Quando il pronome personale, per es. egli, è obbligatorio e quando si può omettere?

Se nella frase non c’è un cambio di soggetto che richiede un pronome, meglio evitare il pronome soggetto (io, tu, egli…) che si lascia sottinteso: “mangio” e non “io mangio”.

I pronomi personali (io, tu, egli…) in italiano perlopiù si evitano e si sottintendono. Non c’è bisogno di dire “io penso”, basta “penso”: io è sottinteso; quando lo si aggiunge è perché si vuole rimarcare il proprio io, e se non ce n’è bisogno risulta un stile un po’ egoistico.

Se non c’è un cambio di soggetto nel periodo che richiede di specificare il nuovo soggetto con un pronome, specificare tu o egli il più delle volte è inutile e ridondante. Per esempio:

Cappuccetto rosso incontrò il lupo. Egli la vide e sì avvicinò quatto quatto. (Egli) poi le disse…

Il primo egli specifica: “quest’ultimo”, ed è preferibile perché altrimenti il soggetto sottinteso sarebbe Cappuccetto (anche se a senso la frase sarebbe comprensibile). Il secondo egli è del tutto inutile e ripeterlo suona fastidioso.

Per saperne di più sui pronomi → I pronomi personali e le loro insidie.

Si può cominciare una frase con “ma”?

Non ci sono ragioni per evitare di cominciare una frase con “ma”, e bisogna sfatare la leggenda grammaticale per cui non sarebbe possibile, per vedere semmai a seconda dei casi quando non è consigliabile.

Dire che non si può cominciare una frase con “ma” è una leggenda grammaticale da sfatare. Prima di tutto “ma” non ha solo un valore avversativo, può anche esprimere contrarietà, stupore (per esempio: “Ma pensa un po’”, “Ma va?”). Anche con valore avversativo, va poi detto che, a seconda dello stile, è possibile scrivere una frase con una punteggiatura dalle pause deboli espresse con la virgola (Ero stanco, ma tirai avanti ugualmente), oppure amplificarle con il punto (Ero stanco. Ma tirai avanti ugualmente).

Di frasi che iniziano con “ma” è piena la letteratura, a cominciare dai Promessi sposi: “Si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi…”.

Per saperne di più → Si può dire “ma però”? E altri dubbi su “ma”.

Cos’è un pleonasmo?

Il pleonasmo è una ridondanza, uno specificare ciò che è già stato detto (“requisiti richiesti”, “a me mi”).

Il pleonasmo consiste nello specificare cose superflue: “Sono stato al matrimonio di Carlo, che si è sposato”; “i requisiti richiesti”, “a me mi piace”, “salire su”. In senso negativo, qualcosa di pleonastico è superfluo, viola le regole della buona scrittura che dovrebbe essere essenziale ed eliminare tutto ciò che non è necessario, ma altre volte è invece una figura retorica, un artificio narrativo voluto che serve a rimarcare una parola o a rafforzare un concetto, per es. “…sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui” (Promessi sposi).

I titoli dei libri si scrivono con le virgolette o in corsivo?

I titoli dei libri si scrivono in corsivo, come le opere o i giornali e le riviste, mentre tra virgolette si indicano le loro parti (un capitolo, o il titolo di un articolo all’interno di una rivista).

Le norme editoriali prevedono che, nelle indicazioni bibliografiche, le virgolette si usino per le citazioni dei capitoli di un libro o delle parti interne di un’opera, per esempio il titolo di un articolo di un giornale o di una rivista, oppure il capitolo di un libro, es: Giovanni Verga “La lupa”, Vita dei campi.

I titoli dei libri, delle opere o delle riviste si scrivono invece in corsivo, es. I promessi sposi; L’espresso; Corriere della Sera.

Per approfondire l’uso delle virgolette → Le virgolette.

Dopo il punto esclamativo (!) e interrogativo (?) è sempre obbligatoria la maiuscola?

Punto esclamativo e interrogativo sono segni di chiusura forti che prevedono di continuare con la maiuscola, tranne quando sono usati in modo continuativo.

Punto esclamativo (!) e interrogativo (?) chiudono una frase con la forza di un punto fermo e dunque successivamente il discorso procede con l’iniziale maiuscola: “Sei sicuro?” Mi disse. “Certo!” Risposi.

Tuttavia, in alcuni casi sporadici, quando l’esclamazione o la domanda sono integrate all’interno di una frase in modo che il discorso continui è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola (es. “si dice – sarà vero? – che le piante sentano), una consuetudine diffusissima in passato e anche fino a pochi decenni fa, che oggi è invece più rara:

● “Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto!” (I promessi sposi);
“Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?” (I promessi sposi).

Naturalmente, stabilire quando un discorso continua, e quando no, non è una regola rigida, ha margini di soggettività e in alcuni casi può essere una scelta dell’autore.

Per approfondire → Maiuscole e minuscole.

“C” e “g” sono palatali o gutturali?

“C” e “g” sono palatali quando sono pronunciate dolci (cena, giallo), e gutturali quando sono dure (corsa, guaio).

L’articolazione delle consonanti dipende da come vengono prodotte con il movimento della bocca e della lingua: le palatali sono la c e la g dolci (cioè pronunciate come in cesto e gelato) e si chiamano così perché vengono articolate con la lingua che si poggia sul palato.

La c e g dure (come la q) di casa, gatto (e questo) sono invece dette gutturali, perché la lingua appoggia verso la gola

Per approfondire → Fonologia e fonetica.

Perché la pronuncia corretta di “incavo” è “incàvo” (e non “ìncavo”)?

