dimostrativi, questo, quello
indefiniti, qualcun, nessuno
relativi, il quale, che
interrogativi o esclamativi, chi? Quanto!

(Per saperne di più vai ai rispettivi paragrafi).

Naturalmente, visto che le etichette con cui le parole si classificano non appartengono alla realtà ma sono delle categorie inventate per comodità, c’è anche chi si è spinto a suddivisioni ulteriori, distinguendo per esempio l’insieme dei pronomi numerali (per analogia con gli aggettivi numerali) dunque “le tre donne andavano…” può diventare “le tre andavano”, così come “il primo amore” può diventare “il primo”, dunque numerale ordinale… ma le grammatiche evitano di solito queste distinzioni così pedanti.

Gli aggettivi: cosa sono e come si dividono

■ Cosa sono gli aggettivi? ■ Che differenza c’è tra aggettivi qualificativi e determinativi? ■ Cosa sono gli aggettivi dimostrativi? ■ Cosa sono gli aggettivi possessivi? ■ Cosa sono gli aggettivi indefiniti? ■ Cosa sono gli aggettivi numerali? ■ Che differenza c’è tra aggettivi numerali cardinali e ordinali? ■ Cosa sono gli aggettivi primitivi e derivati? ■ Cosa sono le forme alterate degli aggettivi? ■ Come si distingue un aggettivo come “questo” dal pronome? ■ Perché “chiaro” è aggettivo in “maglione chiaro”, ma è avverbio in “parlar chiaro”?

Gli aggettivi sono parole che si aggiungono al nome, e vengono classificate tre le parti variabili del discorso perché si possono di solito (ma non sempre) volgere non solo al singolare e al plurale, ma anche al maschile e al femminile. In questi casi si concordano sempre con il nome nel numero (l’uomo elegante, gli uomini eleganti) e nel genere (l’uomo coraggioso, la donna coraggiosa).

Tradizionalmente vengono distinti in qualificativi, quelli che esprimono qualità (alto, bello, forte, simpatico) e determinativi (o indicativi) che in altre parole indicano qualcosa di determinato (questo libro, non uno qualsiasi; quel cane, il mio orologio, nessun amico).

Più nei dettagli, gli aggettivi determinativi si possono ulteriormente dividere in:

dimostrativi, sono questo e quello (che a seconda delle parole con cui si associa può diventare quel: quel quaderno e quello studio, secondo le regole degli articoli il e lo) che servono a indicare qualcosa vicino a chi parla o scrive (questo animale) oppure lontano (quell’animale).

“Codesto” non si usa
Le grammatiche riportano perlopiù anche codesto, che servirebbe a indicare qualcosa che si trova vicino a chi ascolta (per cui in una conversazione si potrebbe dire: togliti codesto cappello, riferito a chi lo indossa), ma è ormai caduto completamente in disuso, tranne nella parlata toscana e nel linguaggio burocratico dove si riferisce a un ente o istituto con altro significato (mi rivolgo a codesta banca per…).

A questi si possono aggiungere anche stesso e medesimo (chiamati anche aggettivi dimostrativi d’identità o aggettivi identificativi): hanno lo stesso o medesimo vestito (cioè proprio quello). In altri casi hanno un valore rafforzativo: l’ho visto io stesso;
possessivi, cioè mio, tuo, suo, nostro, vostro e loro (quest’ultimo è invariabile). Indicano a chi appartiene qualcosa. Alla terza persona si può usare anche proprio, per esempio: “Guarda solo al proprio (= suo) orticello”, oppure si può usare per rafforzare il legame di proprietà o possesso: “Ce la farò con le mie proprie forze”. Quando l’aggettivo possessivo è accompagnato dai nomi di parentela di solito non vuole l’articolo (per cui si dice “mia sorella”, e non “la mia sorella“). Per saperne di più → “L’uso dell’articolo e la sua omissione“;
indefiniti, si chiamano così perché indicano in modo generico (e appunto indefinito) la quantità o la qualità di qualcosa: ogni, qualche, qualsiasi, qualunque, qualsivoglia (che sono invariabili e si usano solo al singolare), tutto, parecchio, altro e altri ancora tra cui alcuno.

