Piuttosto che = anziché (e non “oppure”)

■ Si può dire “vado indifferentemente al mare piuttosto che in montagna”? ■ Qual è il significato di “piuttosto che”? ■ “Piuttosto che” è equivalente a “oppure”? ■ “Piuttosto che” significa “anziché” o “oppure”? ■ “Piuttosto che” ha un valore avversativo o disgiuntivo?

L’avverbio piuttosto, associato al che, diventa una congiunzione (una locuzione congiuntiva) che introduce una comparazione con il valore di anziché, invece di, al posto di, e ha quindi un significato avversativo: “Piuttosto che mangiare la minestra, salto dalla finestra!”

Nel nuovo Millennio si è invece diffuso un uso improprio di questa espressione che non ha precedenti storici nella nostra lingua e non ha una motivazione: piuttosto che viene utilizzato come una congiunzione disgiuntiva (invece che avversativa) con il significato di oppure, o. Dunque si sentono sempre più spesso frasi come: “In vacanza pensavo di andare al mare, piuttosto che in montagna, piuttosto che in qualche città d’arte…”.

Questo uso non è solo scorretto, è anche ambiguo, e un’espressione come: “Mario pensa di andare a letto piuttosto che guardare la tv”, per esempio, non significa che Mario fa una delle due cose indifferentemente (= oppure), bensì che non intende guardare la tv, e pur di non guardarla (= anziché, invece di) preferisce andare a dormire.

L’abuso di piuttosto che arriva dalle parlate regionali settentrionali e si è diffuso a macchia d’olio attraverso i mezzi di informazione soprattutto audiovisivi per poi finire sempre più spesso anche nella lingua scritta a partire dalla fine degli anni Novanta. È ormai così frequente e “inarginabile” che i dizionari lo hanno registrato e ne riportano gli esempi specificando che è un uso improprio.

Andrebbe perciò evitato, soprattutto nello scrivere, anche se c’è chi lo considera un’evoluzione moderna che non è più condannabile, visto che l’uso fa la lingua.

E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche

■ Cosa sono le “d eufoniche”? ■ Quando si usano le “d eufoniche”? ■ Meglio dire “e adesso” o “ed adesso”? ■ Meglio dire “e editoria” o “ed editoria”? ■ Meglio dire “per esempio” o “ad esempio”? ■ Meglio dire “a uno a uno” o “ad uno ad uno”? ■ Si può scrivere “ed” davanti a una vocale diversa dalla “e”? ■ Si può scrivere “ad” davanti a una vocale diversa dalla “a”? ■ Si può scrivere “od” davanti a una parola che comincia con “o”?

Le “d eufoniche” si appongono davanti alla preposizione “a” e alle congiunzioni “e” e “o” per evitare che l’incontro con una parola che comincia con vocale abbia una difficoltà di pronuncia e suoni male.

Un tempo erano molto diffuse davanti a qualunque vocale, ma oggi la forma “od” è praticamente decaduta (si tende a non usarla più nell’editoria) e nel caso di “ad” e “edsi usano solo ed esclusivamente davanti alla stessa vocale, dunque si scrive “ed era”, “foglie ed erba”, “ad avere”, “ad  amici”, ma mai “ed ovviamente”, “ed adesso”, “ad uno”…

Le norme editoriali di tutte le case editrici seguono questa regola (e i correttori bozze passano la vita a togliere le “d eufoniche”) dunque è bene seguire questa norma. Non sono grammaticalmente errate, sono però di cattivo gusto e sono il segno di uno scrivere non professionale.

In alcuni casi si possono evitare anche davanti alla stessa vocale, per esempio quando creano bisticci più fastidiosi dell’incontro con la stessa vocale: meglio scrivere “le regole grammaticali e editoriali” invece di “ed editoriali”.


L’unica eccezione a questa regola riguarda poche locuzioni ormai entrate nell’uso come frasi fatte: “ad esempio” che convive accanto alla forma equivalente “per esempio” (non si può scrivere “a esempio”), oppure “ad ogni modo” o “ad eccezione di”.

Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?

■ Meglio dire “sia… sia” o “sia… che”? ■ Meglio dire “a poco a poco” o “poco a poco”? ■ Meglio dire “a mano a mano” o “mano a mano”? ■ Meglio dire “a mano a mano” o “man mano”? ■ Meglio dire “a faccia a faccia” o “faccia a faccia”? ■ Meglio dire “a corpo a corpo” o “corpo a corpo”? ■ Perché è meglio dire “sia… sia” invece di usare come secondo elemento “che”?

