Le congiunzioni

■ Che differenza c’è tra le congiunzioni semplici e composte? ■ Che cosa sono le locuzioni congiuntive? ■ Che differenza c’è tra congiunzioni coordinanti e subordinanti? ■ Per è una preposizione o una congiunzione? ■ Come si dividono le congiunzioni coordinative? ■ Quali sono le congiunzioni copulative? ■ Quali sono le congiunzioni disgiuntive? ■ Quali sono le congiunzioni avversative? ■ Quali sono le congiunzioni dichiarative? ■ Quali sono le congiunzioni correlative? ■ Come si dividono le congiunzioni subordinative? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le congiunzioni?

Le congiunzioni sono quelle parole, sempre invariabili, che servono a congiungere tra loro altre parole o intere frasi. Sono perciò dei connettivi, e a seconda di come sono strutturate (la loro forma) possono essere semplici o composte.

Tra le congiunzioni semplici ci sono: e, o, se, ma, però, che, dunque, anzi, quindi

E tra quelle composte le grammatiche annoverano: perché (formata da per + che), sebbene (= se + bene), seppure (= se + pure), neanche (= + anche)… Ma altre volte questa stessa funzione di connettere può avvenire non solo con queste parole semplici, ma anche con espressioni dallo stesso significato o dalla funzione analoga, e in questo caso sono classificate come locuzioni congiuntive, per esempio: come se, in modo che, tranne che, fino a che

Passando dalla loro forma alla loro funzione, un’altra distinzione fondamentale (soprattutto per l’analisi del periodo) che si può fare è quella di raggrupparle in due categorie a seconda del loro uso: le congiunzioni coordinanti e quelle subordinanti.

Le congiunzioni coordinanti (dette anche coordinative) collegano due parole o frasi che sono sullo stesso piano, per esempio:

cane e gatto (congiunzione tra parole)
compro un cane e regalo un gatto (collegamento tra due frasi indipendenti = che si reggono da sole)

sono coordinate dalla congiunzione e.

Le congiunzioni subordinanti (dette anche subordinative) congiungono invece due frasi che non sono sullo stesso piano, uno dipende dall’altro in una concatenazione che rende il secondo elemento subordinato, per esempio:

compro un cane per regalarlo a Silvia;

in questo caso il collegamento è tra una frase indipendente (che si regge da sola) e una frase dipendente dalla prima: per regalarlo non si regge da sola senza la principale (è una frase subordinata o dipendente).

Nell’esempio sopra, per che è di solito una preposizione (non una congiunzione) ha assunto il valore di congiunzione come può accadere spesso nelle forme implicite di una frase: “Corro per (= affinché, congiunzione) far presto” ha un valore finale che è diverso da: “Passo per (= attraverso) il centro”, con valore spaziale. Quindi, individuare quando una parola rientra in una certa categoria grammaticale, come sempre, dipende dal contesto. Sia le congiunzioni sia le preposizioni sono infatti dei connettivi (ma anche altre parti del discorso lo possono diventare a seconda del loro uso). Vedi anche → “Come distinguere gli avverbi da aggettivi, congunzioni e preposizioni“.

Volendo andare ancora più a fondo nelle classificazioni, le congiunzioni coordinanti vengono di solito distinte ulteriormente dalle grammatiche in varie tipologie:

copulative, congiungono due elementi: e, anche, inoltre, ancora (positive), , neppure, neanche, nemmeno (negative);
disgiuntive, separano gli elementi spesso escludendone uno: o, oppure, ovvero;
avversative, mettono in contrapposizione: ma, però, tuttavia, invece;
dichiarative o esplicative, spiegano un fatto: cioè, infatti, per esempio…;
conclusive, traggono delle conclusioni: dunque, quindi, perciò, pertanto, sicché…;
correlative, si usano per fare confronti, ma sono solo il raddoppiamento delle copulative: ee, siasia (“sia… che” è da evitare), tantoquanto, cosìcome, oraora,