Alcuno si usa solo al singolare e nelle frasi negative diventa nessuno, per cui è meglio dire “non ho alcun dubbio” invece di “nessun dubbio”, dove la doppia negazione risulta pleonastica; in alternativa si può omettere e dire “non ho dubbi”. Va ricordato che alcuno è affiancato dalla forma con troncamento alcun, che non si deve mai apostrofare davanti alle parole maschili (es. alcun amico); segue le regole degli → articoli indeterminativi un e uno (dunque: alcun male e alcuno sforzo), e lo stesso vale per nessuno e nessun (dunque nessun’altra = nessuna, ma nessun altro);
interrogativi ed esclamativi, introducono domande (dirette e indirette) o esclamazioni: che (invariabile), quale e quanto (per esempio: che o quale giornale leggi? Quanti biscotti hai mangiato? Ma anche: che giornata! Quanta gente! Quale valore hai dimostrato!);
numerali, che a loro volta si dividono in:

                – cardinali, cioè i numeri: uno, due, tre…. che sono tutti invariabili, tranne uno che può diventare una, mille che diventa –mila (duemila, tremila, centomila…), milione e miliardo (milioni e miliardi).

Naturalmente quando un numero è riferito al nome assume la funzione di aggettivo (opere da tre soldi), se invece è preceduto dall’articolo, che ha il potere di rendere sostantiva ogni cosa, ha la funzione di un nome: “Il tre è il numero perfetto!”

Se non si tratta di date, formule matematiche, cifre statistiche o importanti che si vogliono mettere in risalto (il 35% degli elettori) o numeri troppo lunghi (ho speso 234.000 euro) è sempre meglio scriverli in lettere e non in cifre (per esempio: dopo quattro giorni). Si usano invece nella numerazione delle note a piè pagina o a fine capitolo, in apice, attaccati alla parola di riferimento (es. parola1).

                – ordinali (indicano l’ordine in una serie): primo, secondocentesimo… e si possono scrivere in cifre arabe seguite dal simbolo ° (1°, 2°…) o in numeri romani, e questa seconda variante è obbligatoria per i nomi di papi e re (Luigi XIV, Giovanni XXIII) e anche per indicare i secoli: il XX secolo (che, anche se stiamo uscendo dalla questione degli aggettivi, si può anche scrivere come il Novecento o il ‘900). Per saperne di più → “I numeri romani“.


Come i → sostantivi, anche gli aggettivi possono essere primitivi (bello, forte, rosso…) o derivati da nomi, come primaverile, boschivo, mortale, dantesco, ombreggiato, milanese… inoltre ci sono le forme alterate, cioè diminutivi e vezzeggiativi (bellino, rosellino), accrescitivi (intelligentone, allegrone per lo più sostantivati) o dispregiativi (giallastro, dolciastro). Tra le alterazioni possibili, molti aggettivi possono anche assumere diversi gradi: bellissimo è il (grado) superlativo assoluto di bello (detto invece di grado positivo, cioè normale), mentre il superlativo relativo si forma con una locuzione, il più bello, così come il grado comparativo di maggioranza (più bello di), minoranza (meno bello di) o di uguaglianza (bello come…).

Per saperne di più → “I gradi dell’aggettivo: i comparativi“; → “I gradi dell’aggetivo: i superlativi regolari“; → “I superlativi assoluti irregolari“.