Il costrutto “sia… che” (es. “è sia buono che bello”) è molto diffuso anche sui giornali, al punto che è ormai accettato e inarginabile. Tuttavia, nelle norme editoriali di molte case editrici, e soprattutto in un buon italiano non popolare, è da evitare.

La forma più corretta è “sia… sia” (“è sia buono sia bello”), perché si tratta della ripetizione della stessa congiunzione correlativa, che non ha ragione di essere sostituita da “che” nel secondo elemento.

Il consiglio di stile è perciò di evitare sempre “sia… che”.

L’origine di questo costrutto è da ricercarsi nel congiuntivo di comando del verbo essere: sia così e sia in altro modo.

In linea di massima, anche negli altri costrutti correlativi come a mano a mano, a poco a poco, a uno a uno, sono sempre da evitare le forme abbreviate come poco a poco o mano a mano (si può invece dire correttamente man mano, se si vuole essere più sintetici). Anche a corpo a corpo o a faccia a faccia sono consigliabili rispetto alle locuzioni corpo a corpo o faccia a faccia, ma sono così diffuse, che è sempre più difficile ricorrere ai costrutti più corretti, e in televisione dominano ormai i “faccia a faccia” senza alternative.

Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congiunzioni o preposizioni

■ Come si distingue una parola come “forte” che può essere sia aggettivo sia avverbio? ■ Come si distingue una parola come “dopo” che può essere congiunzione, preposizione o avverbio? ■ Quali sono gli esempi di frasi in cui una stessa parola cambia funzione e diventa preposizione, congiunzione, aggettivo o avverbio?

Gli avverbi primitivi (o semplici, ma non sono per niente “semplici”) sono più difficili da riconoscere di quelli derivati dall’aggettivo, che perlopiù finiscono in –mente (sicuramente, velocemente…).

Il problema è che molte volte una stessa parola diventa una diversa parte del discorso a seconda del contesto. Forte, per esempio, può essere un aggettivo, ma può anche diventare un avverbio.

Nell’espressione correre forte (= fortemente) è usato avverbialmente (dunque è avverbio) perché si riferisce al verbo anziché a un sostantivo (è “l’aggettivo del verbo”). Per distinguerlo, oltre a vedere a cosa si riferisce, può essere utile in questo caso notare che quando è avverbio diventa invariabile. Al contrario, quando è riferito al nome è sempre variabile, cioè si può conocrdare nel genere e nel numero: un uomo forte, due uomini forti. Lo stesso vale per chiaro: è avverbio in parlar chiaro (= chiaramente, riferito al verbo e invariabile), ma è aggettivo in l’uomo chiaro (la donna chiara, gli uomini chiari e le donne chiare).

Se questo concetto è forte chiaro si può passare a un distinzione un po’ più difficile.

Altre volte si usano in modo avverbiale anche molte parole invariabili, e per distinguerle si può analizzare solo la loro funzione e il loro significato. Dopo, per esempio, secondo il contesto può assumere il ruolo di avverbio, di preposizione o di congiunzione.
Nell’espresione: vado dopo è riferito al verbo ed è avverbio;
nell’espressione: dopo pranzo vado via (riferito al nome) diventa una preposizione impropria (dopo pranzo è come sul tavolo, nel piatto…);
nell’espressione: dopo aver mangiato (= dopo che ho mangiato) vado via diventa una congiunzione subordinativa, perché congiunge una frase principale a quella subordinata temporale (vado via = principale + dopo che ho mangiato subordinata).

Si può dire “ma però”? E altri dubbi su “ma”

■ Si può dire “ma però”? ■ Si può iniziare una frase con “ma”? ■ Prima di “ma” è obbligatoria la virgola? ■ Quali sono gli esempi di frasi che cominiciano con “ma”? ■ Nei Promessi sposi ci sono frasi che cominciano con “ma”? ■ Quali sono gli esempi di frasi con “ma però”? ■ Nei Promessi sposi ci sono frasi che usano “ma” senza che sia preceduto dalla virgola? ■ Quali sono gli esempi di frasi in cui “ma” non è precuto dalla virgola? ■ Nei Promessi sposi si trova “ma però”?

