â Si può dire âvado indifferentemente al mare piuttosto che in montagnaâ? â Qual è il significato di âpiuttosto cheâ? â âPiuttosto cheâ è equivalente a âoppureâ? â âPiuttosto cheâ significa âanzichĂŠâ o âoppureâ? â âPiuttosto cheâ ha un valore avversativo o disgiuntivo?
Lâavverbiopiuttosto, associato al che, diventa una congiunzione (una locuzione congiuntiva) che introduce una comparazione con il valore di anzichĂŠ, invece di, al posto di, e ha quindi un significato avversativo: âPiuttosto che mangiare la minestra, salto dalla finestra!â
Nel nuovo Millennio si è invece diffuso un uso improprio di questa espressione che non ha precedenti storici nella nostra lingua e non ha una motivazione: piuttosto che viene utilizzato come una congiunzione disgiuntiva (invece che avversativa) con il significato di oppure, o. Dunque si sentono sempre piĂš spesso frasi come: âIn vacanza pensavo di andare al mare, piuttosto che in montagna, piuttosto che in qualche cittĂ dâarteâŚâ.
Questo uso non è solo scorretto, è anche ambiguo, e unâespressione come: âMario pensa di andare a letto piuttosto che guardare la tvâ, per esempio, non significa che Mario fa una delle due cose indifferentemente (= oppure), bensĂŹ che non intende guardare la tv, e pur di non guardarla (= anzichĂŠ, invece di) preferisce andare a dormire.
Lâabuso di piuttosto che arriva dalle parlate regionali settentrionali e si è diffuso a macchia dâolio attraverso i mezzi di informazione soprattutto audiovisivi per poi finire sempre piĂš spesso anche nella lingua scritta a partire dalla fine degli anni Novanta. Ă ormai cosĂŹ frequente e âinarginabileâ che i dizionari lo hanno registrato e ne riportano gli esempi specificando che è un uso improprio.
Andrebbe perciò evitato, soprattutto nello scrivere, anche se câè chi lo considera unâevoluzione moderna che non è piĂš condannabile, visto che lâuso fa la lingua.
â Quali sono le parole che al plurale cambiano genere come uovo e uova? â Che differenza câè tra  orecchi e orecchie? â Quali sono le parole che hanno un plurale sia al maschile sia al femminile come ginocchi e ginocchia? â Quali sono le parole che al plurale cambiano radice come uomo e uomini? â Il plurale di calcagno è calcagni o calcagna? â Il plurale di tempio è tempi o templi? â Qual è il plurale di âbelgaâ? â Che differenza câè tra i gridi e le grida?
Tra i plurali anomali e irregolari, ci sono parole sovrabbondanti che presentano due forme per il plurale e, talvolta possiedono un diverso significato e talvolta no.
Tra questi ultimi ci sono per esempio nomi dal plurale sia maschile sia femminile, come i ginocchi o le ginocchia; gli orecchi e le orecchie (ma quelle che si fanno alle pagine dei libri sono solo al femminile), i gridi (per lo piĂš solo degli animali) e le grida. In alcuni casi i plurali al femminile vivono solo in alcune frasi fatte, per esempio i calcagni è affiancato da un doppio plurale solo nellâespressione âstare allecalcagnaâ; i reni e âspezzare le reniâ; i cuoi e âtirare le cuoiaâ.
Ci sono poi plurali che cambiano
genere e passano dal maschile al femminile, come un uovo e le uova, il riso (nel senso delle risate) e le risa, il paio e le paia, e poi  alcune unità di misura come il miglio e le miglia, il migliaio e
le migliaia, il centinaio e le centinaia,
mentre mille nei composti si
trasforma in âmila (duemila). Il carcere ha due plurali di
diverso genere: i carceri e le carceri. Passa invece dal femminile
al maschile la eco che diventa gli echi.
Altri plurali cambiano la radice e cosĂŹ uomo diventa uomini (anche nei composti come gentiluomo), dio diventa dei (che ha anche unâarticolazione irregolare: gli dei al posto de âi deiâ), e bue diventa buoi, cosĂŹ come uscendo dalla categoria dei sostantivi, anche gli aggettivi possessivi mio, tuo e suo si trasformano in miei, tuoi e suoi.
Tempio e ampio al plurale prendono una âlâ (ampio anche nel superlativo amplissimo) e diventano templi e ampli, anche se esistono anche le forme regolari, tempi e ampi.
Infine, un
abitante del Belgio è detto belga,
ma al plurale diventa belgi, invece
di mantenere il suono duro come fa al femminile (le belghe).
â Cosa sono le âd eufonicheâ? â Quando si usano le âd eufonicheâ? â Meglio dire âe adessoâ o âed adessoâ? â Meglio dire âe editoriaâ o âed editoriaâ? â Meglio dire âper esempioâ o âad esempioâ? â Meglio dire âa uno a unoâ o âad uno ad unoâ? â Si può scrivere âedâ davanti a una vocale diversa dalla âeâ? â Si può scrivere âadâ davanti a una vocale diversa dalla âaâ? â Si può scrivere âodâ davanti a una parola che comincia con âoâ?
Le âd eufonicheâ si appongono davanti alla preposizione âaâ e alle congiunzioni âeâ e âoâ per evitare che lâincontro con una parola che comincia con vocale abbia una difficoltĂ di pronuncia e suoni male.
Un tempo erano molto diffuse davanti a qualunque vocale, ma oggi la forma âodâ è praticamente decaduta (si tende a non usarla piĂš nellâeditoria) e nel caso di âadâ e âedâ si usano solo ed esclusivamente davanti alla stessa vocale, dunque si scrive âed eraâ, âfoglie ed erbaâ, âad avereâ, âad  amiciâ, ma mai âed ovviamenteâ, âed adessoâ, âad unoââŚ
Le norme editoriali di tutte le case editrici seguono questa regola (e i correttori bozze passano la vita a togliere le âd eufonicheâ) dunque è bene seguire questa norma. Non sono grammaticalmente errate, sono però di cattivo gusto e sono il segno di uno scrivere non professionale.
In alcuni casi si possono evitare anche davanti alla stessa vocale, per esempio quando creano bisticci piĂš fastidiosi dellâincontro con la stessa vocale: meglio scrivere âle regole grammaticali e editorialiâ invece di âed editorialiâ.
Lâunica eccezione a questa regola riguarda poche locuzioni ormai entrate nellâuso come frasi fatte: âad esempioâ che convive accanto alla forma equivalente âper esempioâ (non si può scrivere âa esempioâ), oppure âad ogni modoâ o âad eccezione diâ.
â Meglio dire âsia⌠siaâ o âsia⌠cheâ? â Meglio dire âa poco a pocoâ o âpoco a pocoâ? â Meglio dire âa mano a manoâ o âmano a manoâ? â Meglio dire âa mano a manoâ o âman manoâ? â Meglio dire âa faccia a facciaâ o âfaccia a facciaâ? â Meglio dire âa corpo a corpoâ o âcorpo a corpoâ? â PerchĂŠ è meglio dire âsia⌠siaâ invece di usare come secondo elemento âcheâ?
Il costrutto âsia⌠cheâ (es. âè sia buono che belloâ) è molto diffuso anche sui giornali, al punto che è ormai accettato e inarginabile. Tuttavia, nelle norme editoriali di molte case editrici, e soprattutto in un buon italiano non popolare, è da evitare.
La forma piĂš corretta è âsia⌠siaâ (âè sia buono sia belloâ), perchĂŠ si tratta della ripetizione della stessa congiunzione correlativa, che non ha ragione di essere sostituita da âcheâ nel secondo elemento.
Il consiglio di stile è perciò di evitare sempre âsia⌠cheâ.
Lâorigine di questo costrutto è da ricercarsi nel congiuntivo di comando del verbo essere: sia cosĂŹ e sia in altro modo.
In linea di massima, anche negli altri costrutti correlativi come a mano a mano, a poco a poco, a uno a uno, sono sempre da evitare le forme abbreviate come poco a poco o mano a mano (si può invece dire correttamente man mano, se si vuole essere piĂš sintetici). Anche a corpo a corpo o a faccia a faccia sono consigliabili rispetto alle locuzioni corpo a corpo o faccia a faccia, ma sono cosĂŹ diffuse, che è sempre piĂš difficile ricorrere ai costrutti piĂš corretti, e in televisione dominano ormai i âfaccia a facciaâ senza alternative.
â Che cosâè lâortografia? â Che cosâè la âsintassi delle lettereâ? â Come si combinano le lettere nella formazione delle sillabe? â Che cosa sono le norme editoriali? â PerchĂŠ i caratteri della tastiera sono molti di piĂš delle lettere dellâalfabeto?  â Quali sono i caratteri della tastiera che si usano anche se non fanno parte della grammatica? â Come si scrivono i caratteri degli alfabeti stranieri? â Che cosa sono le norme per le citazioni bibliografiche?
Questa sezione intitolata Ortografia e dubbi di scrittura
(caratterizzata dalla graffetta rossa nella testatina) contiene informazioni
che si spingono oltre la semplice grammatica.