Una precisazione importante
Non bisogna mai dimenticare che le parole assumono la loro funzione solo all’interno di un contesto, e mai in assoluto. “Ricco“, per esempio, non è necessariamente sempre un aggettivo (essere un aggettivo non è una proprietà della parola) e nell’analisi grammaticale può essere classificato in modi diversi: può anche essere sostantivato (basta aggiungere l’articolo): il ricco, cioè colui che è ricco (sostantivo), che è diverso da “il proprietario ricco” (se c’è il nome di riferimento è sempre aggettivo). Lo stesso vale per altre parole come questo e quello, aggettivi se accompagnati dal nome (questo libro) ma che assumono il ruolo di pronomi dimostrativi se sono da soli: prendi questo. E ancora, una stessa parola che può essere spesso aggettivo, altre volte può essere usata in maniera avverbiale, cioè assumere il ruolo dell’avverbio: “Scrivete chiaro“ (cioè chiaramente, in modo chiaro). In questo caso chiaro è avverbio, invariabile, ed è diverso da “il cielo chiaro” (aggettivo e variabile: alba chiara, cieli chiari, albe chiare).

Per saperne di più → “Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congiunzioni o preposizioni

Gli articoli e le loro insidie

■ Cosa sono gli articoli determinativi? ■ Cosa sono gli articoli indeterminativi? ■ Cosa sono gli articoli partitivi? ■ Qual è l’origine dell’articolo? ■ Cos’è il “potere sostantivante” dell’articolo? ■ Qual è la posizione dell’articolo nella frase?

“Articolo” significa letteralmente “piccola articolazione”, dal latino articulus, diminutivo di artus (anche se in latino non esisteva e le parole si declinavano con un cambio di desinenza finale, rosa, rosae).

Indica quelle brevi parole che precedono il sostantivo, ed è una parte del discorso molto importante perché è proprio la concordanza dell’articolo con il sostantivo a chiarire il genere del secondo (cioè se è maschile o femminile): il vaglia (maschile) e la moto (femminile), mentre parole come cantante chiariscono se sono maschili o femminili proprio attraverso l’articolo: il cantante o la cantante. Allo stesso modo l’articolo si concorda con il sostantivo che precede anche nel numero (i vaglia, le moto).

Nonostante la sua brevità e pur non avendo un senso da solo, questo monosillabo ha anche un altro grande potere (il potere sostantivante): posto davanti a una qualunque parola, un semplice articolo la trasforma in un sostantivo anche se (grammaticalmente) non lo è: il perché (una congiunzione o avverbio si trasforma in sostantivo), il bello, il brutto (sostantivazione degli aggettivi) o il sapere (cioè l’atto di sapere, il verbo diventa un nome).

Inoltre, in varie espressioni conferisce un valore universale. Per esempio: la domenica (= tutte le domeniche) vado allo stadio, oppure: il cane (= tutti i cani) è un quadrupede.

Per entrare più nei dettagli e scoprire meglio l’uso dell’articolo e tutti i dubbi grammaticali e ortografici più diffusi (meglio dire “i pneumatici” o “gli pneumatici”? Quando si può omettere? Quando “un” si deve apostrofare  e quando no…) è consigliabile seguire i collegamenti ipertestuali che conducono alle relative sezioni più approfondite.

Riassumendo, gli articoli possono essere → determinativi o → indeterminativi.
Gli articoli determinativi si sono probabilmente sviluppati dal latino ille, illo (quello) e illa (quella) e per il maschile sono di due tipi (il e lo, al singolare), mentre per il femminile c’è solo una forma (la); al plurale diventano rispettivamente: i, gli e le. Si chiamano determinativi perché indicano qualcosa di determinato: il cane indica “quel cane lì”, non un cane qualsiasi. In quest’ultimo caso gli articoli sono invece indeterminativi e, a loro volta, presentano la doppia variante per il maschile, un e uno, e una per il femminile. Questi ultimi, quando si volgono al plurale diventano → articoli partitivi (dei, degli e delle) perché indicano una parte del tutto; e → spesso si possono omettere o sostituire con → l’aggettivo indefinito alcuni (ho mangiato dei biscotti o ho mangiato biscotti o ho mangiato alcuni biscotti).