“Incavo” deriva da “incavare” e si pronuncia con l’accento sulla “a” (non sulla “i”)

Anche se di frequente la parola “incavo” viene letta erroneamente “ìncavo” (con l’accento sulla “i”), la corretta pronuncia è “incàvo” (con l’accento sulla “a”), come “cavo”, visto che deriva da “incavare” (che come “io scavo” si coniuga in “io incàvo”, tu “incàvi”…).

La pronuncia meno corretta si è diffusa per analogia con la parola “concavo” (pron. còncavo), che però ha un diverso etimo, deriva dal latino concavus, che ha un’altra pronuncia.

Per un elenco delle altre parole che presentano incertezze nella loro accentazione (edile, utensile, rubrica…) → Dubbi di pronuncia.

Meglio scrivere “bum” o “boom”?

“Boom” è inglese ed è stato italianizzato in “bum” quando è un’onomatopea. Quando invece si parla di “boom economico” si usa di solito l’inglese.

Il suono onomatopeico di un’esplosione tipico dei fumetti in inglese è boom, ma in italiano si può scrivere meglio bum. Invece, nelle espressioni in cui la parola è usata come un forestierismo preso direttamente dall’inglese, per esempio il boom economico o il boom supersonico è maggiormente in uso scrivere la parola all’inglese, invece di adattarla.

Per approfondire il tema dei forestierismi, vedi anche → Il plurale dei nomi stranieri e Il genere dei nomi stranieri.

Come distinguere un avverbio (corro veloce) da un aggettivo (l’uomo veloce)?

Gli avverbi, al contrario degli aggettivi, sono sempre parti del discorso invariabili (non si possono volgere al plurale o al maschile/femminile).

Alcune parole possono essere avverbi o aggettivi a seconda del contesto. Dire che qualcuno corre veloce (avverbio = velocemente) è diverso dal caso di un uomo veloce (aggettivo, al plurale uomini veloci). Questa considerazione può aiutare molto, nell’analisi grammaticale, in caso di dubbi.

Per saperne di più → Gli avverbi.

Si dice “penso che è” o “penso che sia”?

Si può dire in tutti e due i modi: a seconda del modo cambia la sfumatura del significato

Non è obbligatorio usare il congiuntivo in una frase come “penso che sia”, è lecito anche dire “penso che è”. Poiché il congiuntivo è soprattutto il modo verbale che si usa per esprimere l’incertezza, la possibilità e l’impossibilità, la prima frase esprime un dubbio (lascia intendere che potrei sbagliarmi e che potrebbe non essere così: penso = suppongo), mentre la seconda è più perentoria e lascia intendere che è di sicuro così come penso (penso = è vero, è senza dubbio così).

Per approfondire → “Penso che è” o “penso che sia”? (Dubbi sul congiuntivo).

Che differenza c’è tra i pronomi egli/ella e esso/essa?

Egli ed ella si usano per le persone, esso ed essa si riferiscono alle cose o agli animali.

L’uso dei pronomi egli ed ella si riferisce alla persone, mentre esso ed essa è più adatto per le cose o gli animali. Ma va detto che queste forme sono sempre più disuso sia nel parlare, e poco frequenti anche nello scrivere (si ritrovano invece spesso negli scritti del passato e vivono nelle tabelle con le coniugazioni dei verbi).
Anche se queste forme sono grammaticalmente lecite, si tendono a evitare attraverso l’uso di sinonimi (es. ella era viene specificato: la ragazza/donna, Mariaera…) e per le persone si sostituiscono sempre più spesso con lui, lei e loro.

Per saperne di più → I pronomi personali e le le loro insidie.

Quando si usano i puntini di sospensione?

I puntini di sospensione si usano per indicare un elenco che può continuare, per lasciare il discorso in sospeso o per qualcosa che non viene espresso, e anche per indicare omissioni (…).

I puntini di sospensione si usano per indicare un elenco di esempi che può continuare (ho mangiato salame, prosciutto, mortadella, formaggio…), ma anche per lasciare un discorso in sospeso (non saprei…) o per marcare un’allusione che non viene esposta: con la faccia che si ritrova… (lascia intendere all’interlocutore di che faccia si tratti).

NB
Un errore frequente è quello di abusarne, in questo senso allusivo. Vanno usati con moderazione senza esagerare il loro prevalere sulla punteggiatura normale, il che si ritrova spesso nella scrittura in Rete, es.:

Sono andato al mare… c’era un sacco di gente… non si riusciva a trovare posto… ed è stato uno strazio…

è un periodo inaccettabile, stando alle buone regole della punteggiatura.

In editoria i tre puntini di sospensione si usano anche tra parentesi per indicare l’omissione di una parte di un testo citato: “Quel ramo del lago di Como (…) vien (…) a ristringersi”.

Per approfondire → I puntini di sospensione.

Che differenza c’è tra accenti tonici e accenti grafici?

Gli accenti tonici di una parola sono quelli su cui la voce cade con maggior forza, e si pronunciano ma non si scrivono, al contrario degli accenti grafici che è necessario scrivere (es. maestà).

Gli accenti tonici sono quelli dove la voce cade con maggior forza, nel pronunciare una parola. Per esempio, prìncipi (= i reali) e princìpi (= i valori) hanno rispettivamente l’accento tonico che cade sulla terzultima e sulla penultima sillaba. Sono accenti che si pronunciano ma non si scrivono.
Gli accenti grafici, invece, sono quelli che è obbligatorio scrivere per non violare l’ortografia, es. giù, (= affermazione, da non confondere con il si riflessivo).

Per saperne di più → La pronuncia delle parole: accenti tonici.

Cos’è un anacoluto?

L’anacoluto è un costrutto sintattico volutamente sconnesso.