Tra le espressioni indicate come errore sin dalle scuole elementari c’è “ma però” che viene duramente condannato come inutile ripetizione dello stesso concetto. Questa espressione, tuttavia, non dovrebbe così tanto scandalizzare, il pleonasmo è un artificio retorico che si può usare in molti casi, come per esempio l’ossimoro, l’accostamento di due termini opposti, assurdo logicamente ma potente per esempio nella poesia (“Cessate d’uccidere i morti”, Ungaretti). Curiosamente non ci si scaglia invece contro analoghi rafforzamenti come “ma invece”, e non si dice che questo costrutto ricorre in numerosissimi classici della lingua italiana.

Nei Promessi sposi “ma però” ricorre più volte:
● “Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c’era abbondantemente da fare una mangiatina.”
● “Signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla: ché anch’io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però…”
● “…ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”.

Altri esempi di “ma però” si trovano nell’Inferno di Dante (“Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue”, XXII, 142-144; “questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun”, XXVII, 63-65); nelle Novelle di Verga  (“In città facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla”, “Pentolaccia”); nella Gerusalemme liberata di Tasso (“Va contra gli altri, e rota il ferro crudo; ma però da lei pace non impetra”); nella Vita di Alfieri (“ma però era assai minore il pericolo”), e moltissime volte nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galilei (“Fatta la radunanza nel palazzo dell’illustrissimo Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti”; “m’accorsi della mia semplicità [ma però scusabile])”.

Dunque (come l’espressione altrettanto vituperata ingiustamente “a me mi”, vedi → “Si può dire a me mi?“) questo può avere il suo perché cin vari contesti, e chi lo stigmatizza in modo così perentorio dovrebbe forse maggiormente riflettere su altri tipi di inutili pleonasmi molto in voga che nessuno sembra condannare, per esempio il sempre più onnipresente “requisiti richiesti”, come se un requisito non contenesse già in sé il concetto di richiesto.

Si può cominciare una frase con “ma”?
Un’altra leggenda grammaticale da sfatare è quella per cui non sarebbe possibile iniziare una frase con “ma”. Ma bisogna premettere che “ma” non ha solo un valore avversativo e può esprimere una contrarietà o uno stupore nei confronti di qualcosa, per esempio: “Ma pensa un po’”, “Ma va?”, “Ma tu guarda!”.
Inoltre, a seconda dello stile, è possibile scrivere una frase con una punteggiatura dalle pause deboli espresse con la virgola (Ero stanco, ma tirai avanti ugualmente), oppure amplificarle con il punto (Ero stanco. Ma tirai avanti ugualmente). Di frasi che iniziano con “ma” è piena la letteratura, a cominciare dai Promessi sposi: “…Sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo…”; “Si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi…”.

Prima di “ma” è obbligatoria la virgola?
Infine, non è vero che prima di “ma” sia sempre obbligatoria la virgola, ancora una volta non esistono regole così ferree da prescrivere nel caso della punteggiatura e in un’espressione come “è brutto ma buono” la virgola non è necessaria è solo una scelta possibile, così come nel caso di: “ Zitta! – rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio” (I promessi sposi).

“E” o virgola? O entrambe?

■ Quando si sostituisce la congiunzione e con la virgola? ■ Si può mettere la virgola prima della e? ■ Si può cominciare una frase con la e? ■ Quali sono gli esempi di frasi in cui si può associare la virgola alla E? ■ Quali sono gli esempi di frasi che possono iniziare con la E?

La congiunzione e serve per coordinare due parole sullo stesso piano (mangio pane e salame), ma talvolta si può sostituire con una virgola, e a seconda dello stile e del contesto si può scegliere di scrivere: “Era stanco e avvilito, dunque si arrese” oppure: “Era stanco, avvilito, dunque si arrese”.

Quando gli elementi sono tanti e diventano degli elenchi, di solito la e si omette (altrimenti il costrutto diventa pesante) e si sostituisce con una virgola per lasciarla solo in conclusione prima dell’ultimo elemento: “Indossava un cappello, un cappotto, pantaloni pesanti e stivali alti”. Ancora una volta, la scelta di usare la e in conclusione non è necessariamente obbligatoria in ogni contesto, ma quando l’elenco si lascia in sospeso e la frase termina con eccetera o con i puntini di sospensione di norma la e conclusiva si omette: “Indossava un cappello, un cappotto, pantaloni pesanti, stivali alti…” (vedi anche → Meglio scrivere “eccetera”, “ecc.” o “etc.”?).