Lâortografia riguarda lo scrivere nel modo corretto secondo le regole grammaticali e include anche la punteggiatura, lâapostrofo e altri segni, oltre alle lettere dellâalfabeto, alla divisione in sillabe per andare a capo⌠Ma a sua volta si intreccia con la fonologia che studia i fonemi, cioè i suoni che si pronunciano nel parlare e che corrispondono ai grafemi corrispondenti, cioè i segni scritti, le lettere. Perciò alcune parti sono state etichettate in modo da essere rintracciabili anche dalle altre sezioni.
Tra gli articoli di questa sezione molti sono dedicati alle regole con cui lettere si compongono nella formazione delle parole. In un certo senso questa parte si può definire la âsintassi delle lettereâ, visto che la sintassi regola i rapporti tra gli elementi che costituiscono strutture piĂš ampie. Anche se la sintassi vera e propria studia i rapporti tra le parole nella formazione della frase, e i rapporti tra le frasi nella formazione del periodo.
Gli articoli partono dalle lettere dellâalfabeto con precisazioni che riguardano il modo con cui si combinano nella formazione delle sillabe e poi delle parole. Dunque è possibile trovare tutte le indicazioni per sapere per esempio quando nello scrivere si deve usare GLI (aglio) e quando no (cavaliere), quando usare la Q (iniquo) e quando la C (proficuo). E ancora quando e come si usa lâapostrofo? O quali sono le regole degli accenti gravi e acuti (perchĂŠ e caffè)? La combinazione delle lettere segue infatti delle regole che aiutano a fugare incertezze ed esitazioni, e passa per la formazione di digrammi e trigrammi, di sillabe (che è utile conoscere per esempio per sapere quando andare a capo), fino alla formazione delle parole, cioè quella parte della grammatica che si chiama lessico.
Lâortografia, però, non riguarda solo questo aspetto, è anche fatta di virgole, punti e delle regole che normano la punteggiatura, e in queste sezioni si trovano le risposte a dubbi per esempio sullâuso della virgola associata alle virgolette (in una citazione quando la punteggiatura finale si mette prima della chiusura delle virgolette e quando dopo?) o alle parentesi (quando occorre, meglio mettere la virgola prima o dopo le parentesi?). E ancora, dopo il punto interrogativo quando si può procedere con la minuscola? Come si scrivono le sigle (maiuscole, minuscole, con i punti di abbreviazione o senza)?
PoichĂŠ nello scrivere non si ha a che fare solo con le lettere dellâalfabeto e con la grammatica in questa sezione sono state incluse anche molte delle norme editoriali che servono nella scrittura professionale, come la giustificazione di un testo, la scelta dei caratteri piĂš appropriati, lâuso del corsivo nellâeditoria, o le norme per le citazioni bibliografiche, tra corsivi e virgolette.
Di seguito un indice degli articoli che fanno parte di questa sezione.
â Si può usare il doppio
imperfetto per i periodi ipotetici? â Si può dire âse lo sapevo andavoâ? â Meglio dire âse me lo diceviâ o âse me âavessi dettoâ?
â se non annaffi i fiori â muoiono (ma se si vuole sottolineare la possibilitĂ si può anche dire se non annaffiassi i fiori morirebbero).
Se però la stessa frase si volge al passato non è piĂš un periodo ipotetico della realtĂ : una cosa giĂ avvenuta non si può modificare, dunque diventa unâipotesi dellâirrealtĂ che si esprime necessariamente (non è piĂš una scelta) con il condizionale piĂš il congiuntivo:
â se non avessi innaffiato i fiori sarebbero morti (cosa impossibile dato che li hai annaffiati).
Tuttavia questo costrutto è spesso sostituito con la forma piuttosto diffusa nel parlato del doppio imperfetto:
â se non bagnavi i fiori morivano.
Questo costrutto non è propriamente corretto nÊ elegante, tuttavia è molto diffuso al punto che nei registri popolari o nel parlato familiare è ormai ammissibile, il che non vale per i registri formali o per la scrittura di testi ufficiali.
Dunque le espressioni come âse lo sapevo non venivoâ o âse me lo dicevi prima ti operavo ioâ (Enzo Jannacci), possono essere colloquiali e colorite per rendere lâitaliano parlato, ma da evitare nei registri alti.
â Cosâè lâortografia. â Cosa
sono le norme editoriali. â Cosâè il lessico.
Le norme editoriali, quelle che servono per scrivere professionalmente, coincidono solo in parte con lâortografia, e cioè la scrittura in un italiano corretto, e abbracciano altri temi che sfiorano anche la tipografia e la grafica.
I caratteri della tastiera sono lo strumento di lavoro e bisogna sapere che sono ben di piĂš di quelli dellâalfabeto. Includono segni come il cancelletto (#) o la chiocciola (@) che si affiancano a quelli piĂš tradizionali come per esempio il simbolo del paragrafo (§) o le losanghe (âŚ). Ă importante conoscere il significato anche di molti altri caratteri non presenti sulla tastiera a cominciare da simboli come il copyright (Š) per finire con le lettere di alfabeti stranieri a cui talvolta si deve ricorrere con precisione (Ăą, Îą, ĂźâŚ). Sono poi necessarie molte cognizioni che riguardano lâuso del corsivo o del neretto, le norme per le citazioni bibliografiche, la giustificazione di un testo, la scelta dei caratteri di volta in volta piĂš adatti (con le grazie come il Times New Roman o il Garamond, e senza grazie come lâArial e il Verdana) e del loro corpo⌠Bisogna saper padroneggiare a fondo per esempio lâassociazione della virgola con le le virgolette allâinterno di una citazione (quando si mette prima della chiusura delle virgolette e quando dopo?) o con le parentesi (quando occorre, meglio mettere la virgola prima o dopo le parentesi?). E ancora, dopo il punto interrogativo quando si può procedere con la minuscola? Come si scrivono le sigle (maiuscole, minuscole, con i punti di abbreviazione o senza)?
In altri casi entrano in gioco anche altri fattori qualitativi, non basta conoscere le regole ortografiche della punteggiatura, bisogna anche saper usare le virgole e i punti con maestria.
Di seguito un indice degli articoli piĂš significativi su questi temi che riassumono le piĂš importanti norme dellâeditoria.
â Cosa sono i nomi falsi alterati? â Che differenza câè tra: baleno/balena â banco/banca â busto/busta  â calco/calca â caso/casa â cavo/cava  â colpo/colpa â latte/latta â mostro/mostra â palmo/palma â mento/menta â pianto/pianta â pizzo/pizza â porto/porta â pupillo/pupilla â razzo/razza â torto/torta?
Alcuni nomi hanno il loro genere fisso, e il genere grammaticale non sempre coincide con il sesso di ciò che designa (la guardia può essere un uomo, ma il canguro è una femmina, quando ha il marsupio). Altri si possono volgere dal maschile al femminile, come gatto e gatta o ministro e ministra (vedi â âIl sessismo della lingua e la femminilizzazione delle caricheâ).
Ci sono poi nomi che presentano un falso cambiamento tra il maschile e il femminile, in realtĂ in questo passaggio di genere cambia completamente il significato, per esempio:
â lâarco e lâarca; â il baleno e la balena; â il banco ela banca; â il busto e la busta; â il calco e la calca; â il capitale e la capitale; â il caso e la casa; â il cavo e la cava; â il colpo e la colpa; â il latte e la latta; â il mostro e la mostra; â il palmo e la palma; â il mento e la menta; â il pianto e la pianta; â il pizzo e la pizza; â il porto e la porta; â il pupillo e la pupilla; â il razzo e la razza; â il torto e la torta.
â Cosa sono gli omografi? â Cosa sono gli omonimi? â Cosa sono gli omofoni? â Che differenza câè tra omografi e omonimi? â Quali sono gli esempi di omografi? â Quali sono gli esempi di omonimi? â Quali sono gli esempi di omofoni?
Le parole omografe (= dalla stessa grafia) si scrivono allo stesso modo anche se hanno un diverso significato, per esempio âstesseâ, congiuntivo di âstareâ ma anche plurale femminile di âstessoâ. Non è detto, però, che si pronuncino allo stesso modo, alcune possono cambiare significato a seconda dellâaccento tonico, come pĂŠsca e pèsca).
Le parole che hanno lo stesso suono indipendentemente da come sono scritte, invece, vengono dette omofone (= dallo stesso suono), per esempio la boxe (il pugilato, dal francese) e il box (per es. un riquadro di un testo, dallâinglese). E fuori dalle parole anche il suono e la pronuncia di cu e qu sono omofoni.
Le parole omonime (= dallo stesso nome) infine, sono quelle che si scrivono e si pronunciano in modo uguale (cioè sono sia omografe sia omofone), ma hanno diversi significati, per esempio miglio (che può indicare una distanza, ma anche la graminacea), fiera (una belva ma anche unâesposizione di merci) o riso (per il risotto, ma anche il ridere).