L’anacoluto è un costrutto sintattico errato, in cui il primo elemento del discorso, per esempio, è slegato, campato in aria, sconnesso o senza una continuazione, ma che in questo modo è messo in risalto. È spesso perciò una figura retorica, cioè una tecnica narrativa, un artificio letteraio voluto, più che un errore sintattico.

Tra gli anacoluti più noti ci sono quelli dei personaggi manzoniani:

“Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro”;
“lei sa che noialtre monache, ci piace sentire le storie…”.

Si può dire “a me mi”?

Anche se una leggenda grammaticale lo bolla come errore, non c’è una ragione per evitare un rafforzativo come “a me mi”, che si trova anche in importanti testi di letteratura (Manzoni, Tasso, Verga…).

Dire “a me mi” è bollato come errore perché rappresenta una ripetizione dello stesso concetto. Eppure, poiché la lingua è non è logica, ma soprattutto metafora, tra le figure retoriche c’è proprio il pleonasmo, la ripetizione di una stessa cosa, un rafforzativo che ha il suo senso, se lo si usa nel modo giusto.

Biasimare l’uso di “a me mi” è dunque ingiustificato, anche perché è attestato nei Promessi sposi, nella Gerusalemme liberata di Tasso (“…fu rapina e parve dono, ché rendendomi a me da me mi tolse”) o nelle Novelle di Verga (“A me mi hanno detto delle altre cose ancora!”).

Tuttavia, poiché l’espressione è diventata il simbolo di un cattivo italiano, anche se lecita, utilizarla può essere controproducente: il rischio è di passare per ignoranti.

Per approfondire → Si può dire “a me mi”?

Quali sono (e come si scrivono) i versi degli animali?

I versi degli animali si possono esprimere sia in modo onomatopeico (bau, miao, chicchirichì…) sia con parole che designano più precisamente il loro suono (l’abbaiare del cane, il miagolio del gatto, il canto del gallo…).

Per indicare i versi degli animali si può ricorrere all’uso di onomatopee che ne riproducono i rumori emessi, oppure usare parole più specifiche che ne denominano il suono.

Tra le corrispondenze più frequenti ci sono per esempio:
bau
(bu o bu bu) cioè l’abbaiare cane; (o bèe) cioè il belato della pecora; chicchirichì cioè il canto del gallo; cip (o cip cip) cioè il cinguettio di un uccelino; cra cra cioè il gracidare della rana o il gracchiare o crocidare del corvo e della cornacchia; cri cri cioè il verso del grillo, o il frinire; miao (miau, mao e anche gnao) cioè il miagolare o miagolio del gatto; pio (e pio pio) cioè il pigolare o pigolio dei pulcini; qua (e qua qua) cioè lo starnazzare di anatre e oche; zzz cioè il ronzio e il ronzare soprattutto di zanzare, ma anche api, mosche e insetti.

Per scoprire gli altri versi degli animali → Il “linguaggio” degli animali nelle onomatopee.

Si dice utènsile o utensìle?

Si dice utensìle (accento sulla “i”) quando è un nome usato da solo, mentre in funzione di aggettivo, per es. nell’espressione “macchina utensile” si dice utènsile con l’accento spostato sulla “e”.

La pronuncia più corretta di utensile usato come sostantivo e da solo (un utensile = un attrezzo) è utensìle (con l’accento tonico sulla “i”), preferibile a utènsile, diffuso ma meno giusto. Tuttavia, questa seconda forma accentata sulla “e” si usa invece quando la parola è usata in funzione di aggettivo, per es. nell’espressione una macchina utensile (pron. utènsile), anche se, oltre a questo, non ci sono molti altri esempi di uso aggettivale.

Gli utensili letteralmente sono “cose utili” e derivano dal latino utensìlia, mentre l’aggettivo latino utènsilis, con l’accento ritratto, significava “utile”.

Per un elenco delle altre parole che presentano incertezze nella dizione (edile, infido, rubrica…) → Dubbi di pronuncia.

Si può dire “i diti” al posto di “le dita”?

Le dita si usa per indicare le dita nel loro insieme (le dita della mano), ma si dice i diti indici (cioè intesi singolarmente), in questo caso non si può dire “le dita indici”.

Ci sono parole che hanno due plurali con un diverso significato, e nel caso di dito, le dita, al femminile, designano il totale e l’insieme di tutte le dita di una mano.

I diti, invece, sono i singoli diti, i mignoli, per esempio, presi separatamente (non si potrebbe dire le dita mignoli).

Dunque i due plurali non sono intercambiabili, non si può usarne uno al posto dell’altro: i loro significati divergono.

Per una tabella con altri casi → Nomi con doppio plurale e doppio significato.

“Lui”, “lei” e “loro” possono essere soggetto?

Se un tempo “lui”, “lei” e “loro”, quando erano soggetto, erano sostituiti da “egli”, “ella” ed “essi”, oggi sono accettabili e in alcuni casi preferibili.

Un tempo si insegnava a non usare mai lui e lei come soggetto: così come me e te non possono essere soggetto (si dice io sono e non me sono), allo stesso modo lui (e lei) e il plurale loro erano consentiti nei casi fossero l’oggetto (guardo lui) o per altri complementi (parlo di lui, con lui, a lui…). Per il soggetto si prescriveva sempre egli/ella (dunque egli parla, non lui parla), e per il plurale essi/esse.

Nell’italiano corrente invece, soprattutto nel linguaggio diretto, queste formule sono sempre più diffuse, e sono state “sdoganate” anche da autori classici, a cominciare da Alessandro Manzoni che nei Promessi sposi usa frequentemente lui come soggetto: “Lui invece caccia un urlo”; “e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose…”.