Si può usare la virgola prima di “e”?
Un’altra questione che pone dei dubbi è quella della possibilità di usare la virgola prima di e, che spesso viene additato come un errore da evitare, visto che la loro funzione è la stessa. Ma questa è una leggenda grammaticale da sfatare: si può fare e si ritrova in molti testi anche letterari: “Si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo” (Promessi sposi).
Bisogna tenere presente che l’uso della punteggiatura è molto soggettivo e non è disciplinabile da norme rigide (a parte alcuni usi evidentemente errati) e dunque anche nella sua associazione alla e ci son molti margini di soggettività e di stile. Si può benissimo amplificare e rafforzare la pausa della virgola aggiungendo anche una e. Oppure, anche se nelle incidentali è in linea di massima è forse preferibile escludere la virgola (era una giornata fredda e, a parte questo, non mi sentivo bene) non è infrequente trovare invece scelte che la includono (era una giornata fredda, e a parte questo, non mi sentivo bene) che non si può considerare un errore.

Si può cominciare una frase con la “e”?
Sì. Anche la leggenda che non si possa cominciare una frase con la e, non ha fondamenti. Tutto dipende dallo stile. Molte espressioni come “E ancora” o “E voi che fate?” sono legittime, ma anche in moltissimi altri casi è possibile: “Ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano (Promessi sposi).
Spesso e si può usare uno stile che privilegia le costruzioni lunghe (Si alzò di buon ora, si vestì in fretta e corse fuori) o quelle spezzettate da una punteggiatura forte che amplificano le pause (Si alzò di buon ora. Si vestì in fretta. E corse fuori). Ogni considerazione di quale dei due costrutti sia preferibile non riguarda la grammatica, ma lo stile.

Le congiunzioni

■ Che differenza c’è tra le congiunzioni semplici e composte? ■ Che cosa sono le locuzioni congiuntive? ■ Che differenza c’è tra congiunzioni coordinanti e subordinanti? ■ Per è una preposizione o una congiunzione? ■ Come si dividono le congiunzioni coordinative? ■ Quali sono le congiunzioni copulative? ■ Quali sono le congiunzioni disgiuntive? ■ Quali sono le congiunzioni avversative? ■ Quali sono le congiunzioni dichiarative? ■ Quali sono le congiunzioni correlative? ■ Come si dividono le congiunzioni subordinative? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le congiunzioni?

Le congiunzioni sono quelle parole, sempre invariabili, che servono a congiungere tra loro altre parole o intere frasi. Sono perciò dei connettivi, e a seconda di come sono strutturate (la loro forma) possono essere semplici o composte.

Tra le congiunzioni semplici ci sono: e, o, se, ma, però, che, dunque, anzi, quindi

E tra quelle composte le grammatiche annoverano: perché (formata da per + che), sebbene (= se + bene), seppure (= se + pure), neanche (= + anche)… Ma altre volte questa stessa funzione di connettere può avvenire non solo con queste parole semplici, ma anche con espressioni dallo stesso significato o dalla funzione analoga, e in questo caso sono classificate come locuzioni congiuntive, per esempio: come se, in modo che, tranne che, fino a che

Passando dalla loro forma alla loro funzione, un’altra distinzione fondamentale (soprattutto per l’analisi del periodo) che si può fare è quella di raggrupparle in due categorie a seconda del loro uso: le congiunzioni coordinanti e quelle subordinanti.

Le congiunzioni coordinanti (dette anche coordinative) collegano due parole o frasi che sono sullo stesso piano, per esempio:

cane e gatto (congiunzione tra parole)
compro un cane e regalo un gatto (collegamento tra due frasi indipendenti = che si reggono da sole)

sono coordinate dalla congiunzione e.

Le congiunzioni subordinanti (dette anche subordinative) congiungono invece due frasi che non sono sullo stesso piano, uno dipende dall’altro in una concatenazione che rende il secondo elemento subordinato, per esempio:

compro un cane per regalarlo a Silvia;

in questo caso il collegamento è tra una frase indipendente (che si regge da sola) e una frase dipendente dalla prima: per regalarlo non si regge da sola senza la principale (è una frase subordinata o dipendente).

Nell’esempio sopra, per che è di solito una preposizione (non una congiunzione) ha assunto il valore di congiunzione come può accadere spesso nelle forme implicite di una frase: “Corro per (= affinché, congiunzione) far presto” ha un valore finale che è diverso da: “Passo per (= attraverso) il centro”, con valore spaziale. Quindi, individuare quando una parola rientra in una certa categoria grammaticale, come sempre, dipende dal contesto. Sia le congiunzioni sia le preposizioni sono infatti dei connettivi (ma anche altre parti del discorso lo possono diventare a seconda del loro uso). Vedi anche → “Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congunzioni e preposizioni“.