â Che differenza câ è tra pĂŠsca e pèsca? â Che
differenza câ è tra mĂŠnto e mènto? â Che
differenza câ è tra vĂŠnti e vènti?
â
Che differenza câ è tra collèga e collĂŠga?
â
Che differenza câ è tra affĂŠtto e affètto?
La pronuncia della âEâ può avvenire in due modi: aperta (che si indica con lâaccento grave è) e chiusa ( che si indica con lâaccento acuto ĂŠ). Quando scriviamo il problema dellâaccento grafico si pone solo nel caso delle parole tronche (accentate sullâultima lettera: perchĂŠ, ventitrĂŠ, oppure caffè, egli èâŚ), ed è importante usare il giusto carattere presente sulla tastiera. Nel parlare, invece, câè anche lâaccento tonico allâinterno di parola, che anche se non si scrive, si pronuncia. Anche se nellâitaliano vivo ognuno parla con la propria parlata regionale (non è un errore), è bene sapere che esistono queste differenze che appartengono alla pronuncia nazionale (quella sovraregionale indicata nei dizionari e usata dagli attori che seguono questa dizione). Di seguito câè un prospetto utile per scrivere (quando la e accentata sullâultima è obbligatoria), e anche per parlare, perchĂŠ ci sono parole che cambiano il proprio significato a seconda dellâaccento tonico della e pronunciata aperta (è) o chiusa (ĂŠ).
â Che differenza câ è tra pòrci e pĂłrci? â Che differenza câ è tra
còppa e cĂłppa? â Che differenza câ è tra
fòro e fĂłro? â Che differenza câ è tra
cólto e còlto?
La pronuncia della âOâ può avvenire in due modi: aperta (che si indica con lâaccento grave ò) e chiusa ( che si indica con lâaccento acuto Ăł). Quando scriviamo il problema non si pone, perchĂŠ lâaccento grafico si usa solo sulle parole tronche (accentate sullâultima lettera: però, menabò, andròâŚ). Nel parlare, invece, lâaccento tonico allâinterno di parola oscilla, e nella pronuncia nazionale (quella sovraregionale indicata nei dizionari e usata dagli attori che seguono questa dizione) ci sono parole che cambiano il significato a seconda di come venga pronunicita la âOâ. Anche se nellâitaliano vivo ognuno parla con la propria parlata rgionale (non è un errore), è bene sapere che esistono queste differenze. Di seguito un prospetto di parole che cambiano il proprio significato a seconda dellâaccento tonico pronunciato aperto (ò) o chiuso (Ăł).
â Che cosâè la fonetica? â Che cosâè la fonologia? â Che differenza câè tra fonetica e fonologia? â Che cosa sono i fonemi? â Che cosa sono i grafemi? â Che differenza câè tra la fonologia e lâortografia? â Come si articolano le consonanti? â Che cosa sono le labiali? â Che cosa sono le linguali? â Che cosa sono le dentali? â Che cosa sono le palatali? â Che cosa sono le gutturali?
In questa sezione intitolata Fonologia e dubbi di pronuncia ci sono molte informazioni che riguardano la pronuncia corretta delle parole che si intrecciano inevitabilmente con altre parti della grammatica, come il lessico (per esempio si dice rĂšbrica e non rubrĂŹca) o lâortografia (per esempio ci sono accenti che si devono scrivere obbligatoriamente, e non riguardano solo la pronuncia). Dunque alcuni articoli possiedono piĂš etichette e sono rintracciabili anche dalle altre sezioni. Inoltre, sono state incluse anche le principali norme della dizione, che rispetto alla pronuncia delle parole, riguardano quella delle lettere cosĂŹ come si dovrebbe dire nellâitaliano âsovraregionaleâ, e come sono riportate dai dizionari, anche se le variazioni dellâitaliano regionale e ârealeâ sono piĂš che lecite, nel parlare. Perciò il titolo âfonologiaâ va inteso in senso ampio e generico.
Tecnicamente la fonologia studia i fonemi, cioè i suoni che si pronunciano nel parlare e di conseguenza anche i grafemi corrispondenti (cioè i segni scritti, le lettere). PoichĂŠ non câè una corrispondenza perfetta tra i grafemi e i fonemi, ecco che nascono i principali dubbi di pronuncia e anche di ortografia.
Uno stesso simbolo grafico può infatti essere pronunciato in modi differenti, per esempio:
â la âSâ di sasso è pronunciata diversamente dalla âSâ di sbaglio,
anche se si scrivono con lo stesso segno. Viceversa;
â la âCâ dura di cuore si pronuncia allo stesso modo della âQâ di quadro, però si scrivono diversamente.
E allora lâortografia riguarda la scrittura e la punteggiatura, e dunque i grafemi, lâuso corretto della sequenza di caratteri delle parole e del nostro lessico (insieme ad apostrofi, allâuso dellâH, alla punteggiaturaâŚ) e la fonologia riguarda lâitaliano parlato e le emissioni delle parole.
La fonetica, invece, studia i suoni del linguaggio dal punto di vista della loro articolazione.
Lâarticolazione delle consonanti, per esempio, dipende da
come vengono prodotte con il movimento della bocca e della lingua:
â le labiali sono articolate con le labbra: p, b, f, v, m; â le linguali, con la punta della lingua: l, r; â nelle dentali, la lingua poggia sui denti anteriori: d, t, s, z, n; â le palatali, lingua sul palato: c, gdolci(cesto, gelato); â le gutturali, lingua appoggiata verso la gola: c, g dure e q (casa, gatto, questo).
La pronuncia delle vocali, al contrario, dipende dallâapertura della bocca, piĂš o meno aperta o chiusa, e dalla posizione della lingua e del canale di fonazione. Anche in questo caso i fonemi possibili non sono cinque (come i grafemi A, E, I, O, U), ma sette, perchĂŠ âeâ e âoâ si possono pronunciare aperte o chiuse).
La fonologia (ma la differenza con la fonetica è sottile) si occupa maggiormente dei suoni, e cioè non solo del movimento della bocca, ma anche delle emissioni. Oltre alla pronuncia delle singole lettere dellâalfabeto, studia la pronuncia di quelle combinazioni di lettere che corrispondono a un solo suono, per esempio âciâ e âchiâ e ci, i digrammi âgnâ e âscâ e tutti gli altri. Per approfondire â âLa pronuncia delle lettereâ.
Questa sezione âFonologia e dubbi di pronunciaâ contiene i seguenti articoli:
â Quali sono le parti del discorso? â Come si classificano le parti del discorso? â Che differenza câè tra le parti del discorso variabili e invariabili? â Come si fa lâanalisi grammaticale?  â Quali sono le 5 parti
variabili del discorso? â Quali sono le 4 parti invariabili del discorso?
Nellâanalisi grammaticale ogni parola appartiene necessariamente a una delle nove parti del discorso: cinque variabili e quattro invariabili.
Ognuna di queste parti è stata qui suddivisa in vari paragrafi che contengono le spiegazioni necessarie per la comprensione dei concetti chiave e per fugare i dubbi grammaticali piÚ diffusi.
Le parti variabili del discorso, tradizionalmente, sono:
Si chiamano variabili perchĂŠ si possono flettere (di solito la radice rimane uguale ma cambia la desinenza) e si concordano nel genere e nel numero. Nel caso dei verbi la flessione si chiama coniugazione, nei tempi, nei modi o nella persona, al singolare (io, tu, egli) e al plurale (noi, voi, essi). Nel caso delle altri parti la declinazione avviene attraverso le concordanze al singolare e plurale (il numero) o al maschile e femminile (il genere).
Le restanti quattro parti del discorso non si concordano, e sono perciò dette invariabili:
Lâanalisi grammaticale consiste nel classificare ogni parola della frase attraverso queste categorie, e specificando ogni volta le sottocategoire (per esempio: cane = nome o sostantivo comune di animale, singolare). Davanti a una parola di cui non si riesce a stabilire imediatamente a quale parte del discorso appartenga, perciò, un buon criterio di partenza è quello di domandarsi: si tratta di una parola variabile o invariabile? Dalla risposta è possibile cominciare a stabilire a quale dei due gruppi appartenga, procedendo poi per esclusione e applicando le regole e i consigli dispensati in ogni articolo dedicato, fino a sciogliere ogni esitazione.
â Quali sono le onomatopee dei rumori? â I rumori onomatopeici sono codificati rigidamente? â Ci sono rumori onomatopeici che possono avere significati diversi? â Come si può esprimere il blaterare con unâonomatopea? â I rumori onomatopeici si possono usare solo nei fumetti o anche nella narrativa?
Le onomatopee sono parole costituite da sequenze di caratteri che riproducono e imitano versi di animali, suoni o rumori e vengono usate come interiezioni o esclamazioni. Tipiche dei fumetti, sono usate anche nella letteratura e sono state elevate al massimo grado dal movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti che ne esaltò la forza espressiva, rispetto alla scrittura ponderata e razionale, in unâopera di rottura e di avanguardia come Zang Tumb Tumb (1912).