Per saperne di più sui pronomi → Lui può essere soggetto al posto di egli?

Quando si fa una citazione virgolettata, il punto si mette dentro o fuori dalle virgolette?

In linea di massima, se si fa una citazione di una frase completa si include la punteggiatura, altrimenti la punteggiatura si lascia all’esterno. Nel caso del punto di domanda o di esclamazione si lasciano all’interno per conferire alla citazione la giusta intonazione.

In linea di massima, quando si cita una parola o una frase, la punteggiatura è posta all’esterno, per esempio: Dopo aver letto l’insegna “Ristorante”, fermai la macchina. Oppure: “Chi la fa l’aspetti”, si dice.

Però, nel caso dei segni d’interpunzione che riguardano l’intonazione, come il punto di domanda o quello esclamativo, si inseriscono all’interno, per conferire il tono di ciò che si cita: Mi disse: “Davvero?”. E in tal caso è bene aggiungere il punto fermo dopo le virgolette, perché il punto interrogativo che fa parte della citazione, seguito dalle virgolette, perde la sua forza di chiusura.

Quando invece la citazione include un periodo completo, indipendente e finito, si tende a lasciare la punteggiatura di chiusura all’interno delle virgolette, e non bisogna mettere un ulteriore punto successivamente: “Obbedisco.” Disse Garibaldi.

Naturalmente non sempre è possibile fissare delle regole rigide, e talvolta stabilire se una frase citata è chiusa o aperta è una scelta. Dunque è possibile anche scrivere: “Chi la fa l’aspetti.” Non c’è altro da aggiungere.
I
n ogni caso bisogna evitare la doppia punteggiatura: “Chi la fa l’aspetti.”.

Per approfondire l’uso della punteggiatura associata alle virgolette → Le virgolette.

Meglio scrivere “eccetera”, “ecc.” o “etc.”?

Meglio abbreviare “eccetera” in “ecc.” e non in “etc.”, e poiché queste forme sono un po’ burocratiche, in narrativa si possono evitare ricorrendo a soluzioni più eleganti e discorsive, come “e così via” o i puntini di sospensione.

Eccetera è una locuzione avverbiale che deriva dal latino et cetera, cioè “e altre cose” e per questo talvolta viene abbreviato in etc., ma non c’è bisogno di scomodare il latino, le norme editoriali delle case editrici preferiscono evitare questa abbreviazione, è molto più appropriato usare ecc. all’italiana, quando occorre.

Nei contesti discorsivi o in narrativa l’uso di eccetera non è sempre consigliabile (è un po’ “burocratico”, soprattutto se abbreviato), talvolta un e così via è preferibile e più adatto, oppure, per indicare qualcosa che continua si possono usare i punti di sospensione…

Tra gli errori da evitare c’è l’associazione di eccetera o ecc. ai puntini di sospensione, va sempre evitato (ecc…, eccetera….) si mette o l’uno o gli altri visto che sono equivalenti.

Vedi anche → I puntini di sospensione.

Prima di “ma” è obbligatoria la virgola?

Non è affatto vero che prima di “ma” sia sempre obbligatoria la virgola.

Non è vero che prima di “ma” sia sempre obbligatoria la virgola, non esistono regole così ferree da prescrivere nel caso della punteggiatura e in un’espressione come “è brutto ma buono” la virgola non è necessaria è solo una scelta possibile, così come nel caso di: “ Zitta! – rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio” (I promessi sposi).

Dunque, dire che prima di ma ci vuole sempre la virgola, come ogni tanto capita di sentire, è solo una leggenda grammaticale.

Per saperne di più → Si può dire “ma però”? E altri dubbi su “ma”.

Cosa sono gli omografi?

Gli omografi sono parole che si scrivono allo stesso modo anche se hanno un diverso significato.

Le parole omografe (= dalla stessa grafia) si scrivono allo stesso modo anche se hanno un diverso significato, per esempio “stesse”, congiuntivo di “stare” ma anche plurale femminile di “stesso”.
Non sempre si pronunciano però allo stesso modo, come nel caso di pesca (che può essere un frutto o riguardare i pesci a seconda dell’apertura della “e”) o di ancora, che cambia significato con l’accento tonico: l’àncora di una barca, o ancòra, ovvero “di più”.

Per saperne di più → Omografi, omofoni e omonimi.

Quando bisogna scrivere gli accenti tonici?

Gli accenti tonici coincidono con quelli grafici soltanto nelle parole accentate sull’ultima, come “realtà”: in questo caso si devono anche scrivere, oltre che pronunciare.

Nello scrivere le parole polisillabe tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba), come maestà, perché, colibrì, però o cucù, gli accenti grafici sono obbligatori da indicare, e in questo caso coincidono con quelli tonici (che si pronunciano facendo cadere la voce con maggior forza sulla sillaba).

In tutti gli altri casi gli accenti tonici non si devono apporre nello scrivere, si tende a non indicarli anche in caso di ambiguità, per cui una parola come ancora, si scrive senza accenti grafici, e si capisce dal contesto qual è il suo accento tonico, cioè se indica l’àncora di una barca, o se significa ancòra, ovvero “di più”.

Per saperne di più → La pronuncia delle parole: accenti tonici.

Che differenza c’è tra la “z” sorda e sonora?

La “z” sorda è quella di parole come poZZo o poliZia, pronunciate senza la vibrazione delle corde vocali; quella sonora di ZanZara o doZZina si pronuncia facendo vibrare le corde vocali.

