Quando il pronome personale, per es. egli, è obbligatorio e quando si può omettere?

Se nella frase non c’è un cambio di soggetto che richiede un pronome, meglio evitare il pronome soggetto (io, tu, egli…) che si lascia sottinteso: “mangio” e non “io mangio”.

I pronomi personali (io, tu, egli…) in italiano perlopiù si evitano e si sottintendono. Non c’è bisogno di dire “io penso”, basta “penso”: io è sottinteso; quando lo si aggiunge è perché si vuole rimarcare il proprio io, e se non ce n’è bisogno risulta un stile un po’ egoistico.

Se non c’è un cambio di soggetto nel periodo che richiede di specificare il nuovo soggetto con un pronome, specificare tu o egli il più delle volte è inutile e ridondante. Per esempio:

Cappuccetto rosso incontrò il lupo. Egli la vide e sì avvicinò quatto quatto. (Egli) poi le disse…

Il primo egli specifica: “quest’ultimo”, ed è preferibile perché altrimenti il soggetto sottinteso sarebbe Cappuccetto (anche se a senso la frase sarebbe comprensibile). Il secondo egli è del tutto inutile e ripeterlo suona fastidioso.

Per saperne di più sui pronomi → I pronomi personali e le loro insidie.

Che differenza c’è tra i pronomi egli/ella e esso/essa?

Egli ed ella si usano per le persone, esso ed essa si riferiscono alle cose o agli animali.

L’uso dei pronomi egli ed ella si riferisce alla persone, mentre esso ed essa è più adatto per le cose o gli animali. Ma va detto che queste forme sono sempre più disuso sia nel parlare, e poco frequenti anche nello scrivere (si ritrovano invece spesso negli scritti del passato e vivono nelle tabelle con le coniugazioni dei verbi).
Anche se queste forme sono grammaticalmente lecite, si tendono a evitare attraverso l’uso di sinonimi (es. ella era viene specificato: la ragazza/donna, Mariaera…) e per le persone si sostituiscono sempre più spesso con lui, lei e loro.

Per saperne di più → I pronomi personali e le le loro insidie.

Si può dire “a me mi”?

Anche se una leggenda grammaticale lo bolla come errore, non c’è una ragione per evitare un rafforzativo come “a me mi”, che si trova anche in importanti testi di letteratura (Manzoni, Tasso, Verga…).

Dire “a me mi” è bollato come errore perché rappresenta una ripetizione dello stesso concetto. Eppure, poiché la lingua è non è logica, ma soprattutto metafora, tra le figure retoriche c’è proprio il pleonasmo, la ripetizione di una stessa cosa, un rafforzativo che ha il suo senso, se lo si usa nel modo giusto.

Biasimare l’uso di “a me mi” è dunque ingiustificato, anche perché è attestato nei Promessi sposi, nella Gerusalemme liberata di Tasso (“…fu rapina e parve dono, ché rendendomi a me da me mi tolse”) o nelle Novelle di Verga (“A me mi hanno detto delle altre cose ancora!”).

Tuttavia, poiché l’espressione è diventata il simbolo di un cattivo italiano, anche se lecita, utilizarla può essere controproducente: il rischio è di passare per ignoranti.

Per approfondire → Si può dire “a me mi”?

“Lui”, “lei” e “loro” possono essere soggetto?

Se un tempo “lui”, “lei” e “loro”, quando erano soggetto, erano sostituiti da “egli”, “ella” ed “essi”, oggi sono accettabili e in alcuni casi preferibili.

Un tempo si insegnava a non usare mai lui e lei come soggetto: così come me e te non possono essere soggetto (si dice io sono e non me sono), allo stesso modo lui (e lei) e il plurale loro erano consentiti nei casi fossero l’oggetto (guardo lui) o per altri complementi (parlo di lui, con lui, a lui…). Per il soggetto si prescriveva sempre egli/ella (dunque egli parla, non lui parla), e per il plurale essi/esse.

Nell’italiano corrente invece, soprattutto nel linguaggio diretto, queste formule sono sempre più diffuse, e sono state “sdoganate” anche da autori classici, a cominciare da Alessandro Manzoni che nei Promessi sposi usa frequentemente lui come soggetto: “Lui invece caccia un urlo”; “e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose…”.

Per saperne di più sui pronomi → Lui può essere soggetto al posto di egli?

“Questo”, “quello”, “mio”… quando sono pronomi e quando aggettivi?

Quando “questo” o “mio” sono da soli e stanno al posto del nome sono pronomi, se invece accompagnano il nome (questo libro) sono aggettivi.

Pronome significa “che sta al posto del nome” (pro nomen), cioè lo sostituisce, dunque i pronomi sono spesso dei “segnaposto” che si usano per evitare di ripetere una stessa parola, per economicità e per non appesantire una frase.