Il nome (o sostantivo)

■ Cos’è il nome o sostantivo? ■ Che differenza c’è tra nome e sostantivo? ■ Cosa sono i nomi concreti? ■ Cosa sono i nomi astratti? ■ Cosa sono i nomi comuni? ■ Cosa sono i nomi propri? ■ Cosa sono i soprannomi? ■ Cosa sono i nomi derivati? ■ Cosa sono i nomi alterati? ■ Cosa sono i nomi composti? ■ Cosa sono i nomi collettivi? ■ Cosa sono gli accrescitivi? ■ Cosa sono i diminutivi? ■ Cosa sono i vezzeggiativi? ■ Cosa sono i dispregiativi? ■ Cosa sono i nomi difettivi? ■ Cosa sono i nomi sovrabbondanti? ■ Quali sono i nomi geografici? ■ Perché nel caso dei nomi di popoli si può scrivere “gli inglesi” minuscolo, ma gli “Egizi” maiuscolo? ■ Cosa sono i nomi falsi alterati?

Il nome, detto anche sostantivo, è una parte del discorso molto importante nella lingua, qualcosa di primordiale alla base del linguaggio stesso: permette la corrispondenza tra un suono e un oggetto o un concetto.

Non ci sono solo i nomi concreti che indicano le cose, ci sono anche i nomi astratti che esprimono idee, sentimenti e concetti come la paura, la felicità, l’amicizia

Accanto ai nomi comuni (concreti e astratti) ci sono quelli propri, che possono essere di persona (Silvia) o animale (Fido), ma includono anche i cognomi e i soprannomi (il Griso manzoniano) o quelli geografici (Milano, Arno, Lazio) o etnici, che indicano i nomi dei popoli (gli Egizi). I nomi propri si scrivono tassativamente con l’iniziale maiuscola, ma nel caso dei popoli contemporanei (gli italiani, i francesi) ormai è caduta la consuetudine di scriverli così, si possono scrivere anche in minuscolo e dipende dai gusti, mentre nel caso dei popoli antichi è buona regola usare la maiuscola (gli Etruschi).

Tra gli altri tipi di classificazione dei nomi che si possono fare, c’è la distinzione in semplici o composti (francobollo, pomodoro), oppure in individuali (uomo, pecora, luna) e collettivi (gente, gregge, firmamento) che pur essendo singolari designano un insieme di persone, animali o cose. In quest’ultimo caso è bene fare attenzione alle concordanze: la gente fa e non la “gente fanno”. Ci sono poi nomi primitivi, che sono costituiti solo dalla radice e dalla desinenza (fior-e) e quelli derivati che possono aggiungere alla radice suffissi, prefissi, alterazioni e composizioni che conferiscono un significato diverso, anche se appartenente allo stesso ambito semantico: fiorista, fioraio, fioretto, fiordaliso, fioritura

I sostantivi sono una parte variabile del discorso perché si possono volgere al singolare e al plurale, e possono subire anche altri tipi di alterazioni.

I nomi alterati si possono distinguere in:

accrescitivi, spesso attraverso il suffisso -one: ombrello/ombrellone, cane/cagnone, ma anche in altri modi per es. giovanotto o candelotto;
diminutivi (con suffissi come –ino, –etto, –ello, –icciolo, –erello, –ellino…) ombrellino, libretto e libricino, ragazzino, ma anche festicciola, uccelletto, pastorello;
vezzeggiativi (i suffissi possono essere –ino, –icino, –olino, –uzzo…): sono forme di diminutivi che conferiscono contemporaneamente un tocco di simpatia e di grazia: ometto, micetto, boccuccia, cagnolino, reuccio (talvolta la distinzione tra vezzeggiativo e diminutivo non è netta);
dispregiativi o peggiorativi (attraverso suffissi come –accio, –onzolo, –astro, –ercolo, –iciattolo, -ucolo…): omaccio e omaccione, libercolo e libraccio, ragazzaccio, e ancora poetastro o poetucolo, donnicciola e donnaccia, pretonzolo, mostriciattolo, casupola.