La zeta può essere pronunciata in modo sordo (o aspro), cioè senza vibrazione delle corde vocali (come nel caso di pozzo, polizia, zucca e zampa) oppure sonoro (o dolce) che implica il passaggio di una sonorità attraverso la laringe, come in zanzara, zero, azienda e azzurro.

Per approfondire → La pronuncia delle lettere.

Che cosa sono i fonemi?

I fonemi sono i suoni che pronunciamo nel parlare.

I fonemi sono i suoni che pronunciamo nel parlare, nello scandire una lettera e nella composizione delle parole. Ma non sempre uno stesso fonema corrisponde al grafema (cioè il segno scritto, le lettere) che utilizziamo per scriverlo, e da queste divergenze nascono i principali dubbi di pronuncia e di ortografia.

La “S” di sasso, per esempio, è pronunciata diversamente dalla “S” di sbaglio, mentre, viceversa, la “C” dura di cuore si pronuncia allo stesso modo della “Q” di quadro, anche si scrivono diversamente.

Per entrare nei dettagli → Fonologia e fonetica.

Come si pronuncia la W?

La pronuncia della W dipende dalla lingua di provenienza: nelle parole italianizzate (wafer, walzer) si legge come una “v”; in quelle inglesi si pronuncia “u” (week-end, whisky).

La “w” (doppia vu o doppia vi, ma anche vu doppia) si pronuncia v nelle parole italianizzate (Walter, Wanda, wafer) e nella lingua tedesca (Wagner, walzer), mentre in inglese si pronuncia u (week-end, download, welfare, western e whisky).

Tuttavia, il “water” si pronuncia con la “v”, perché è una parola entrata da tanto tempo per via scritta che si è affermata con la pronuncia all’italiana.

Da sola e maiuscola W è poi l’abbreviazione di “viva” e così si legge e pronuncia (es. W l’Italia!).

Per approfondire → La pronuncia delle lettere.

Cosa sono le onomatopee?

Le onomatopee sono parole o espressioni che riproducono i rumori (clic, bum), i versi degli animali (miao, bau) o i suoni che corrispondono a stati d’animo come nei fumetti (sob, gulp).

Le onomatopee sono parole o espressioni costituite da sequenze di caratteri che riproducono determinati suoni o rumori e vengono usate come interiezioni o esclamazioni.

Per esempio brr, un brivido, il drin di un campanello, il bum di un’esplosione o il dindon delle campane, e ancora  i versi degli animali (chicchirichì, bau, miao, cra cra), ma anche sob, gulp e tutto il repertorio dei fumetti che esprime stati d’animo, molto spesso in inglese (wow, smack).

Per saperne di più → Le esclamazioni (o interiezioni) e le onomatopee.

Cosa sono le “d eufoniche”?

Le “d eufoniche” sono le “d” apposte davanti ad “a”, “e” e “o” che diventano “ad”, “ed” e “od”.

Le “d eufoniche” sono le “d” apposte davanti alla preposizione “a” e alle congiunzioni “e” e “o” per evitare che l’incontro con una parola che comincia con vocale abbia una difficoltà di pronuncia e suoni male.

Un tempo erano molto diffuse davanti a qualunque vocale, ma oggi la forma “od” è praticamente decaduta (si tende a non usarla più nell’editoria) e nel caso di “ad” e “edsi usano solo ed esclusivamente davanti alla stessa vocale, dunque si scrive “ed era”, “foglie ed erba”, “ad avere”, “ad  amici”, ma mai “ed ovviamente”, “ed adesso”, “ad uno”…

Le poche eccezioni sono costituite da frasi fatte ormai entrate nell’uso come “ad esempio”, “ad ogni modo” e poche altre.

Per approfondire → E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche.

Si può dire “ma però”?

Non c’è una ragione per evitare un rafforzativo come “ma però”, che si trova anche in molti autori, da Dante a Manzoni; condannare questa espressione è una leggenda grammaticale illogica.

“Ma però” viene spesso condannato come inutile ripetizione dello stesso concetto, eppure il pleonasmo è un artificio retorico che consiste proprio nel rafforzare attraverso una ripetizione, e perché allora non si condannano anche espressioni come “ma invece”?

La leggenda grammaticale che biasima “ma però” è falsificata anche dalla storia della letteratura, se non si vuol correggere Dante (“Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue”), Manzoni (“…ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”) e tanti altri autori tra cui Verga, Tasso e Alfieri.

Per saperne di più → Si può dire “ma però”? E altri dubbi su “ma”.

Si può associare il punto di domanda a quello esclamativo?

Si può scrivere “?!”, ma è bene farlo con parsimonia e cautela perché è tipico dei registri da fumetto.

Associare il punto interrogativo a quello esclamativo è possibile, per conferire allo stesso tempo un’intonazione di domanda e di sorpresa (cosa ?!), ma è un rafforzamento tipico dei fumetti, delle chat o dei registri spiritosi o pubblicitari, perciò in linea di massima va utilizzato con cautela e parsimonia.

Per gli altri dubbi sul segno “?” → Il punto di domanda.

“Questo”, “quello”, “mio”… quando sono pronomi e quando aggettivi?

Quando “questo” o “mio” sono da soli e stanno al posto del nome sono pronomi, se invece accompagnano il nome (questo libro) sono aggettivi.

Pronome significa “che sta al posto del nome” (pro nomen), cioè lo sostituisce, dunque i pronomi sono spesso dei “segnaposto” che si usano per evitare di ripetere una stessa parola, per economicità e per non appesantire una frase.

Se parliamo di un libro, possiamo dire prendi questo o dammi il mio (= libro), dove questo e mio sono pronomi (rispettivamente dimostrativo e possessivo). Ma le stesse parole possono anche essere aggettivi quando non stanno al posto del nome, ma lo accompagnano e lo qualificano, per es. questo libro (aggettivo dimostrativo) o il mio libro (aggettivo possessivo).