I rumori non sono necessariamente codificati in modo rigido, si possono variare con fantasia, ma tra quelli che si possono trovare in un dizionario, ci sono:
â bang, uno sparo o un colpo secco; â bip, il segnale acustico di apparecchi elettronici; â bla bla, il blaterare; â bum o boom, uno scoppio o uno sparo; â brr, un brivido di freddo; â ciaf, uno schiaffo o anche oggetto che cade in acqua; â ciuff, il rumore di una locomotiva a vapore; â clap, il battimano o lâapplauso; â clic, il rumore metallico di uno scatto, di una macchina fotografica o anche del mouse; â crac, il rumore di qualcosa che si spacca; â cric, il suono del vetro o del ghiaccio che si incrina; â dindin, il suono di un campanello; â dindon, il rintocco delle campane; â drindrin, uno scampanellio; â eccĂŹ, uno starnuto; â frufru, un fruscio; â glo glo, il rumore di un liquido che esce dalla bottiglia o di chi beve a garganella; â gnam gnam, il mangiare avidamente; â gulp, il deglutire per sorpresa o per spavento; â mm (o hmm, mhmm, mmh), di volta in volta può essere un compiacimento o godimento di qualcosa (mm, che bontĂ ), ma anche con un senso negativo può esprimere perplessitĂ (mm, non sono convinto) o dubbio (mm, non ci credo!); â paf, il rumore di qualcosa che cade o anche un manrovescio; â patatrac, la rottura di qualcosa che crolla fragorosamente; â pissi pissi, il parlottio sottovoce e riservato di un bisbiglio; â pss, il sibilo per richiamare lâattenzione; â puff, un corpo che cade in acqua; â patapum, una caduta rovinosa; â ron ron, il russare oppure le fusa del gatto; â sss, il sibilo smorzato per intimare il silenzio; â tac, il rumore di uno scatto; â tic tac, il ticchettio di un orologio; â tic toc, il battito del cuore; â toc e toc toc, il bussare alla porta; â tuff, un tuffo; â uff, uno sbuffo di noia o di impazienza; â zac, un taglio netto.
â Quali sono le onomatopee dei versi degli animali? â Che cosâè il gre gre? â Quali sono le voci imitative degli animali nei dizionari? â Come si esprime il gracidare della rana con unâonomatopea? â Quali sono le alternative onomatopeiche al miagolare del gatto, oltre a miao?
Che verso fanno gli animali?
Tra le onomatopee ce ne sono molte che riproducono i suoni degli animali.
Sfogliando un dizionario si possono trovare per esempio le seguenti voci imitative con a fianco il nome o il verbo per sapere come si chiamano in italiano i versi che fanno gli animali.
â bau (bu o bu bu) è lâabbaiare cane; â bè (o bèe) è il belato della pecora; â caĂŹ caĂŹ è il guaito dei cuccioli o dei cani quando si fanno male; â chicchirichĂŹ è il canto del gallo; â cip (o cip cip) è il cinguettio del passero o di un uccelino; â cra cra è il gracidare della rana o il gracchiare o crocidare del corvo e della cornacchia; â cri cri è il verso del grillo, detto anche frinire (lo stridere che si riferisce anche alle cicale); â cucĂš è il verso del cuculo (o dellâorologio a cucĂš); â glo glo (o glu glu) è il gloglottare del tacchino, o di galline e faraone (anche gloglottio); â gre gre è il gracidare della rana (nei campi câè un breve gre gre di ranelle â Pascoli); â miao (miau, mao e anche gnao) è il miagolare o miagolio del gatto; â pio (e pio pio) è il pigolare o pigolio dei pulcini; â qua (e qua qua) è lo starnazzare di anatre e oche; â zzz è il ronzio e il ronzare soprattutto di zanzare, ma anche api, mosche e insetti.
â Cosa sono le esclamazioni o interiezioni? â Quali sono le sono le esclamazioni proprie? â Quali sono le sono le esclamazioni improprie? â Quali sono le sono le locuzioni esclamative? â Cosa sono le onomatopee? â âOddioâ è una locuzione esclamativa? â âAndiamoâ, anche se è un verbo, può essere usato come una locuzione esclamativa? â Si può scrivere una parola come âbrrââ? â âChicchirichĂŹâ è unâonomatopea?
Le interiezioni (dal latino interjectio, cioè âintromissioneâ), dette anche esclamazioni, sono parti invariabili del discorso che esprimono stati dâanimo come stupore, gioia, meraviglia, dolore e altri ancora.
Le esclamazioni proprie possono essere: ah, eh,
ih, oh, uh, ahi, ehi, ohi, ehm,
uhm⌠e altre di stile fumettistico, spesso seguite dal punto
esclamativo: toh! Uffa!
Le esclamazioniimproprie sono invece costituite da nomi, aggettivi e altre parole, anche verbi, usate con senso di esclamazione: evviva! Urca! Ciao! Zitto! Fuori! Andiamo! Scusa! Esatto! Bello!
A volte queste esclamazioni sono espresse da locuzioni esclamative, che di solito sono frasi
fatte come: santo cielo! Oddio! Al diavolo! Al ladro!
Al fuoco! Mamma mia! Guai a te! Mio Dio!
Le onomatopee
In questa categoria di parti invariabili del discorso rientrano anche le onomatopee, cioè quelle parole costituite da sequenze di caratteri che riproducono determinati suoni o rumori e vengono usate come interiezioni o esclamazioni. Per esempio brr, un brivido, il drin di un campanello, il bum di unâesplosione o il dindon delle campane, e ancora  i versi degli animali (chicchirichĂŹ, bau, miao, cra cra), ma anche sob, gulp e tutto il repertorio dei fumetti, molto spesso espresso in inglese (wow, smack).
â Come si distingue una parola come âforteâ che può essere sia aggettivo sia avverbio? â Come si distingue una parola come âdopoâ che può essere congiunzione, preposizione o avverbio? â Quali sono gli esempi di frasi in cui una stessa parola cambia funzione e diventa preposizione, congiunzione, aggettivo o avverbio?
Gli avverbiprimitivi (o semplici, ma non sono per niente âsempliciâ) sono piĂš difficili da riconoscere di quelli derivati dallâaggettivo, che perlopiĂš finiscono in âmente (sicuramente, velocementeâŚ).
Il problema è che molte volte una stessa parola diventa una diversa parte del discorso a seconda del contesto. Forte, per esempio, può essere un aggettivo, ma può anche diventare un avverbio.
Nellâespressione correreforte (= fortemente) è usato avverbialmente (dunque è avverbio) perchĂŠ si riferisce al verbo anzichĂŠ a un sostantivo (è âlâaggettivo del verboâ). Per distinguerlo, oltre a vedere a cosa si riferisce, può essere utile in questo caso notare che quando è avverbio diventa invariabile. Al contrario, quando è riferito al nome è sempre variabile, cioè si può conocrdare nel genere e nel numero: un uomoforte, due uominiforti. Lo stesso vale per chiaro: è avverbio in parlarchiaro (= chiaramente, riferito al verbo e invariabile), ma è aggettivo in lâuomochiaro (la donnachiara, gli uominichiari e le donnechiare).
Se questo concetto è forte chiaro si può passare a un distinzione un poâ piĂš difficile.
Altre volte si usano in modo avverbiale anche molte parole invariabili, e per distinguerle si può analizzare solo la loro funzione e il loro significato. Dopo, per esempio, secondo il contesto può assumere il ruolo di avverbio, di preposizione o di congiunzione. Nellâespresione: vadodopo è riferito al verbo ed è avverbio; nellâespressione: dopopranzo vado via (riferito al nome) diventa una preposizione impropria (dopo pranzo è come sul tavolo, nel piattoâŚ); nellâespressione: dopo aver mangiato (= dopo che ho mangiato) vado via diventa una congiunzione subordinativa, perchĂŠ congiunge una frase principale a quella subordinata temporale (vado via = principale + dopo che ho mangiato subordinata).
â Come si fa il comparativo degli avverbi? â Come si fa il superlativo degli avverbi? â Il superlativo di precipitevole è precipitevolissimevolmente? â Qual è il superlativo di âgrandementeâ? â Meglio dire âpessimamenteâ o âmalissimoâ? â Il superlativo di âsalubrementeâ è saluberrimamente? â Si può dire piĂš bene o piĂš male? â PerchĂŠ si può dire âsento piĂš male di ieriâ, ma si dice âmi sento peggio di ieriâ?
Come gli aggettivi, anche gli avverbi possono avere i gradi comparativo e superlativo.
Il comparativo può essere di maggioranza (si forma con piĂš: piĂš fortemente), di minoranza (meno fortemente) o di uguaglianza (tanto fortemente quantoâŚ).
Il superlativo relativo si forma aggiungendo âil piÚ⌠possibileâ (possibile può essere anche sottinteso), per esempio: gridai il piĂš fortemente possibile, mentre il superlativo assoluto si forma aggiungendo assai o molto oppure con i suffissi âissimo o âissimamente: gridai molto forte o fortissimo o fortissimamente.