Se parliamo di un libro, possiamo dire prendi questo o dammi il mio (= libro), dove questo e mio sono pronomi (rispettivamente dimostrativo e possessivo). Ma le stesse parole possono anche essere aggettivi quando non stanno al posto del nome, ma lo accompagnano e lo qualificano, per es. questo libro (aggettivo dimostrativo) o il mio libro (aggettivo possessivo).


Per approfondire le funzioni dei pronomi → I pronomi: quali sono e che funzione hanno.

Come si può distinguere il “che” congiunzione dal “che” pronome?

Bisogna esplicitarlo per capire se significa per es. “il quale” (= pronome) o se è una congiunzione che non si può sostituire.

Che” può assumere tantissimi diversi significati, e nell’analisi logica, per fare un po’ di chiarezza va sempre esplicitato per capire che cosa significa nel contesto e come si può di volta in volta trasformare.

In casi come l’uomo che (= il quale) corre è un pronome. Può essere invece un aggettivo quando diciamo che (= quale) giacca indossi? In espressioni come ti dico che sei bravo il “che” è invece una congiunzione.

Per approfondire → I tanti valori di “che”.

Perché si dice “io guardo”, ma non si può dire “lui guarda io”?

Il pronome personale “io” si può usare solo quando è soggetto, se è complemento oggetto si trasforma in “me”.

La prima persona singolare del pronome io è sempre soggetto (es. io guardo te), quando diventa un complemento si trasforma in me (tu guardi me). Lo stesso vale per tu che diventa te e egli che diventa lui o . Queste forme, dette forti, possono diventare forme deboli quando sono espresse da mi, ti e gli, che perdono questo accento marcato forte e si possono trasformare in suffissi enclitici dall’accento debole (= che si aggiungono in fondo alla parola precedente appoggiandosi al loro accento), per esempio: dà a me si può trasformare in mi dai o anche dammi.

Per approfondire → I pronomi personali e le loro insidie.

Meglio scrivere “sé stesso” o “se stesso”?

La tradizione molto consolidata di scrivere “se stesso” in tempi recenti è stata messa in discussione e bollata come “leggenda grammaticale” priva di senso. Dunque molti editori e importanti linguisti ultimamente preferiscono “sé stesso”, perciò non c’è una regola affermata in modo condiviso.

Nei monosillabi, in linea di massima, si mette l’accento quando esistono delle ambiguità che li possono far confondere con altri dal diverso significato: se congiunzione e pronome. Nel Novecento si è consolidata nell’editoria e sulle grammatiche la regola per cui, venendo a mancare l’ambiguità, nel caso di seguito da stesso e medesimo, la corretta ortografia prevedesse la forma senza accento: se stesso. In tempi recenti questa consuetudine è stata messa in discussione e bollata come “leggenda grammaticale” priva di senso da parte di alcuni linguisti, alcuni dizionari e alcuni editori che consigliano invece di non omettere mai l’accento, dunque: sé stesso e sé medesimo.

In sintesi, attualmente non esiste una regola affermata in modo condiviso.

Per approfondire questa vicenda → Si scrive “se stesso” o “sé stesso”?

Quando si può usare “codesto” al posto di “quello”?

Codesto in italiano non si usa, vive solo nel dialetto toscano.

Anche se spesso le grammatiche continuano a riportare codesto tra gli aggettivi o i pronomi dimostrativi, non si usa!

In teoria servirebbe a indicare qualcosa che è vicino a chi ascolta; dunque, dalla sua cattedra, un professore direbbe all’alunno seduto in un banco: mostrami codesto compito (invece di quel). Ma questa forma arcaica è caduta in disuso e vive solo come regionalismo nella parlata toscana, non fa parte dell’italiano nazionale. Circola solo nel gergo burocratico con un significato diverso (mi rivolgo a codesta istituzione per…).

Per fugare altri dubbi sull’uso degli aggettivi → Gli aggettivi: cosa sono e come si dividono.

Meglio dire “l’uomo A CUI ho scritto” o “l’uomo CUI ho scritto”?

Si può dire sia “a cui” (più discorsivo), sia “cui” (più altisonante, perché si appoggia al significato latino)

Quando “cui” ha la funzione di complemento di termine, e cioè risponde alle domande “a chi? a che cosa?”, è possibile omettere la “a” e usare solo cui, che in latino era la forma già declinata con lo stesso significato.

Dunque si possono usare entrambe le forme: “a cui” è più discorsivo e colloquiale, la forma “cui” è invece più ricercata e dotta perché omette la preposizione con un impiego del pronome già declinato alla latina.

Attenzione: quando cui esprime altri complementi, invece, non è possibile omettere la preposizione: si può dire l’uomo (a) cui ho scritto, ma si dice sempre l’uomo di cui ti ho parlato, l’uomo per cui lavoro

Per risolvere altri dubbi sull’uso dei pronomi → I pronomi relativi.

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