Per approfondire le funzioni dei pronomi → I pronomi: quali sono e che funzione hanno.

Si può dire “più estremo”?

Anche se “estremo” è il superlativo di “esterno” che letteralmente non si potrebbe estendere (come non si può dire “più ottimo”), ha perso questo significato originale e vive di vita propria, dunque si può dire che qualcosa è più estremo di qualcos’altro.

“Estremo” è il superlativo assoluto di “esterno”, indica ciò che è più esterno possibile. Così come non si possono accrescere gli altri superlativi (non si può dire “più ottimo” o “più grandissimo”), perché esprimono già il massimo grado, anche “estremo” dovrebbe seguire la regola.

Tuttavia, estremo (come anche prossimo o intimo) ha perso l’originale significato di superlativo e vive di vita propria; è usato anche con altri significati che permettono dei paragoni o degli aumenti di grado: si può dire che uno sport è più estremo (= spericolato, rischioso) di un altro, e persino fare il superlativo di ciò che sarebbe già superlativo: “estremissimo”.

Per saperne di più → I superlativi assoluti irregolari.

Si dice “lo pneumatico” o “il pneumatico”?

La forma più corretta è lo/uno pneumatico (al plurale gli pneumatici).

Davanti al gruppo di consonanti “pn” si usano gli articoli lo (al plurale gli) e uno, dunque si dice uno pneumatico, lo pneumatico e gli pneumatici, e lo stesso vale per le pochissime altre parole che iniziano così, come pneuma o pneumotorace.

Anche se “i pneumatici” è un’espressione così diffusa che ormai passa per accettabile, in un italiano elegante e colto è meglio evitarla.

Per saperne di più → Il, lo e la: gli articoli determinativi.

Perché il plurale di valigia è valigie ma quello di provincia è province (senza la “i”)?

Se le desinenze –cia e –gia sono precedute da vocale mantengono la “i” al plurale, se prima c’è una consonante il plurale è –ce e –ge.

I plurali delle parole che terminano in -cia e -gia dipendono dalla lettera che le precede, se prima c’è una vocale il plurale mantiene la i: dunque: val-i-gie; se invece c’è una consonante, il plurale perde la i: provi-n-ce.

Queste almeno sono le forme più corrette ed eleganti, ma poiché questi errori sono molto diffusi, ormai i dizionari e qualche correttore ortografico accettano come “tollerabili” anche le forme “valige” o “provincie”, che però è sempre bene evitare in un registro elevato.

Per saperne di più → Il plurale dei nomi in -a (aran-ce e cilie-gie).

Come si fa a sapere se i nomi geografici sono maschili o femminili?

Non ci sono delle regole precise, ma esistono molte indicazioni utili per districarsi tra questi dubbi. Le città sono di solito femminili, i mari e i laghi maschili, per fiumi, monti e Paesi dipende dai casi.

Anche se non esistono regole precise per determinare il genere dei nomi geografici (che non sono riportati nei dizionari), le città sono di solito femminili perché si sottintende “città”: Venezia è bella, Milano è caotica, Roma è antica. Il Cairo è però maschile perché l’articolo fa parte integrante del nome della città.

I mari sono maschili perché si sottintende (il mare) Mediterraneo, Tirreno, Adriatico… come i laghi in cui, a parte il Garda, di solito non si può omettere la parola lago e dire per esempio “il Bracciano”.
L’Etna, il Vesuvio e lo Stromboli sono maschili perché si sottintende il vulcano, così come l’Elba sottintende l’isola e diventa femminile (come la Corsica, la Sardegna, la Sicilia), però si dice il Giglio (come abbreviazione dell’Isola del Giglio) perché prevale il nome maschile che porta. Allo stesso modo, il monte Bianco o Rosa, maschili (sono monti), come gli Appennini o i Pirenei; ma le Alpi e le (montagne) della Marmolada e della Maiella, come le Dolomiti, sono femminili.

I Paesi sono per lo più femminili, ma non sempre, per esempio: il Guatemala, il Venezuela, il Canada, il Sudafrica, il Congo, il Kenia. Lo stesso problema si riscontra per i nomi dei fiumi, in particolare per quelli che sono poco conosciuti, dove non è facile districarsi. La Dora Baltea, la Dora Riparia e la Secchia sono femminili come la Loira e la Senna, mentre il Po, il Lambro, il Ticino, l’Arno e il Tevere sono maschili come il Danubio.

In caso di dubbi, perciò, il consiglio è quello di scrivere sempre per esteso ciò che è sottinteso (l’iperonimo): aggiungere il fiume Ovesca o Sarca risolve ogni problema sull’articolo da utilizzare e sul suo sesso, soprattutto nel caso dei nomi che non sono universalmente conosciuti .

Per saperne di più → Il genere dei nomi geografici.

Meglio dire “ho potuto andare” o “sono potuto andare”?

Sono potuto andare è preferibile rispetto a ho potuto andare (anche se circolano entrambe le soluzioni).

Quando ci sono delle locuzioni verbali formate per esempio dai verbi servili (come potere, dovere o volere) può capitare che il verbo servile regga l’ausiliario avere, ma il verbo a cui si accompagna regga invece essere, per esempio “poter andare” (ho potuto e sono andato). E allora quale dei due bisogna usare? Meglio dire “ho potuto andare” o “sono potuto andare”?