Come gli aggettivi, anche alcuni avverbi possiedono delle forme particolari di comparativo e superlativo che si discostano da queste regole, e che sono riportate di seguito.
Grado positivo
Comparativo
Superlativo
assoluto
bene
meglio
ottimamente
(benissimo)
male
peggio
pessimamente
(malissimo)
molto
piĂš
moltissimo
poco
meno
minimamente
(pochissimo)
grandemente
maggiormente
massimamente
Naturalmente benissimo, moltissimo e simili sono da intendere in senso avverbiale: non sono aggettivi e non sono variabili nel numero e nel genere, dunque si riferiscono al verbo: stare benissimo o mangiare pochissimo (un gelato buonissimo è aggettivo).
â Il comparativo di bene è meglio, dunque non si dice è piĂš bene, mi sento piĂš bene, ho fatto piĂš bene, ma si dice sempre è meglio, mi sentomeglio, ho fattomeglio. â Allo stesso modo, il comparativo di male è peggio, e non si dice è piĂš male, ma è peggio.
La forma âpiĂš beneâ, però, vive in altre espressioni come: âVuoi piĂš bene alla mamma o al papĂ ?â, ma si tratta di un falso comparativo: in questo caso bene è un sostantivo e piĂš significa âuna maggiore quantitĂ â (un poâ come dire âvuoi piĂš pere o piĂš mele?â). Lo stesso vale nel caso di âpiĂš maleâ (ho sentito piĂš male di ieri = sostantivo, cioè una maggiore quantitĂ ), ma non si può dire mi sento piĂš male, si dice mi sento peggio.
In teoria, ma solo in teoria, i superlativi degli avverbi seguono le eccezioni che valgono anche per gli aggettivi (quelli in âfico e âvolo si appoggiano al suffisso âentissimo), e dunque se magnifico diventa magnificentissimo, anche lâavverbio dovrebbe essere magnificentissimamente, ma non si usa, come non si usa saluberrimamente e via dicendo: non tutti gli avverbi hanno il superlativo.
Gli avverbi in âmente, giĂ da soli, sono un poâ âpesantiâ nel loro utilizzo e nella loro lunghezza, e nei corsi di scrittura in genere si consiglia di evitarli e di optare per locuzioni piĂš eufoniche, per esempio correre forte o mangiare in modo avido sono preferibili a forme come correre fortemente, o mangiare avidamente. A maggior ragione usare superlativi renderebbe tutto ancor piĂš di cattivo gusto.
Quanto a precipitevolissimevolmente non è il superlativo assoluto di precipitevolmente (sarebbe caso mai precipitevolissimamente se non fosse un ossimoro esprimere un concetto cosÏ rapido in una parola tanto lunga) è solo una voce scherzosa, usata in modo scherzoso anche da qualche autore soprattutto in passato, ma non è registrata nei dizionari, almeno quelli moderni, e dunque non è propriamente la parola piÚ lunga della lingua italiana.
â Cosa sono gli avverbi? â Che differenza câè tra gli avverbi derivati e primitivi? â Gli avverbi terminano tutti in â-mente?â â Quali sono le locuzioni avverbiali? â Quali sono  gli avverbi di modo? â Quali sono gli avverbi di tempo? â Quali sono gli avverbi di luogo? â Quali sono gli avverbi di quantitĂ ? â Quali sono gli avverbi di affermazione? â Quali sono gli avverbi di negazione? â Quali sono gli avverbi di dubbio? â âEccoâ è un avverbio? â Quali sono gli accrescitivi e i diminutivi degli avverbi? â Si dice âa cavalcioniâ o soltanto âcavalcioniâ? â Quali sono gli avverbi che terminano in â-oniâ? â âEcceteraâ è un avverbio?
Lâavverbio si chiama cosĂŹ perchĂŠ âsta vicino al verboâ (ad verbum), ma la vicinanza non è nella sua collocazione allâinterno della frase (può essere anche lontano), bensĂŹ nel fatto che si riferisce al verbo e ne specifica una qualitĂ quasi come fosse âlâaggettivo del verboâ: mangio avidamente, corro velocemente, cioè in modo rapido.
Per essere piĂš precisi, però, un avverbio può anche specificare altre parti del discorso per esempio un sostantivo (riposo specialmentela domenica) o un aggettivo, soprattutto nei casi del predicato nominale (questo libro èenormementepesante) o anche unâintera frase (indubbiamente, mangi con aviditĂ ), ma in tutti questi esempi è sempre legato anche al verbo.
Gli avverbi sono classificati tra le parti invariabili del discorso perchĂŠ non si concordano nel genere e nel numero, e molto spesso si riconoscono facilmente perchĂŠ terminano in âmente e nascono proprio dalla modifica dellâaggettivo con questo suffisso (facile diventa facilmente, lento diventa lentamente). Ma non è sempre cosĂŹ. Altre volte si possono formare con la desinenza in âoni che nascono dai sostantivi o dai verbi: tentare diventa tentoni, come gatto diventa gattoni, ma câè anche il procedere cavalcioni, ciondoloni, carponi che a volte si possono introdurre con la preposizione a, ma vivono anche senza.
Oltre a questi avverbi (chiamati anche derivati, perchĂŠ derivano di solito dallâaggettivo) ce ne sono tantissimi altri chiamati talvolta primitivi (o semplici, perchĂŠ non derivano da unâaltra parola), che possono essere per esempio subito, dopo, prima, poco, bene, male, forte⌠e a loro volta si possono classificare in base alla loro funzione di specificare un modo, un tempo, una quantitĂ âŚ
Se gli avverbi derivati sono molto semplici da riconoscere grazie alla desinenza, quelli primitivi sono molto piĂš problematici, perchĂŠ si tratta di parole che in altri contesti possono avere altre funzioni ed essere per esempio aggettivi come poco, oppure congiunzioni come prima o preposizioni improprie come dietro.
Per capire quando sono avverbi bisogna di volta in volta analizzare la frase: gli aggettivi si variano nel e genere e numero e si riferiscono al nome, dunque questo piatto è poco (riferito al nome, piatto) si può volgere al plurale (questi piatti sono pochi) e in questo caso poco è aggettivo. Mangiopoco invece si riferisce al verbo ed è unâespressione invariabile. Allo stesso modo le stesse parole possono essere avverbi in espressioni come guardodietro o arrivo prima (riferite al verbo) oppure diventare una preposizione impropria (primadi pranzo) o una congiunzione subordinativa di una frase dipendente (riposoprima che arrivi = frase dipendente temporale).
Oltre agli avverbi derivati e primitivi, esistono anche le locuzioni
avverbiali, cioè espressioni complesse che hanno gli stessi significati o
le stesse funzioni, come di rado, di corsa, di fretta⌠formate da altre parti del discorso che però sono
usate in senso avverbiale, cioè riferite al verbo e diventate invariabili (non
si possono declinare al femminile o al plurale).
Volendo classificare gli avverbi  in base a ciò che qualificano, ci sono per esempio quelli:
â di modo, che rispondono alla domanda âin che modo?â, per esempio: cammino dolcemente, caparbiamente, piano, forte, carponi, volentieri⌠â di luogo, che rispondono alla domanda âdove?â o indicano un dove, per esempio: andare qui, qua, lĂŹ, lĂ , ovunque (possono includere anche delle locuzioni avverbiali: di qui, di lĂ )⌠â di tempo, che rispondono alla domanda âquando?â o indicano un periodo, per esempio: quando, ora, adesso, subito, prima, dopo, presto, tardi, oggi, domani, spesso, raramente, mai, sempre⌠â di quantitĂ , che rispondono alla domanda âquanto?â o esprimono quantitĂ , per esempio: quanto mangi, mangi molto, troppo, poco, tanto, poco, meno, minimamente⌠â di dubbio: chissĂ , probabilmente, forse, magari, eventualmente⌠â di affermazione: sĂŹ, sicuramente, certamente, certo, proprio, ovviamente, decisamente⌠â di negazione: no, non, nĂŠ, nemmeno, mai, neanche, neppure⌠âinterrogativi o esclamativi: come, dove, quando, perchĂŠ, quantoâŚ
Eccone altri! Queste etichette possono variare secondo le grammatiche (alcune raggruppano negli avverbi di valutazione quelli di affemazione, negazione e dubbio) e da queste classificazioni possono sfuggire avverbi come eccetera (considerato una locuzione avverbiale, vedi anche â Meglio scrivere âecceteraâ, âecc.â o âetc.â?) oppure un avverbio come ecco, che si trova in locuzioni come ecco fatto, e ha una forza particolare che può sostituire un verbo e subire trasformazioni: eccomi = sono qui (eccoci, eccola), o anche essere unito a nomi (ecco ecco un coccoun cocco per te! nella poesia di Pascoli) e pronomi: eccone un altro!
Pur essendo invariabili nel genere e nel numero, alcuni avverbi si possono alterare in forme vezzeggiative, diminutive, accrescitive o peggiorative (benino e benone, maluccio e malino, pochino e pochetto, o âandavano a scuola adagino e pianinoâŚâ); inoltre (come gli aggettivi), possono in alcuni casi avere â i gradi di comparativo e superlativo assoluto.