Le congiunzioni subordinanti si possono invece distinguere a seconda dei rapporti logici che determinano (tempo, luogo, causa, scopo, conseguenza…), per esempio:

temporali: quando, mentre, finché, che, dopo che, prima che (es. mangio quando ho fame);
finali: finché, affinché, perché, per (mi corico per riposare);
consecutive: cosìche; tantoche, tantoda (è così bravo da saperlo);
concessive: benché, sebbene, per quanto (lavora sebbene sia malato);
condizionali: se, qualora, ove, casomai, nel caso che (vengo se mi inviti);
modali: come, siccome (ho fatto come mi hai detto);
comparative: come, nel modo che (mangia come parli);
interrogative: perché, come (dimmi perché non vieni);
dubitative: se (non so se verrò);
dichiarative: che, come (credo che tu sia nel giusto);
eccettuative o limitative: tranne che, eccetto che, a meno che, fuorché (fammi di tutto tranne il solletico).

Queste congiunzioni introducono spesso frasi subordinate che, a seconda del significato della congiunzione, danno alla frase dipendente valori diversi. Per esempio: mi tira la palla perché gli sono vicino (= causa) e mi tira la palla perché io faccia canestro (= affinché, frase finale). Dunque, nell’analisi del periodo bisogna sempre cogliere il significato e non guardare semplicemente alla singola parola slegata dal contesto.

Vedi anche
→ “E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche
→ “Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?

Le preposizioni

■ Quali preposizioni si possono articolare? ■ Perché si dice dagli (da + gli) ma “per gli”? ■ Meglio dire “con lo” o “collo”? ■ Meglio dire “tra” o “fra”? ■ Quali preposizioni si apostrofano e quali non si possono apostrofare? ■ Cosa sono le locuzioni prepositive? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni semplici? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni articolate? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni proprie? ■ Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni improprie?

Le preposizioni (dal latino praeponere, cioè “porre prima”) sono particelle chiamate così perché “si mettono prima” (su precede sempre il nome, per es. sul tavolo) e hanno una funzione di collegamento.
Possono collegare tra loro due parole (il cane di Marco, cibo per cani), si usano nel caso dei complementi indiretti (torno da Roma, vado con lui) e per legare insieme le frasi principali con quelle dipendenti (o subordinate): ti propongodi correre;  corro per allenarmi.

Oltre a quelle semplici e articolate che sono dette proprie, ci sono anche quelle improprie, e cioè che hanno gli stessi significati (per esempio sopra invece di su) o analoghe funzioni (per esempio davanti).

Preposizioni proprie semplici e articolate

Le preposizioni semplici, cioè di, a, da, in, con, su, per, tra e fra (come nella filastrocca che si impara a memoria), sono parti invariabili del discorso (non si volgono al singolare, plurale, maschile o femminile), ma quando si uniscono all’articolo in una parola sola (dello, della, degli, delle) diventano articolate, e in questo caso si concordano con le parole che precedono seguendo le regole degli articoli che le compongono.

Ma non sempre è possibile fondere preposizione con l’articolo in una preposizione articolata: da + il = dal, ma nel caso di per + lo non si usa “pello”.

Il prospetto che segue riassume ogni possibile caso di articolazione possibile e mostra i casi in cui non si articolano e rimangono separate.

Se in alcuni casi le preposizioni non si uniscono mai all’articolo (non si può dire “fralle” o “perle” al posto di fra le o per le), i casi indicati tra parentesi indicano le forme che grammaticalmente si possono articolare, ma nell’uso dell’italiano moderno tendono  a rimanere  staccate. Forme come “pei”, “pegli” o “pei” sono arcaiche e non si usano più, vivono solo nei libri del passato. Nel caso di collo, colla o colle si usano di frequente nel parlato, ma quando si scrive la tendenza moderna è di preferire le forme staccate, che suonano meglio e non creano confusioni con altre parole dallo stesso significato (il collo, il colle, la colla). Col e coi sono invece più diffuse.