Sono potuto andare è preferibile rispetto a ho potuto andare (anche se circolano entrambe le soluzioni).
Di solito è più elegante utilizzare l’ausiliario del verbo principale e non quello del servile che lo accompagna. Dunque, poiché si dice ho parlato e sono uscito, è preferibile dire anche ho potuto parlare e sono dovuto uscire.

Questa regola generale, però, non è sempre vera, è solo un’indicazione che vale in linea di massima. Talvolta sono possibili entrambe le forme, ma in altri casi (con i verbi sapere, preferire, desiderare e osare) prevale l’ausiliario del verbo servile: ho saputo correre (e non sono saputo), ho preferito andare ecc.

Per saperne di più → “Ho potuto” o “sono potuto” andare? Gli ausiliari nelle locuzioni verbali.

Le coniugazioni dei verbi sono 3 o 4?

Molte grammatiche classificano i verbi in 3 coniugazioni, ma altre preferiscono un criterio più pratico basato su 4 coniugazioni: i verbi in -are, -ere, -ire e tutti gli altri come trarre, porre e condurre.

Il modo di classificare i verbi in tre coniugazioni – quelli che terminano in are, ere e ire – è un criterio molto diffuso, ma non è il solo. Le coniugazioni non esistono “in natura”, sono solo delle categorie utili per suddividere ogni verbo in insiemi comodi per l’apprendimento. Questo modello considera i verbi che terminano in altro modo, per es. porre, trarre o condurre, come eccezioni che rientrano nella seconda coniugazione (derivano dal latino ponere, trahere e conducere e si comportano maggiormente come verbi della seconda), così come il verbo fare (che deriva da facere e ne segue meglio la coniugazione).

Ci sono però anche grammatiche che preferiscono usare un altro criterio più pratico basato su quattro coniugazioni che seguono esattamente le desinenze, dunque: i verbi in are, ere, ire e tutti gli altri come por-re, trar-re o tradur-re (quarta coniugazione) che hanno una diversa desinenza (è un criterio più semplice e pratico). In questo modello il verbo fare appartiene alla prima coniugazione (anche se si comporta irregolarmente).

Qualunque criterio si adotti, l’importante è coniugare i verbi in modo corretto.

Per saperne di più → Le coniugazioni dei verbi sono 3 oppure 4.

Dopo il punto si deve SEMPRE usare la maiuscola?

Dopo il punto si usa sempre la maiuscola, tranne nel caso delle abbreviazioni.

Il punto fermo è un segno di chiusura forte che richiede subito dopo di procedere l’iniziale maiuscola, al contrario di quanto avviene per la punteggiatura debole come virgola, due punti o punto e virgola. Ma Poiché il punto si usa anche per le abbreviazioni, solo in questo caso la regola non vale, perché il discorso continua: “Socrate nacque nel 469 a.C. ad Atene”.

Per saperne di più → Il punto fermo.

Si può andare a capo lasciando l’apostrofo da solo sull’ultima riga?

Meglio evitare di lasciare un apostrofo in fondo quando è necessario andare a capo.

Quando si va a capo, è sempre bene evitare di lasciare un apostrofo isolato a fine riga, es.

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’
esercito di Francia.


Meglio trovare soluzioni graficamente più eleganti, per es.:

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato
l’esercito di Francia.


oppure

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’e-
sercito di Francia.

Anche eliminare l’elisione e aggiungere la vocale mancante prima di andare a capo, come si insegnava un tempo, è una soluzione da non utilizzare mai (è persino peggio di lasciare l’apostrofo a fine riga): es.

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato lo
esercito di Francia.

Per approfondire il tema delle regole su come andare a capo correttamente → Divisione in sillabe.

Che differenza c’è nella pronuncia di “vénti” e “vènti”?

Il vénti (numero 20) non si pronuncia come i vènti (alisei).

La lettera “E” può essere pronunciata aperta (graficamente si indica con l’accento grave è) o chiusa (con l’accento acuto é). Nello scrivere, questi accenti si mettono obbligatoriamente solo solo a fine parola, es. ventitré e non si indicano mai all’interno (es. “véntitré”). Tuttavia, la pronuncia aperta o chiusa all’interno di una parola ne può cambiare il significato.

Nel caso di “venti”, se diciamo “vénti” (pron. chiusa) esprimiamo il numero 20, mentre “vènti” (pron. aperta) è il plurale di vento, per esempio la tramontana, lo scirocco…

Per approfondire → La pronuncia della “e” può cambiare il senso delle parole.

Le parole con “-zia”, “-zio” e “-zie”: quando si scrivono con la doppia Z (“-zzia”, “-zzio” e “-zzie”)?

In linea di massima le parole con “-zia”, “-zio” e “-zie” non raddoppiano la “z” (es. razione, colazione), ma non è sempre vero (es. corazziere, pazzia). Quando terminano in “–zione” si scrivono sempre con una “z” sola (colazione, nazione).

Spesso si insegna in modo impreciso che zio, –zia e –zie non vogliono mai la doppia z, dunque si scrive reazione, inezia, grazie

Il più delle volte è così, ma non sempre: se giustiziere si scrive con una sola z, ciò non vale per corazziere, tappezziere o carrozziere (costruiti sulla doppia z di corazza, tappezzeria e carrozza), e poi ci sono parole come pazzia e razzia che richiedono a doppia z.

Meglio riformulare la regola specificando che solo davanti alle parole in zione la z non si raddoppia mai (organizzazione, nazione), negli altri casi è una massima che vale spesso ma ha qualche eccezione.

Per saperne di più → La formazione delle parole.

Meglio scrivere “clic” o “click”?

“Click” è una parola inglese, ma si può benissimo usare la sua italianizzazione “clic” che è più in linea con il nostro sistema ortografico.