Naturalmente non bisogna lasciarsi ingannare da queste desinenze, non sempre sono un’alterazione dei nome e nel caso di polpaccio o focaccia non sono dispregiativi di polpo e foca, così come tacchino, mattone o collina non derivano certo da tacco, matto e collo (per saperne di più → “I nomi falsi alterati“).

In altri casi le alterazioni dei nomi avvengono attraverso “regole istintive” che da un punto di vista grammaticale sarebbero errate come per esempio l’applicazione dei superlativi (che appartiene solo agli aggettivi o agli avverbi) anche ai sostantivi, per esempio finalissima, partitissima (per saperne di più vedi → “I superlativi abusivi, iperbolici e metaforici“)-

Ci sono alcuni nomi detti difettivi perché hanno il “difetto” di possedere solo il singolare (fame, sete, latte, sangue, pietà, pazienza…) oppure solo il plurale (nozze, ferie, gesta, viveri…). Viceversa, i nomi sovrabbondanti hanno più forme possibili (sono le stesse etichette che si applicano ai verbi difettivi e sovrabbondanti), e per esempio si può dire indifferentemente puzzo e puzza, presepe e presepio, scudiero e scudiere, ginocchi e ginocchia. Altre volte esistono delle leggere sfumature di significato tra una forma e l’altra, come orecchio e orecchia (per le “orecchie” che si fanno ai libri è obbligatoria la seconda forma) che al plurale diventano orecchi e orecchie.

Altre volte ci sono nomi che hanno un diverso significato tra singolare e plurale (vedi anche → “Nomi con doppio plurale e doppio significato“), come l’oro (il metallo) e gli ori (i gioielli), o l’ottone (la lega) e gli ottoni (i fiati). E ancora ci sono nomi che presentano un falso cambiamento tra il maschile e il femminile, in realtà in questo passaggio di genere cambia completamente il significato, per esempio l’arco e l’arca, il collo e la colla, il colpo e la colpa o il pianto e la pianta (per saperne di più → “Falsi cambiamenti di genere“).

Morfologia e dubbi grammaticali

■ Che cos’è la morfologia? ■ Che cos’è la grammatica? ■ Che cos’è il lessico? ■ La divisione della grammatica in fonologia, morfologia e sintassi è universalmente accettata?

Questa sezione intitolata Morfologia e dubbi grammaticali (caratterizzata dalla graffetta azzurra nela testatina) è suddivisa in 9 parti dedicate alle → nove parti del discorso. Nell’analisi grammaticale, infatti, ogni parola appartiene necessariamente a una di queste categorie divise in cinque parti variabili (verbi, nomi, articoli, aggettivi, pronomi) e quattro invariabili (preposizioni, congiunzioni, avverbi, interiezioni/onomatopee).

Ogni categoria è stata suddivisa in vari paragrafi che contengono le spiegazioni necessarie per la comprensione dei concetti chiave e per rispondere ai dubbi grammaticali più diffusi.

La sezione contiene anche tutto ciò che riguarda la morfologia, letteralmente lo studio della “forma della parola”, dunque non solo le flessioni, coniugazioni e declinazioni delle parti del discorso, ma anche la formazione delle parole, quelle semplici e quelle derivate, le alterazioni (dagli accrescitivi ai superlativi) e via dicendo. Spesso gli argomenti si intrecciano inevitabilmente con le altre sezioni, dedicate all’Ortografia e alla composizione delle parole, o alla Fonologia e alle regole della pronuncia. Dunque alcune voci sono state etichettate in più di un modo, per favorire la rintracciabilità dei contenuti. Tra queste etichette alcune riguardano anche il lessico (cioè il vocabolario) e altre la sintassi (cioè lo studio dei rapporti tra le parole nella composizione della frase e del periodo). Attraverso lo studio del congiuntivo o del condizionale, infatti, ci si imbatte anche nel periodo ipotetico, così come nello studio delle congiunzioni si incontrano quelle subordinative che collegano tra loro le frasi, e non solo le singole parole.
Sono poi state incluse anche altre informazioni che escono dalla grammatica e riguardano per esempio alcuni consigli di scrittura, dunque lo stile, perché non basta seguire le regole della grammatica per scrivere in un buon italiano.