Tra e fra e sono sinonimi perfetti, e scegliere una o l’altra forma dipende solo da motivi eufonici. Dire per esempio “tra trame” e “fra farfalle” produce  un bisticcio e suona quasi come uno scioglilingua, perciò è consigliabile usare forme come fra trame o tra farfalle. In tutti gli altri casi scegliere tra una e l’altra preposizione dipende solo dai gusti personali, entrambe sono perfettamente lecite (tra papaveri o fra papaveri).

Tra, fra e su talvolta si possono rafforzare attraverso l’aggiunta di “di”: si può dire fra di voi o su di voi… oppure fra voi e su voi, ancora una volta ognuno può scegliere la forma che preferisce. Per saperne di più vedi → “Sopra al o sopra il? Dubbi sull’uso delle preposizioni”.

Le preposizioni che si apostrofano
Anche se finiscono per vocale, fra, tra e su non si apostrofano mai (fra amici, e mai fr’amici), e anche da non si apostrofa di solito, tranne in alcune locuzioni come: d’altro canto, d’altra parte, d’ora innanzi, d’ora in poi, d’altronde…). La preposizione di invece si tende ad apostrofare: un gioiello d’oro, un vassoio d’argento, d’un tratto, tutto d’un pezzo, protocollo d’intesa… (vedi anche → “L’apostrofo: elisione e troncamento“).

La preposizione “a” può prendere la “d eufonica” e diventare “ad” solo quando precede una parola che comincia per “a” (per saperne di più → “E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche“).

Preposizioni improprie e le locuzioni prepositive

Le preposizioni improprie sono parole diverse dalle preposizioni proprie, anche se il loro significato o la loro funzione sono simili: invece di dire in (preposizione propria) è possibile dire dentro (preposizione impropria). Tra queste ultime, che sono sempre invariabili, ci sono anche parole che in altri contesti possono essere avverbi di luogo o di tempo come davanti, dietro, sopra, sotto, giù, dentro, fuori, vicino, presso, accanto, intorno, prima, dopo o aggettivi come secondo, salvo, lungo (aggettivi) e altre parole ancora usate con funzione di preposizione, come mediante, eccetto

Locuzioni prepositive
A volte le preposizioni improprie si appoggiano a preposizioni proprie; per esempio, invece di dire i calzini nel cassetto (preposizione propria) si può dire i calzini dentro il cassetto, ma anche i calzini dentro al cassetto (per saperne di più → “Sopra al o sopra il? Dubbi sull’uso delle preposizioni”). E in certi casi questi stessi significati si possono rendere anche con più di una parola, e in questo caso si parla di  locuzioni prepositive: per mezzo di, per opera di, a favore di, nell’interesse di, a causa di, a dispetto di

Lui può essere soggetto al posto di egli?

■ Lui, lei e loro possono essere soggetto? ■ Meglio dire lui andava o egli andava? ■ Quando è obbligatorio che lui diventi soggetto al posto di egli? ■ Nei Promessi sposi si trova “lui” come soggetto?

Un tempo si insegnava a non usare mai lui e lei come soggetto: così come i pronomi di prima persona me e te non possono essere soggetto (si dice io sono e non me sono), allo stesso modo lui (e lei) e il plurale loro erano consentiti nei casi fossero l’oggetto (guardo lui) o per altri complementi (parlo di lui, con lui, a lui…). Per il soggetto si prescriveva sempre egli (dunque egli parla, non lui parla), e per il plurale essi.

Nell’italiano corrente invece, soprattutto nel linguaggio diretto, queste formule sono sempre più diffuse, e sono state “sdoganate” anche da autori classici, a cominciare da Alessandro Manzoni che nei Promessi sposi usa frequentemente lui come soggetto: “Lui invece caccia un urlo”; “e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose…”

Lui, lei e loro spesso sono preferiti anche nella scrittura a egli, ella o essi che suonano di stile un po’ antico, e nel parlato non si sentono mai. Passando dalla grammatica, dove sono leciti, alle questioni di stile, va detto che molte volte nel discorso si tende a non usare il pronome personale e a sostituirlo con sinonimi del nome o con altri giri di parole. Per esempio: “Il lupo vide Cappuccetto rosso. La ragazzina stava raccogliendo i fiorellini” è un costrutto più diffuso di “Il lupo vide Cappuccetto rosso. Lei stava raccogliendo i fiorellini”.