Il suono onomatopeico di un tasto, per esempio del mouse, che ha originato “cliccare”, in inglese si scrive “click”, ma in italiano è stato adattato più semplicemente in “clic”. Dunque si possono usare entrambe le forme, all’italiana, più semplice, o all’inglese per chi preferisce ricorrere agli anglicismi.

Per approfondire il tema dei forestierismi, vedi anche → Il plurale dei nomi stranieri e Il genere dei nomi stranieri.

Dopo il punto interrogativo è sempre necessaria la maiuscola?

Si può continuare con la minuscola solo sporadicamente, quando il discorso continua.

Il punto di domanda è un segno di chiusura della frase che richiede di procedere con la maiuscola come nel caso del punto fermo.

Solo sporadicamente, quando la domanda è integrata all’interno di una frase e il discorso continua, è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola:
C’è chi pensa (sarà davvero così?) che esistano i fantasmi.
Ti credo – e perché mai non dovrei crederti? – se mi dici che sei stanco!

I casi in cui un autore sceglie di procedere con la minuscola e di continuare il discorso anche fuori dagli incisi sono documentati in vari testi sin dall’Ottocento, persino nei Promessi sposi (”Che fare? tornare indietro, non era a tempo”), ma sono soggettivi e rappresentano una scelta non obbligatoria: si può preferire di ricominciare con la maiuscola.

Per gli altri dubbi sul segno “?” → Il punto di domanda.

Che cosa sono le gutturali?

Si chiamano gutturali le consonanti che articoliamo quando la lingua viene appoggia verso la gola.

L’articolazione delle consonanti dipende da come vengono prodotte con il movimento della bocca e della lingua: le gutturali sono c, g dure e q (come in casa, gatto, questo) e si chiamano così perché vengono articolate con la lingua che si poggia verso la gola (dal latino guttur = “gola”).

Per approfondire → Fonologia e fonetica.

Come si può distinguere il “che” congiunzione dal “che” pronome?

Bisogna esplicitarlo per capire se significa per es. “il quale” (= pronome) o se è una congiunzione che non si può sostituire.

Che” può assumere tantissimi diversi significati, e nell’analisi logica, per fare un po’ di chiarezza va sempre esplicitato per capire che cosa significa nel contesto e come si può di volta in volta trasformare.

In casi come l’uomo che (= il quale) corre è un pronome. Può essere invece un aggettivo quando diciamo che (= quale) giacca indossi? In espressioni come ti dico che sei bravo il “che” è invece una congiunzione.

Per approfondire → I tanti valori di “che”.

Cosa sono le locuzioni esclamative?

Sono esclamazioni o interiezioni formate da più parole: santo cielo! al ladro!, mamma mia…

A volte le esclamazioni (o interiezioni), come ah!, hei!, urca! possono essere espresse da più parole, e si chiamano perciò locuzioni esclamative, che di solito sono frasi fatte come: santo cielo! Oddio! Al diavolo! Al ladro! Al fuoco! Mamma mia! Guai a te! Mio Dio!

Per approfondire → Le esclamazioni (o interiezioni) e le onomatopee.

Meglio dire “l’anno scorso andai” o “l’anno scorso sono andato”?

Sono corrette entrambe le frasi, è solo una questione di stile.

Non c’è una regola per preferire: “L’anno scorso andai” a “l’anno scorso sono andato”; questa seconda forma è molto più diffusa per esempio al nord, mentre il passato remoto vive maggiormente al sud, ma sono entrambe lecite. È solo una questione di stile personale.

Un tempo il passato remoto era indicato come più appropriato per un’azione passata conclusa o lontana, e il passato prossimo più adatto per ciò che non è concluso ed è più recente. Ma non è facile distinguere quando un’azione è conclusa né definire il concetto di “lontananza”. Nella lingua viva di oggi questa distinzione è caduta e nell’italiano moderno il passato remoto tende a scemare e a essere utilizzato sempre meno frequentemente rispetto al passato prossimo.

Per approfondire l’uso dei tempi dell’indicativo → Il modo indicativo e i suoi tempi.

Dopo i due punti si può usare la maiuscola?

Dopo i due punti si procede con la maiuscola solo nel caso delle citazioni dei dialoghi tra virgolette.

Dopo i due punti si procede con la minuscola, ma quando sono seguiti dalle virgolette è buona regola cominciare con la maiuscola, dunque, per rispettare le norme editoriali, la giusta forma delle citazioni virgolettate e dei dialoghi prevede di scrivere:

Mario mi disse: “Seguimi!”
e non
Mario mi disse: “seguimi!”.

Per approfondire → I due punti.

Si dice “sognamo” o “sogniamo” con la “i”?

Meglio scrivere “sogniamo”: anche se non si pronuncia, la “i” fa parte della desinenza come nel caso di “am-iamo”.

Anche se il gn perlopiù non va mai fatto seguire dalla i (gnocco, gnomo…), nel caso della coniugazione dei verbi che terminano in -gnare ci sono forme come sogniamo (dove la i fa parte della desinenza verbale: sogn-iamo è come am-iamo, e omettere la i non è elegante, anche se è diffuso). Questa i non si pronuncia e anche se qualche grammatica tollera la forma senza i, non è consigliabile ometterla in un buon italiano, sia nel caso della prima persona plurale dell’indicativo, sia soprattutto in quella del congiuntivo (che noi sogniamo).
Lo stesso vale per verbi come accompagnare, disegnare, bagnare, vergognare… che fanno accompagniamo, disegniamo, bagniamo, vergogniamo

Per approfondire i casi del “gn” seguito da “i” (es. compagnia) → Le regole per combinare le lettere nella formazione delle parole.

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