Volendo andare ancora più a fondo nelle classificazioni, le congiunzioni coordinanti vengono di solito distinte ulteriormente dalle grammatiche in varie tipologie:

copulative, congiungono due elementi: e, anche, inoltre, ancora (positive), , neppure, neanche, nemmeno (negative);
disgiuntive, separano gli elementi spesso escludendone uno: o, oppure, ovvero;
avversative, mettono in contrapposizione: ma, però, tuttavia, invece;
dichiarative o esplicative, spiegano un fatto: cioè, infatti, per esempio…;
conclusive, traggono delle conclusioni: dunque, quindi, perciò, pertanto, sicché…;
correlative, si usano per fare confronti, ma sono solo il raddoppiamento delle copulative: ee, siasia (“sia… che” è da evitare), tantoquanto, cosìcome, oraora,

Le congiunzioni subordinanti si possono invece distinguere a seconda dei rapporti logici che determinano (tempo, luogo, causa, scopo, conseguenza…), per esempio:

temporali: quando, mentre, finché, che, dopo che, prima che (es. mangio quando ho fame);
finali: finché, affinché, perché, per (mi corico per riposare);
consecutive: cosìche; tantoche, tantoda (è così bravo da saperlo);
concessive: benché, sebbene, per quanto (lavora sebbene sia malato);
condizionali: se, qualora, ove, casomai, nel caso che (vengo se mi inviti);
modali: come, siccome (ho fatto come mi hai detto);
comparative: come, nel modo che (mangia come parli);
interrogative: perché, come (dimmi perché non vieni);
dubitative: se (non so se verrò);
dichiarative: che, come (credo che tu sia nel giusto);
eccettuative o limitative: tranne che, eccetto che, a meno che, fuorché (fammi di tutto tranne il solletico).

Queste congiunzioni introducono spesso frasi subordinate che, a seconda del significato della congiunzione, danno alla frase dipendente valori diversi. Per esempio: mi tira la palla perché gli sono vicino (= causa) e mi tira la palla perché io faccia canestro (= affinché, frase finale). Dunque, nell’analisi del periodo bisogna sempre cogliere il significato e non guardare semplicemente alla singola parola slegata dal contesto.

Vedi anche
→ “E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche
→ “Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?

I tanti valori di “che”

■ Quali sono i significati possibili di che? ■ Si può cominciare una frase con che? ■ Si può dire “siccome che”? ■ Come si può distinguere il che congiunzione dal che pronome relativo? ■ Che può essere anche aggettivo?

Che” può assumere tantissimi significati diversi, e per fare un po’ di chiarezza per esempio nell’analisi logica, oppure semplicemente nella comprensione di un testo, va sempre esplicitato.

In altre parole, per poter comprendere il suo valore e il suo senso, bisogna vedere che cosa significa nel contesto e come si può di volta in volta trasformare.

Per esempio può essere:

pronome relativo: l’uomo che (= il quale) parla;
pronome interrogativo o esclamativo: che (= cosa) fare? che bello!;
aggettivo interrogativo o esclamativo: che (= quale) giacca indossi? Che faccia tosta!;
congiunzione: ti dico che sei bravo.

Che altro dire?
Che non è vero che non si può mai iniziare una frase con il che, come talvolta si dice (“che mi venga un accidente se non è così!”: non esistono controindicazione nel cominciare una frase con il congiuntivo preceduto da che).
Oltre a tante frasi comuni che iniziano così (che bello! Che succede? Che mi dici?), ci sono anche molti esempi letterari che contraddicono l’opinione diffusa per cui non sarebbe possibile aprire una frase in questo modo, per esempio l’incipit di un racconto di Jorge Luis Borges:

Che un uomo del suburbio di Buenos Aires (…) s’interni nei deserti battuti dai cavalli (…), sembra a prima vista impossibile

(“Il morto” in L’aleph, Feltrinelli, Milano 1961, traduzione di Francesco Mentori Montalto).

Il fatto che sia possibile non significa però che sia sempre consigliabile: non è vietato, ma bisogna saperlo fare e poterselo permettere.


Invece, a proposito di divieti: non si può mai dire siccome che!

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