â Si può dire âma peròâ? â Si può iniziare una frase con âmaâ? â Prima di âmaâ è obbligatoria la virgola? â Quali sono gli esempi di frasi che cominiciano con âmaâ? â Nei Promessi sposi ci sono frasi che cominciano con âmaâ? â Quali sono gli esempi di frasi con âma peròâ? â Nei Promessi sposi ci sono frasi che usano âmaâ senza che sia preceduto dalla virgola? â Quali sono gli esempi di frasi in cui âmaâ non è precuto dalla virgola? â Nei Promessi sposi si trova âma peròâ?
Tra le espressioni indicate come errore sin dalle scuole elementari câè âma peròâ che viene duramente condannato come inutile ripetizione dello stesso concetto. Questa espressione, tuttavia, non dovrebbe cosĂŹ tanto scandalizzare, il pleonasmo è un artificio retorico che si può usare in molti casi, come per esempio lâossimoro, lâaccostamento di due termini opposti, assurdo logicamente ma potente per esempio nella poesia (âCessate dâuccidere i mortiâ, Ungaretti). Curiosamente non ci si scaglia invece contro analoghi rafforzamenti come âma inveceâ, e non si dice che questo costrutto ricorre in numerosissimi classici della lingua italiana.
Nei Promessi sposi âma peròâ ricorre piĂš volte: â âNon era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però câera abbondantemente da fare una mangiatina.â â âSignor curato, se mai desiderasse di portar lassĂš qualche libro, per passare il tempo, da poverâuomo posso servirla: chĂŠ anchâio mi diverto un poâ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma peròâŚâ â ââŚma però, a parlarne tra amici, è un sollievoâ.
Altri esempi di âma peròâ si trovano nellâInferno di Dante (âLo caldo sghermitor sĂšbito fue; ma però di levarsi era neente, sĂŹ avieno inviscate lâali sueâ, XXII, 142-144; âquesta fiamma staria sanza piĂš scosse; ma però che giĂ mai di questo fondo non tornò vivo alcunâ, XXVII, 63-65); nelle Novelle di Verga  (âIn cittĂ facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirlaâ, âPentolacciaâ); nella Gerusalemme liberata di Tasso (âVa contra gli altri, e rota il ferro crudo; ma però da lei pace non impetraâ); nella Vita di Alfieri (âma però era assai minore il pericoloâ), e moltissime volte nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galilei (âFatta la radunanza nel palazzo dellâillustrissimo Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimentiâ; âmâaccorsi della mia semplicitĂ [ma però scusabile])â.
Dunque (come lâespressione altrettanto vituperata ingiustamente âa me miâ, vedi â âSi può dire a me mi?â) questo può avere il suo perchĂŠ cin vari contesti, e chi lo stigmatizza in modo cosĂŹ perentorio dovrebbe forse maggiormente riflettere su altri tipi di inutili pleonasmi molto in voga che nessuno sembra condannare, per esempio il sempre piĂš onnipresente ârequisiti richiestiâ, come se un requisito non contenesse giĂ in sĂŠ il concetto di richiesto.
Si può cominciare una frase con âmaâ? Unâaltra leggenda grammaticale da sfatare è quella per cui non sarebbe possibile iniziare una frase con âmaâ. Ma bisogna premettere che âmaâ non ha solo un valore avversativo e può esprimere una contrarietĂ o uno stupore nei confronti di qualcosa, per esempio: âMa pensa un poââ, âMa va?â, âMa tu guarda!â. Inoltre, a seconda dello stile, è possibile scrivere una frase con una punteggiatura dalle pause deboli espresse con la virgola (Ero stanco, ma tirai avanti ugualmente), oppure amplificarle con il punto (Ero stanco. Ma tirai avanti ugualmente). Di frasi che iniziano con âmaâ è piena la letteratura, a cominciare dai Promessi sposi: ââŚSia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogoâŚâ; âSi sentĂŹ subito venir sulle labbra piĂš parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoiâŚâ.
Prima di âmaâ è obbligatoria la virgola? Infine, non è vero che prima di âmaâ sia sempre obbligatoria la virgola, ancora una volta non esistono regole cosĂŹ ferree da prescrivere nel caso della punteggiatura e in unâespressione come âè brutto ma buonoâ la virgola non è necessaria è solo una scelta possibile, cosĂŹ come nel caso di: â Zitta! â rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondioâ (I promessi sposi).
â Quando si sostituisce la congiunzione e con la virgola? â Si può mettere la virgola prima della e? â Si può cominciare una frase con la e? â Quali sono gli esempi di frasi in cui si può associare la virgola alla E? â Quali sono gli esempi di frasi che possono iniziare con la E?
La congiunzionee serve per coordinare due parole sullo stesso piano (mangio pane e salame), ma talvolta si può sostituire con una virgola, e a seconda dello stile e del contesto si può scegliere di scrivere: âEra stanco e avvilito, dunque si arreseâ oppure: âEra stanco, avvilito, dunque si arreseâ.
Quando gli elementi sono tanti e diventano degli elenchi, di solito la e si omette (altrimenti il costrutto diventa pesante) e si sostituisce con una virgola per lasciarla solo in conclusione prima dellâultimo elemento: âIndossava un cappello, un cappotto, pantaloni pesanti e stivali altiâ. Ancora una volta, la scelta di usare la e in conclusione non è necessariamente obbligatoria in ogni contesto, ma quando lâelenco si lascia in sospeso e la frase termina con eccetera o con i puntini di sospensione di norma la e conclusiva si omette: âIndossava un cappello, un cappotto, pantaloni pesanti, stivali altiâŚâ (vedi anche â Meglio scrivere âecceteraâ, âecc.â o âetc.â?).
Si può usare la virgola prima di âeâ? Unâaltra questione che pone dei dubbi è quella della possibilitĂ di usare la virgola prima di e, che spesso viene additato come un errore da evitare, visto che la loro funzione è la stessa. Ma questa è una leggenda grammaticale da sfatare: si può fare e si ritrova in molti testi anche letterari: âSi trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popoloâ (Promessi sposi). Bisogna tenere presente che lâuso della punteggiatura è molto soggettivo e non è disciplinabile da norme rigide (a parte alcuni usi evidentemente errati) e dunque anche nella sua associazione alla e ci son molti margini di soggettivitĂ e di stile. Si può benissimo amplificare e rafforzare la pausa della virgola aggiungendo anche una e. Oppure, anche se nelle incidentali è in linea di massima è forse preferibile escludere la virgola (era una giornata fredda e, a parte questo, non mi sentivo bene) non è infrequente trovare invece scelte che la includono (era una giornata fredda,e a parte questo, non mi sentivo bene) che non si può considerare un errore.
Si può cominciare una frase con la âeâ? SĂŹ. Anche la leggenda che non si possa cominciare una frase con la e, non ha fondamenti. Tutto dipende dallo stile. Molte espressioni come âE ancoraâ o âE voi che fate?â sono legittime, ma anche in moltissimi altri casi è possibile: âAmbasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano (Promessi sposi). Spesso e si può usare uno stile che privilegia le costruzioni lunghe (Si alzò di buon ora, si vestĂŹ in fretta e corse fuori) o quelle spezzettate da una punteggiatura forte che amplificano le pause (Si alzò di buon ora. Si vestĂŹ in fretta. E corse fuori). Ogni considerazione di quale dei due costrutti sia preferibile non riguarda la grammatica, ma lo stile.
â Che differenza câè tra le congiunzioni semplici e composte? â Che cosa sono le locuzioni congiuntive? â Che differenza câè tra congiunzioni coordinanti e subordinanti? â Per è una preposizione o una congiunzione? â Come si dividono le congiunzioni coordinative? â Quali sono le congiunzioni copulative? â Quali sono le congiunzioni disgiuntive? â Quali sono le congiunzioni avversative? â Quali sono le congiunzioni dichiarative? â Quali sono le congiunzioni correlative? â Come si dividono le congiunzioni subordinative? â Quali sono gli esempi di frasi con le congiunzioni?
Le congiunzioni sono quelle parole, sempre invariabili, che servono a congiungere tra loro altre parole o intere frasi. Sono perciò dei connettivi, e a seconda di come sono strutturate (la loro forma) possono essere semplici o composte.
Tra le congiunzionisemplici ci sono: e, o, se, ma, però, che, dunque, anzi, quindiâŚ
E tra quelle composte le grammatiche annoverano: perchĂŠ (formata da per + che), sebbene (= se + bene), seppure (= se + pure), neanche (= nĂŠ + anche)⌠Ma altre volte questa stessa funzione di connettere può avvenire non solo con queste parole semplici, ma anche con espressioni dallo stesso significato o dalla funzione analoga, e in questo caso sono classificate come locuzioni congiuntive, per esempio: come se, in modo che, tranne che, fino a cheâŚ
Passando dalla loro forma alla loro funzione, unâaltra distinzione fondamentale (soprattutto per lâanalisi del periodo) che si può fare è quella di raggrupparle in due categorie a seconda del loro uso: le congiunzionicoordinanti e quelle subordinanti.