Ci sono però casi in cui l’uso di lui, lei e loro come soggetto sono obbligatori, per esempio:
● quando sono collocati dopo il verbo: lo dice lui (e mai “lo dice egli”!);
● quando sono preceduti da anche, nemmeno, più…: nemmeno lui (mai “nemmeno egli”), più lui fa così e piùanche lui, anche se lui…;
● nelle esclamazioni come proprio lui, beato lui;
● nei dialoghi di tipo teatrale: Lui – “Vieni!” Lei – “Arrivo!”;
● nelle contrapposizioni: lui era alto, lei bassa; tanto lui quanto lei…;
● quando il pronome è da solo: chi è stato? Lui;
● per dare risalto al pronome soggetto: lui sì che è una persona davvero intelligente.

La forma del verbo attiva e passiva

■ Che cos’ è la forma passiva? ■ Come si riconosce la forma passiva? ■ Come si fa la forma passiva? ■ Che differenza c’è tra “sono trasportato” e “vengo trasportato?” ■ Qual è il trucco per distinguere una forma passiva come “sono chiamato” e una attiva come “sono andato”? ■ Che cos’è il si passivante? ■ La forma passiva si può fare anche con il verbo “venire”? ■ Tutti i verbi possono avere la forma passiva? ■ Il “si passivante” è solo impersonale?

Tutti i verbi possiedono una forma attiva, dove il soggetto è quello che compie l’azione, come si dice generalmente, o comunque si trova nello stato che il verbo esprime (il cane mangia l’osso; il cane corre).

Ma il verbo può assumere anche altre forme, come quella riflessiva (in cui l’azione si rivolge verso sé stessi, per es. il gatto si lava) e quella passiva.

Nella forma passiva avviene un ribaltamento della struttura della proposizione e il soggetto grammaticale “subisce” l’azione espressa dal verbo:

il cane (soggetto) mangia (predicato verbale attivo) l’osso (complemento oggetto)

si può rovesciare in

l’osso (soggetto) è mangiato (predicato verbale passivo) dal cane (complemento di agente).

Attraverso questa forma, il soggetto non è più chi compie l’azione, ma chi la subisce: il cane è il soggetto logico, ma non quello grammaticale che diventa l’osso, cioè quello che nella forma attiva era l’oggetto.

Per compiere questo ribaltamento è perciò necessario che ci sia un complemento oggetto, altrimenti non è possibile. Per questo motivo solo i verbi transitivi, quelli che rispondono alle domande “Chi? Che cosa?” e reggono il complemento oggetto possono essere “rigirati”. I verbi intransitivi non possiedono la forma passiva.

Più nel dettaglio, per volgere una frase al passivo si devono compiere tre trasformazioni:

il complemento oggetto diventa soggetto;
il soggetto diventa complemento d’agente (per le persone) o di causa efficiente (per le cose);
il verbo si volge nella forma passiva.

Come si coniuga la forma passiva? Molto semplicemente: basta unire la coniugazione del verbo essere al participio passato. Per esempio io lodo al passivo diventa io sono lodato, io temo → sono temuto, io servo → sono servito e così via per ogni coniugazione e per ogni tempo (se non fosse chiaro è possibile vedere la tabella con un paradigma coniugato per intero).

Un trucco per riconosere i passivi

Bisogna fare attenzione a non confondere la forma passiva con un normale tempo composto attivo con il verbo essere! In altre parole, nella pratica, quando si trovano forme come “è mangiato”, “è calciato”, “è sollevata” come si possono distinguere dalle forme del passato prossimo attivo di verbi intransitivi che non hanno il passivo come “è andato”, “è sbiadito” o “è piovuto”?