Il titolo Morfologia va perciò inteso in senso generale e segue un approccio molto pragmatico, visto che tradizionalmente questa parte della grammatica studia come le parole si flettono a partire dalla  loro radice attraverso desinenze, prefissi o suffissi anche in base alle categorie grammaticali. Ma le categorie grammaticali non sono rigide, e spesso una stessa parola può assumere una funzione diversa e può diventare a seconda del contesto un aggettivo, un pronome o un avverbio (vedi per esempio: → “Come distinguere gli avverbi dagli aggettivi, congiunzioni e preposizioni“).
Dunque le cose sono più sfaccettate di come si possono raggruppare attraverso le categorie e le etichette tradizionali, e infatti la suddivisione della grammatica in fonologia, morfologia e sintassi non è accettata in alcuni approcci della linguistica contemporanea moderna.

Il verbo: cos’è

■ Perché il verbo è la parte portante del discorso? ■ Cosa sono la radice e la desinenza di un verbo? ■ Cos’è la persona del verbo? ■ Tutti i modi dei verbi hanno la persona? ■ Cosa sono i modi verbali indefiniti? ■ Cosa sono i modi verbali indefiniti? ■ Cos’è la vocale tematica di un verbo? ■ Cos’è la diatesi?

Verbum in latino significa “parola”, e infatti, tra tutte le parole, i verbi sono le più importanti, perché esprimono un’azione e sono la parte del discorso più essenziale. Basta un verbo per fare una frase: “Andiamo!” Il soggetto (in questo caso noi) può essere sottinteso, si può omettere ogni altro complemento e spiegazione (dove, come, perché…), ma con un semplice verbo si può esprimere una frase di senso compito, autonoma e autosufficiente:“Piove”.

I verbi hanno una radice e una desinenza variabile che si declina. Coniugare i verbi significa concordare la radice con la desinenza variabile a seconda della persona e del numero (io = prima persona singolare, noi = prima persona plurale), ma anche del modo (indicativo, congiuntivo, condizionale…), del tempo (presente, passato, futuro), della forma (attivo, passivo, riflessivo) e di altre variabili ancora.

Amare, per esempio, è il modo infinito composto dalla radice (am-) che rimane sempre la stessa (ma vale solo per i verbi regolari, nel caso di and-are la radice irregolare oscilla e al presente si dice io vad-o e non and-o) con la desinenza in –are.

Nel caso dell’indicativo presente, per continuare questo esempio, la desinenza si declina a seconda delle persone, e tutti i verbi regolari si coniugano con la stessa regola: radice + desinenza.

  amare Singolare Plurale
Prima persona io am-o noi am-iamo
Seconda persona tu am-i voi am-ate
Terza persona egli (ella) am-a essi (esse) am-ano

Tra la radice e la desinenza c’è spesso una vocale tematica, che caratterizza alcune forme della coniugazione, per esempio l’infinito: se lod-a-re si appoggia alla vocale tematica –a, ci sono anche i verbi in –ere (tem-ere), o in –ire: tem-ere (serv-ire).

Spesso vengono perciò divisi in queste tre coniugazioni, ma è possibile anche suddividerli in quattro coniugazioni a seconda di come l’infinito termina, e raggruppare in questa quarta categoria gli altri verbi come por-re, trar-re o tradur-re che hanno una diversa desinenza (è un criterio più semplice e pratico).

