Pronuncia e dizione

■ Cos’è la dizione? ■ Che differenza c’è tra l’italiano nazionale e quello regionale? ■ Si dice stèlla o stélla? ■ Come si dovrebbe pronunciare la Z di zucchero? ■ Che differenza c’è tra la dizione di una lettera e la pronuncia di una parola? ■ Dire “perchè” invece di “perché” è un errore? ■ Secondo le regole della dizione si dovrebbe die “bène” o “béne”?

Si dice stélla o stèlla?

La prima opzione è quella corretta, come riportano i dizionari, ma sull’apertura delle vocali – come anche sulla doppia pronuncia di “s” e “z”, per cui è più corretto dire (z)zucchero e (z)zio, sonori, quasi con il raddoppiamento – pesano molto le inflessioni regionali e non è sempre fondamentale uniformarsi alle regole della dizione. O più precisamente: quando dalla pronuncia degli accenti dipende il significato di una parola (èsca = verbo ed ésca = verme da mettere sull’amo) sarebbe meglio essere precisi, ma negli altri casi ognuno ha il diritto di esprimersi con la vivacità del proprio bagaglio linguistico territoriale, e le inevitabili parlate e inflessioni dialettali sono espressive e caratterizzanti. Dal modo naturale con cui ognuno parla è possbile riconoscere per esempio l’area geografica dove è nato o vissuto, mentre l’italiano “nazionale” che ascoltiamo per esempio nell’audio di una pubblicità è impersonale, nella sua “perfezione”.

Nella pratica quasi nessuno parla con l’impostazione perfetta dell’italiano “standard” dei dizionari, tranne gli attori, che sulla dizione e la pronuncia fondano la loro professione, ed è per loro fondamentale essere impostati e dire “bène” invece di “béne” o “perché” invece di “perchè”. La dizione non riguarda solo la pronuncia, insegna anche a scandire bene ogni lettera, a impostare la voce e a usarla in modo profesionale. Ma l’italiano impostato e privo di connotazioni regionali vive solo in televisione, al cinema e a teatro, e spesso nemmeno lì: che ne sarebbe di Massimo Troisi o di Eduardo De Filippo senza il napoletano, di Alberto Sordi senza il romano o di Roberto Benigni senza il toscano?

A seconda dei contesti comunicativi, perciò, una dizione perfetta può essere essenziale per gli attori, o utile per parlare in pubblico, ma viceversa per il linguaggio colloquiale tra amici e parenti essere troppo impostati può essere recepito come un parlare artificiale, distante o freddo.

Fatte queste premesse, ci sono alcune regole della dizione sovraregionale che si possono seguire soprattutto nella pronuncia delle “e”, delle “o”, delle zeta o delle esse.

Ma bisogna fare un’importante distinzione tra la dizione delle lettere (per esempio le sfumature regionali della zeta o le aperture di certe vocali) e la pronuncia delle parole, che riguarda l’accento tonico vero e proprio, cioè dove cade l’accento di una parola. In questo caso lo spostamento di un accento da una sillaba all’altra è una questione di lessico, non di dizione, e può cambiare il significato delle parole: il nòcciolo del discorso non è il nocciòlo, cioè l’albero delle nocciole, e la rètina dell’occhio non è una retìna per prendere i pesci! Questi accenti tonici devono essere seguiti da tutti, non solo dagli attori.

Per saperne di più vedi → “Quando l’accento cambia il significato” (un elenco di parole che cambiano significato in base a dove cade l’accento), e → “Dubbi di pronuncia” (un elenco di parole che si sbagliano spesso, come rùbrica e non rubrìca, o edìle e non édile) .

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