Un trucco pratico è quello di sostituire il verbo essere con il verbo venire. Il passivo infatti si può costruire anche con venire oltre che essere. Se questa sostituzione è possibile senza snaturare il senso della frase vi trovate di fronte a un passivo, altrimenti si tratta di un tempo composto di una forma attiva.

Perciò:

sono forme passive: l’osso è (viene) mangiato; il pallone è (viene) calciato; la vela è (viene) sollevata;
sono certamente forme attive di normali tempi composti: è andato, è sbiadito o è piovuto (che non consentono alcuno scambio tra essere e venire).

Questo sistema, però, funziona solo con il presente: l’osso è stato mangiato non si può sostituire con “l’osso è venuto mangiato”, ma non è poi così difficile volgere al presente una frase, in caso di dubbi.

Il si passivante

C’è anche un’altra modalità  per rendere la forma passiva: il si passivante, che si forma appunto con si seguito dalla terza persona singolare o plurale del verbo transitivo, per esempio:

si accettano (= sono/vengono accettati) buoni pasto;
si mangia (= viene mangiata) la minestra;
si sconta (= viene scontata) tutta la merce.

Questo ultimo modo di formare il passivo è però impersonale (non si riferisce a una persona come io o tu), e si può fare solo quando il complemento di agente o di causa efficiente non è espresso.

Voglio che sia ma vorrei che fosse

■ Perché si dice “voglio che sia” ma “vorrei che fosse”? ■ Si può dire “desidererei che sia”? ■ Meglio dire “mi piacerebbe che sia” o “mi piacerebbe che fosse”?


Quando si usa il congiuntivo, per esprimere la contemporaneità nel presente con la principale si usa di solito il congiuntivo presente, per esempio:

immagino che tu sappia
voglio che sia.

Ma quando nella principale c’è un condizionale (e non un indicativo) di un verbo di volontà o desiderio, per esprimere la contemporaneità nel presente non si usa il congiuntivo presente, ma il congiuntivo imperfetto.

Dunque si dice:

vorrei che tu fossi

e non:

vorrei che tu sia.

Riassumendo: si dice voglio che sia, ma vorrei che fosse, come cantava Mina.

Congiuntivo o indicativo? Attenzione alle negazioni

■ Perché si dice “so che è” ma “non so se sia””? ■ Perché si dice “sono sicuro che è” ma “non sono sicuro che sia”? ■ Meglio dire “non ti ho raccontato perché ha fatto tardi” o “non ti ho raccontato perché abbia fatto tardi”?

L’indicativo si usa per esprimere certezze e il congiuntivo è invece più adatto per esprimere il mondo della possibilità, dunque davanti a verbi come dire, affermare, constatare, dichiarare, vedere, sentire, accorgersi, scoprire, spiegareseguiti da che si usa sempre l’indicativo:

ho visto e sentito che Marco ha fatto un tuffo
ti ho detto che ho preso il tram
si è accorto che era in ritardo…

Tuttavia, in alcuni casi, si può usare il congiuntivo in presenza di una negazione che cambia le cose, per esempio:

so che ha (e mai abbia) un vestito nuovo

al negativo si può esprimere preferibilmente con:

non so se abbia un vestito nuovo
(è più corretto ed elegante di non so se ha un vestito nuovo).

In questo costrutto il che si trasforma in se, e il verbo sapere, al negativo, perde la sua oggettività e si trasforma in un verbo che esprime un’incertezza. Lo stesso vale per un’espressione come:

                                            sono sicuro che ti sei sbagliato

che al negativo si può rendere meglio con:

                                            non sono sicuro che ti sia sbagliato.

Ciò non vale solo per le frasi introdotte da che, ma anche da altre congiunzioni, per esempio:

ti ho raccontato perché ho deciso di non andare al lavoro
non ti ho raccontato perché avessi deciso/ho deciso di non andare al lavoro.