Le congiunzioni coordinanti (dette anche coordinative) collegano due parole o frasi che sono sullo stesso piano, per esempio:
â cane e gatto (congiunzione tra parole) â compro un cane e regalo un gatto (collegamento tra due frasi indipendenti = che si reggono da sole)
sono coordinate dalla congiunzione e.
Le congiunzioni subordinanti (dette anche subordinative) congiungono invece due frasi che non sono sullo stesso piano, uno dipende dallâaltro in una concatenazione che rende il secondo elemento subordinato, per esempio:
â compro un cane perregalarlo a Silvia;
in questo caso il collegamento è tra una frase indipendente (che si regge da sola) e una frase dipendente dalla prima: per regalarlo non si regge da sola senza la principale (è una frase subordinata o dipendente).
Nellâesempio sopra, per che è di solito una preposizione (non una congiunzione) ha assunto il valore di congiunzione come può accadere spesso nelle forme implicite di una frase: âCorro per (= affinchĂŠ, congiunzione) far prestoâ ha un valore finale che è diverso da: âPasso per (= attraverso) il centroâ, con valore spaziale. Quindi, individuare quando una parola rientra in una certa categoria grammaticale, come sempre, dipende dal contesto. Sia le congiunzioni sia le preposizioni sono infatti dei connettivi (ma anche altre parti del discorso lo possono diventare a seconda del loro uso). Vedi anche â âCome distinguere gli avverbi da aggettivi, congunzioni e preposizioniâ.
Volendo andare ancora piĂš a fondo nelle classificazioni, le congiunzioni coordinanti vengono di solito distinte ulteriormente dalle grammatiche in varie tipologie:
â copulative, congiungono due elementi: e, anche, inoltre, ancora (positive), nĂŠ, neppure, neanche, nemmeno (negative); â disgiuntive, separano gli elementi spesso escludendone uno: o, oppure, ovvero; â avversative, mettono in contrapposizione: ma, però, tuttavia, invece; â dichiarative o esplicative, spiegano un fatto: cioè, infatti, per esempioâŚ; â conclusive, traggono delle conclusioni: dunque, quindi, perciò, pertanto, sicchĂŠâŚ; â correlative, si usano per fare confronti, ma sono solo il raddoppiamento delle copulative: e⌠e, sia⌠sia (âsia⌠cheâ è da evitare), tanto⌠quanto, cosÏ⌠come, ora⌠ora, nÊ⌠nĂŠâŚ
Le congiunzioni subordinanti si possono invece distinguere a seconda dei rapporti logici che determinano (tempo, luogo, causa, scopo, conseguenzaâŚ), per esempio:
â temporali: quando, mentre, finchĂŠ, che, dopo che, prima che (es. mangio quandoho fame); â finali: finchĂŠ, affinchĂŠ, perchĂŠ, per (mi corico perriposare); â consecutive: cosÏ⌠che; tanto⌠che, tanto⌠da (è cosĂŹ bravo dasaperlo); â concessive: benchĂŠ, sebbene, per quanto (lavora sebbenesia malato); â condizionali: se, qualora, ove, casomai, nel caso che (vengo semi inviti); â modali: come, siccome (ho fatto comemi hai detto); â comparative: come, nel modo che (mangia come parli); â interrogative: perchĂŠ, come (dimmi perchĂŠnon vieni); â dubitative: se (non so severrò); â dichiarative: che, come (credo chetu sia nel giusto); â eccettuative o limitative: tranne che, eccetto che, a meno che, fuorchĂŠ (fammi di tutto tranneil solletico).
Queste congiunzioni introducono spesso frasi subordinate che, a seconda del significato della congiunzione, danno alla frase dipendente valori diversi. Per esempio: mi tira la palla perchĂŠgli sono vicino (= causa) e mi tira la palla perchĂŠio faccia canestro (= affinchĂŠ, frase finale). Dunque, nellâanalisi del periodo bisogna sempre cogliere il significato e non guardare semplicemente alla singola parola slegata dal contesto.
â Si dice sopra il o sopra al? â Si dice insieme a o insieme con? â Si dice dietro ilodietro al? â Si dice dentroil o dentro al? â Si dice sopra e sotto il o sopra e sotto al? â Si dice davanti al o davanti il? â Che differenza câè tra oltre il e oltre al? â PerchĂŠ si dice contro il muro, ma contro di me? â PerchĂŠ si dice sul tavolo, ma su di noi? â Meglio dire fra noi o fra di noi? â Qual è la differenza di âtraâ e âfraâ? â Quali sono gli esempi di frasi con lâuso corretto delle preposizioni tra loro equivalenti? â Si dice âscrivi alla lavagnaâ o âscrivi sulla lavagnaâ? â Meglio dire âmacchina per scrivereâ o âmacchina da scrivereâ?
Sono corrette entrambe le forme, e si può dire come si vuole.
Molte volte non esistono regole precise per lâuso piĂš corretto delle preposizioni e si può dire in piĂš di un modo, a seconda del gusto personale ma anche del contesto. Per esempio, tra, fra e su talvolta si possono rafforzare attraverso lâaggiunta di âdiâ: si può dire fra di voi ofra voi, e ognuno può scegliere la forma che preferisce. E ancora si può scegliere tra:
â insieme alui e insieme conlui; â dietro laporta e dietro alla porta; â dentro la casa e dentro alla casa; â sopra e sotto la panca, ma anche sopra al tavolo; â davanti allafinestra (preferibile) e, meno comune, davanti lafinestra.
In altri casi lâaggiunta di una preposizione semplice può cambiare il senso della locuzione, per cui oltre la porta significa dietro la porta (o dietro alla porta, è lo stesso), mentre oltre alla porta ha un altro significato: in questa stanza oltre alla porta câè anche la finestra. A seconda del contesto si può dire:
â oltre lasiepe e oltre aldanno la beffa; â una gitafuori porta, una via fuori mano, ma fuori dallafinestra, fuori daipiedi, fuori diqui efuori di me.
Lâultimo esempio è interessante, perchĂŠ quando câè un pronome personale spesso è necessario appoggiarsi a una preposizione semplice che non si usa in altri casi, per cui si dice:
â sul(o sopra il) divano, ma su (o sopra) dinoi; â oltre la finestra, ma oltre a te; â contro il muro, ma contro di me; â sotto il maglione, ma sotto di lui; â dietro la facciata, ma dietro di me; â senza le mani, ma senza di te; â dopo (la) cena, ma dopo di voi; â presso il giardino, ma presso di me.
Ciò è valido spesso, ma non sempre, e nel caso di tra e fra si può dire fra di noi e fra di voima anche fra noi e fra voi (rimanga fra noi), oppure tra lui e lei.
Tra gli usi scorretti delle preposizioni si possono segnalare casi ormai entrati nellâuso come âscrivi alla lavagnaâ (che riprende lâespressione vai alla lavagna, corretta perchĂŠ è un complemento di moto a luogo), ma la preposizione corretta è âsuâ, dunque âscrivi sulla lavagnaâ. Anche altri casi che un tempo erano considerati errori si sono diffusi al punto che sono ormai accettabili e la loro frequenza è maggiore di quella delle forme storicamente piĂš appropriate. Per esempio lâuso di âdaâ in locuzioni come macchina âda scrivereâ o âda cucireâ che letteralmente dovrebbero essere âper scrivereâ o âper cucireâ (lâuso di âdaâ è una forma popolare non appropriata). Ma ormai la consuetudine ha cambiato le regole e persino un autore come Giorgio Manganelli ha intitolato un suo libro Improvvisi per macchina da scrivere. Inoltre, espressioni come costume da bagno, sali da bagno, ferro da stiro (costruiti sul falso calco di cose âda mangiareâ, âda portare viaââŚ) sono entrate nellâuso comune registrato anche dai dizionari e sono diventate insostituibili.
â Quali preposizioni si possono articolare? â PerchĂŠ si dice dagli (da + gli) ma âper gliâ? â Meglio dire âcon loâ o âcolloâ? â Meglio dire âtraâ o âfraâ? â Quali preposizioni si apostrofano e quali non si possono apostrofare? â Cosa sono le locuzioni prepositive? â Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni semplici? â Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni articolate? â Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni proprie? â Quali sono gli esempi di frasi con le preposizioni improprie?
Le preposizioni (dal latino praeponere, cioè âporre primaâ) sono particelle chiamate cosĂŹ perchĂŠ âsi mettono primaâ (su precede sempre il nome, per es. sul tavolo) e hanno una funzione di collegamento. Possono collegare tra loro due parole (il cane di Marco, cibopercani), si usano nel caso dei complementi indiretti (torno da Roma, vado con lui) e per legare insieme le frasi principali con quelle dipendenti (o subordinate): ti propongo â di correre; corroperallenarmi.