Non tutte le forme verbali hanno necessariamente una persona, nel caso dei modi infinito, participio e gerundio (cioè amare, amato e amante), detti appunto modi indefiniti, non c’è un legame con una persona, così come nel caso del modo imperativo (quello con cui si impartiscono i comandi) non esiste la prima persona (non avrebbe senso impartire un ordine a sé stessi), ci sono solo le altre (es. mangia → tu). E poi ci sono anche le forme cosiddette impersonali (si dice, si va, bisogna studiare, piove…) che esprimono un’azione senza specificare la persona (il chi).

I verbi possono anche essere suddivisi in due generi, i transitivi sono quelli che reggono il complemento oggetto e che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?” (per esempio mangiarequalcosa o qualcuno);  i verbi intransitivi non ammettono questa possibilità e per esempio non si può “andare qualcuno”, ma andare con qualcuno, dunque non fanno transitare l’azione direttamente su un oggetto. Questi ultimi hanno solo la forma attiva.
La forma di un verbo (o diatesi) indica la “direzione” dell’azione che esprime nella frase (o più precisamente il rapporto tra il verbo e il soggetto) che può essere attiva, passiva o riflessiva (rivolta verso sé: mi lavo = lavo mé stesso). Tutti i verbi hanno la forma attiva, ma quelli transitivi hanno anche la forma passiva, un modo di esprimere l’azione in cui la frase si rovescia, e il soggetto, invece di compiere l’azione, la subisce da parte dell’oggetto: io guardo → la tv (forma attiva) si può ribaltare in la tv → è guardata da me (forma passiva). I verbi intransitivi al contrario non possiedono la forma passiva, e andare non si può rovesciare in questo modo, perché non regge il complemento diretto. Inoltre, i verbi transitivi sono caratterizzati dal fatto che nei tempi composti si appoggiano sempre all’ausiliario avere (amareho amato), e usano il verbo essere solo per la forma passiva (io sono amato).

Di seguito un indice dei principali articoli sui verbi:

I modi dei verbi
I tempi dei verbi
Il modo indicativo e i suoi tempi
Il congiuntivo e i suoi tempi
Il congiuntivo nelle frasi autonome
Il congiuntivo nelle subordinate
§ Coniugazione del congiuntivo: essere e avere
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -are
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ere
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ire
§ Congiuntivi irregolari in -are: la coniugazione di andare, dare, fare e stare
§ Congiuntivo: come evitare la “sindrome di Fantozzi”
§ “Penso che è” o “penso che sia”? (Dubbi sul congiuntivo)
§ Congiuntivo o indicativo? Attenzione alle negazioni
§ Voglio che sia ma vorrei che fosse
§ “Se me lo dicevi” o “se me l’avessi detto”?
Il modo condizionale: quando si usa
Condizionale: i tempi e le coniugazioni
– Il condizionale nelle ipotesi (i periodi ipotetici)
– Condizionale: si può dire “se sarebbe”?
Il modo imperativo: uso e coniugazioni
Il modo infinito
Il modo participio
L’urlo ci ha spaventato o ci ha spaventati? Come concordare il participio passato
Il modo gerundio e il suo uso

Le coniugazioni dei verbi sono 3 oppure 4
L’ausiliare essere e la sua coniugazione
L’ausiliare avere e la sua coniugazione
La coniugazione dei verbi regolari in -are
La coniugazione dei verbi regolari in -ere
La coniugazione dei verbi regolari in -ire
I verbi irregolari: la coniugazione di andare
I verbi irregolari: la coniugazione di stare
I verbi irregolari: la coniugazione di fare
I verbi irregolari: la coniugazione di dare
I verbi irregolari in -ere
I verbi irregolari in -ire
La coniugazione di trarre, porre, condurre…

I verbi difettivi
I verbi sovrabbondanti
I verbi transitivi e intransitivi
La forma del verbo attiva e passiva
La coniugazione al passivo
La forma riflessiva dei verbi
Verbi servili, fraseologici e causativi
“Ho potuto” o “sono potuto” andare? Gli ausiliari nelle locuzioni verbali
L’uso impersonale e i verbi impersonali

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