La scelta del congiuntivo in questi casi non è obbligatoria, ma più elegante.


Questo articolo è tratto da:
Antonio Zoppetti,
Sos congiuntivo for dummies,
Hoepli, Milano 2016.

“Penso che è” o “penso che sia”? (Dubbi sul congiuntivo)

■ Si dice “penso che è” o “penso che sia”? ■ Quando si usa il congiuntivo e quando l’indicativo? ■ Perché si dice “ho notato che è” ma “dubito che sia? ■ Perché si dice “sono partito dopo che è arrivato” ma “sono partito prima che arrivasse? ■ Perché si dice “mi tira la palla perché sono vicino” ma “mi tira la palla perché io faccia canestro?

Si dice penso che sia (congiuntivo) o penso che è (indicativo)?

Si può dire in tutti e due i modi. E poiché il congiuntivo è soprattutto il modo verbale indicato per l’incertezza, la possibilità e l’impossibilità, la prima frase esprime un dubbio (lascia intendere che potrei sbagliarmi e che potrebbe non essere così), mentre la seconda è perentoria e lascia intendere che è di scuro così come penso (penso = è vero, è senza dubbio così).

Per fugare un po’ di dubbi e incertezze su quando usare il congiuntivo e quando usare l’indicativo si possono prendere in considerazione le seguenti frasi:

ho notato → che sei furbodubito → che tu sia furbo
mangia → quando ha famemangia → prima che passi la fame
mi tira la palla → perché vuole giocaremi tira → la palla perché io faccia gol

Anche se la struttura di queste frasi è molto simile, negli esempi a sinistra le frasi dipendenti dalla principale (quelle dopo la freccia) sono espresse obbligatoriamente con il modo indicativo, negli altri tre di destra è invece obbligatorio l’uso del congiuntivo.

La scelta del modo corretto a seconda dei casi, semplificando, dipende da almeno tre fattori:

dal tipo di verbo della reggente che può esprimere oggettività o certezza (indicativo), oppure dubbio, possibilità o convinzione soggettiva (congiuntivo);
dal tipo di frase dipendente (causale, temporale, finale…);
dalle congiunzioni che legano la dipendente con la principale (quando, perché…).

Poiché l’indicativo è il modo della certezza e dell’oggettività, e il congiuntivo della possibilità, dell’impossibilità e della soggettività (volontà, desiderio, sentimenti personali), si dice:

ho notato che sei bravo, ma dubito che tu sia bravo.

Anche il tipo di frase dipendente aiuta a capire quale modo usare, e le frasi temporali (quelle che rispondono alla domanda: “Quando?”) di solito vogliono l’indicativo (parti quando sei pronto) a meno che non siano introdotte dall’espressione “prima che” che vuole obbligatoriamente il congiuntivo: parto (quando?) prima che sia tardi (dunque: “Sono partito dopo che è arrivato” ma “sono partito prima che arrivasse).

Nell’ultimo esempio del nostro elenco, infine, la scelta di indicativo o congiuntivo dipende dal significato di perché: nel primo caso esprime una causa e introduce una frase dipendente causale (mi tira la palla → perché vuole giocare) che vuole l’indicativo; nel secondo caso è sostituibile da affinché (= allo scopo di, al fine di) ed esprime una dipendente finale che vuole il congiuntivo: mi tira la palla → perché (= affinché) io faccia canestro.


Questo articolo è tratto da:
Antonio Zoppetti,
Sos congiuntivo for dummies,
Hoepli, Milano 2016.

Condizionale: si può dire “se sarebbe”?

■ È vero che non si può MAI dire “se sarebbe”? ■ Nelle ipotesi si può dire “se sarebbe”? ■ Nelle interrogative indirette (mi domando se…) si può dire “se sarebbe”? ■ Nelle frasi concessive introdotte da “anche se…” si può dire “se sarebbe”?

Nelle ipotesi, cioè nei periodi ipotetici, non si può mai e poi mai usare il se + condizionale (se sarebbe), è uno degli errori più diffusi da evitare. Si dice:


                se fosse vero (e mai se sarebbe vero) sarebbe bello;
               se potessi (e mai se potrei) lo farei;
               se venisse (e mai se verrebbe) vedrebbe con i suoi occhi.

In questi casi il condizionale si usa nella principale (sarebbe bello), mentre l’ipotesi si formula sempre con se + congiuntivo.

Tuttavia, fuori dai periodi ipotetici e dalle ipotesi, se seguito dal condizionale è corretto nelle frasi concessive perlopiù davanti all’espressione “anche se”, per esempio:

                anche se sarebbe giusto fare una pausa, continuiamo!
                anche se potrebbe funzionare, meglio non perderci tempo.
                anche se avrebbe potuto evitare quell’errore, non ci ha pensato…
               

Si può usare anche nelle interrogative indirette:

                mi chiedo se sarebbe giusto…
                non so se potrebbe andare bene…
                mi domando se sarebbe opportuno…

Questi casi non rappresentano delle ipotesi!


Questo articolo è tratto da:
Antonio Zoppetti,
Sos congiuntivo for dummies,
Hoepli, Milano 2016.

Il condizionale nelle ipotesi (i periodi ipotetici)

■ Cosa sono le frasi condizionali? ■ Cosa sono la protasi e l’apodosi? ■ Cosa sono i periodi ipotetici? ■ Cos’è il periodo ipotetico della realtà? ■ Cos’è il periodo ipotetico della possibilità? ■ Cos’è il periodo ipotetico dell’impossibilità? ■ Come si combina il condizionale con il congiuntivo nei periodi ipotetici? ■ Quali sono esempi di frasi con periodi ipotetici?

Il condizionale si impiega soprattutto nelle ipotesi, e il suo nome deriva proprio dal fatto che è un modo per esprimere una conseguenza che si verifica solo a certe condizioni:

volerei (conseguenza) → se (= a condizione che) fossi un gabbiano.

Il più delle volte la condizione è espressa da se, ma non necessariamente, a volte può essere espressa anche da che, qualora, laddove, caso mai, semmai, purché, nell’eventualità di, nell’ipotesi che, a patto che, a condizione che, ammesso che

Per esempio:
vorresti una casa che (= se) non avesse il balcone?
Perdoneresti un amico qualora (= se) ti tradisse?
Mangerei qualunque cosa purché (= se) non contenesse carne.
Ti aiuterei laddove (= se) ci fosse la necessità.


Questo tipo di frasi si chiamano condizionali e sono formate da un’ipotesi (in grammatica si chiama protasi) e da una conseguenza (detta apodosi). Molto spesso la condizione introdotta da se (o dalle altre parole) precede l’ipotesi (se potessi andrei in vacanza), ma non sempre (si può anche dire: andrei in vacanzase potessi).


Queste frasi ipotetiche, che prendono il nome di periodi ipotetici, richiedono il condizionale (nella principale) associato al congiuntivo (nella subordonata) solo quando esprimono qualcosa di possibile o di impossibile, mentre quando l’ipotesi  è certa si formulano con l’indicativo, per esempio:

se metti la cravatta sei elegante (o se continua a piovere rimango a casa) esprime qualcosa dato come certo
(periodo ipotetico della realtà → indicativo + indicativo);

se mettessi la cravatta saresti elegante (o se continuasse a piovere rimarrei in casa) esprime invece qualcosa dato come possibile (potrebbe anche non accadere: periodo ipotetico della possibilità → condizionale + congiuntivo);

se avessi messo la cravatta saresti elegante (o se avesse continuato a piovere sarei rimasto in casa) esprime infine qualcosa di impossibile (dato che non è accaduto: periodo ipotetico dell’impossibilità → condizionale + congiuntivo).

Vedi anche
→ “Il congiuntivo nelle subordinate
→ “Condizionale: si può dire se sarebbe?

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