Oltre a quelle semplici e articolate che sono dette proprie, ci sono anche quelle improprie, e cioè che hanno gli stessi significati (per esempio sopra invece di su) o analoghe funzioni (per esempio davanti).
Preposizioni proprie semplici e articolate
Le preposizioni semplici, cioè di, a, da, in, con, su, per, tra e fra (come nella filastrocca che si impara a memoria), sono parti invariabili del discorso (non si volgono al singolare, plurale, maschile o femminile), ma quando si uniscono allâarticolo in una parola sola (dello, della, degli, delle) diventano articolate, e in questo caso si concordano con le parole che precedono seguendo le regole degli articoli che le compongono.
Ma non sempre è possibile fondere preposizione con lâarticolo in una preposizione articolata: da + il = dal, ma nel caso di per + lo non si usa âpelloâ.
Il prospetto che segue riassume ogni possibile caso di articolazione possibile e mostra i casi in cui non si articolano e rimangono separate.
Se in alcuni casi le preposizioni non si uniscono mai allâarticolo (non si può dire âfralleâ o âperleâ al posto di fra le o per le), i casi indicati tra parentesi indicano le forme che grammaticalmente si possono articolare, ma nellâuso dellâitaliano moderno tendono  a rimanere  staccate. Forme come âpeiâ, âpegliâ o âpeiâ sono arcaiche e non si usano piĂš, vivono solo nei libri del passato. Nel caso di collo, colla o colle si usano di frequente nel parlato, ma quando si scrive la tendenza moderna è di preferire le forme staccate, che suonano meglio e non creano confusioni con altre parole dallo stesso significato (il collo, il colle, la colla). Col e coi sono invece piĂš diffuse.
Tra
e fra
e sono sinonimi perfetti, e scegliere una o lâaltra forma dipende solo da
motivi eufonici. Dire per esempio âtra
trameâ e âfra farfalleâ produce un
bisticcio e suona quasi come uno scioglilingua, perciò è consigliabile usare
forme come fra trame o tra farfalle. In tutti gli altri casi
scegliere tra una e lâaltra preposizione dipende solo dai gusti personali,
entrambe sono perfettamente lecite (tra
papaveri o fra papaveri).
Tra, fra e su talvolta si possono rafforzare attraverso lâaggiunta di âdiâ: si può dire fra di voi o su di voi⌠oppure fra voi e su voi, ancora una volta ognuno può scegliere la forma che preferisce. Per saperne di piĂš vedi â âSopra al o sopra il? Dubbi sullâuso delle preposizioniâ.
Le preposizioni che si apostrofano Anche se finiscono per vocale, fra, tra e su non si apostrofano mai (fra amici, e mai frâamici), e anche da non si apostrofa di solito, tranne in alcune locuzioni come: dâaltro canto, dâaltra parte, dâora innanzi, dâora in poi, dâaltrondeâŚ). La preposizione di invece si tende ad apostrofare: un gioiello dâoro, un vassoio dâargento, dâun tratto, tutto dâun pezzo, protocollo dâintesa⌠(vedi anche â âLâapostrofo: elisione e troncamentoâ).
La preposizione âaâ può prendere la âd eufonicaâ e diventare âadâ solo quando precede una parola che comincia per âaâ (per saperne di piĂš â âE/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufonicheâ).
Preposizioni impropriee le locuzioni prepositive
Le preposizioni improprie sono parole diverse dalle preposizioni proprie, anche se il loro significato o la loro funzione sono simili: invece di dire in (preposizione propria) è possibile dire dentro (preposizione impropria). Tra queste ultime, che sono sempre invariabili, ci sono anche parole che in altri contesti possono essere avverbi di luogo o di tempo come davanti, dietro, sopra, sotto, giĂš, dentro, fuori, vicino, presso, accanto, intorno, prima, dopo o aggettivi come secondo, salvo, lungo (aggettivi) e altre parole ancora usate con funzione di preposizione, come mediante, eccettoâŚ
Locuzioni prepositive A volte le preposizioni improprie si appoggiano a preposizioni proprie; per esempio, invece di dire i calzini nel cassetto (preposizione propria) si può dire i calzini dentroil cassetto, ma anche i calzinidentro alcassetto (per saperne di piĂš â âSopra al o sopra il? Dubbi sullâuso delle preposizioniâ). E in certi casi questi stessi significati si possono rendere anche con piĂš di una parola, e in questo caso si parla di locuzioni prepositive: per mezzo di, per opera di, a favore di, nellâinteresse di, a causa di, a dispetto diâŚ
â Qual è la differenza tra pronomi esclamativi e interrogativi? â Che differenza câè tra i pronomi che si usano nelle domande dirette e quelli che si usano in quelle indirette? â Meglio dire: âCosa fai?â, âChe fai?â o âChe cosa fai?â. â Quali sono gli esempi di frasi con i pronomi interrogativi? â CHI si riferisce solo alle persone? â Quali sono gli esempi di frasi con i pronomi esclamativi?
I pronomi interrogativi sono quelli che servono a introdurre le domande, che possono essere dirette, cioè quelle che terminano con il punto interrogativo (?) o indirette, cioè formulate in altro modo che non vuole il punto di domanda alla fine.
Una domanda diretta è per esempio: âVerrai?â, mentre la formula indiretta può esprimere lo stesso concetto dicendo per esempio: âMi domando se verraiâ.
I pronomi che si trovano nelle domande dirette possono essere:
Chi? Che? Che cosa? Quale? Quanto? Per esempio: Chi è arrivato? A che(cosa) stai pensando? Checi fai qui? E gli stessi si possono impiegare anche nelle domande indirette (nulla cambia nei pronomi, a parte il punto interogativo): Mi chiedo chi è arrivato. Mi domandoche (cosa) stai pensando. Non so (forma dubitativa) checi fai qui.
Cosa, che cosa o che possono essere equivalenti, e la scelta della forma è una quesione di stile personale, si può dire: âCosa fai?â, âChe fai?â o âChe cosa fai?â.
Chi si riferisce solo alle persone.
I pronomi esclamativi non sono diversi da quelli interrogativi, lâunica differenza è il contesto, si usano nelle esclamazioni, per esprimere stupore. Per esempio:
Quanto ci ha impiegato! Che bello! Quale cortesia! Cosa hai detto! Qual buon vento!
â Quali sono i significati possibili di che? â Si può cominciare una frase con che? â Si può dire âsiccome cheâ? â Come si può distinguere il che congiunzione dal che pronome relativo? â Che può essere anche aggettivo?
âCheâ può assumere tantissimi significati diversi, e per fare un poâ di chiarezza per esempio nellâanalisi logica, oppure semplicemente nella comprensione di un testo, va sempre esplicitato.
In altre parole, per poter comprendere il suo valore e il suo senso, bisogna vedere che cosa significa nel contesto e come si può di volta in volta trasformare.
Per esempio può essere:
â pronome relativo:lâuomoche (= il quale) parla; â pronome interrogativo o esclamativo: che (= cosa) fare? chebello!; â aggettivo interrogativo o esclamativo: che (= quale) giacca indossi? Chefaccia tosta!; â congiunzione: ti dicochesei bravo.
Che altro dire? Che non è vero che non si può mai iniziare una frase con il che, come talvolta si dice (âche mi venga un accidente se non è cosĂŹ!â: non esistono controindicazione nel cominciare una frase con il congiuntivo preceduto da che). Oltre a tante frasi comuni che iniziano cosĂŹ (che bello! Che succede? Che mi dici?), ci sono anche molti esempi letterari che contraddicono lâopinione diffusa per cui non sarebbe possibile aprire una frase in questo modo, per esempio lâincipit di un racconto di Jorge Luis Borges:
Che un uomo del suburbio di Buenos Aires (âŚ) sâinterni nei deserti battuti dai cavalli (âŚ), sembra a prima vista impossibileâŚ
(âIl mortoâ in Lâaleph, Feltrinelli, Milano 1961, traduzione di Francesco Mentori Montalto).
Il fatto che sia possibile non significa però che sia sempre consigliabile: non è vietato, ma bisogna saperlo fare e poterselo permettere.
Invece, a proposito di divieti: non si può mai dire siccome che!
â Quali sono i pronomi relativi? â Meglio dire lâuomo a cui ho scritto o lâuomo cui ho scritto? â PerchĂŠ si dice âlâuomo CHE ho vistoâ ma âlâuomo DI CUI ti ho parlatoâ? â Quando si usa CHE e quando CUI? â âQualeâ si riferisce sia al maschile sia al femminile? â Un avverbio come âdoveâ può diventare pronome relativo? â Quando si usa CHE e quando CHI? â CHI si può usare riferito alle cose oltre che alle persone? â CHE si può usare riferito alle persone oltre che alle cose?
I pronomi relativi (il quale, la quale, i quali, le quali, che, cui, quanto, chiâŚ) oltre a prendere il posto del nome si usano spesso per collegare tra loro due frasi diverse: âHo visto il medico che (= il quale) mi ha guaritoâ.
Quale è variabile nel numero (i quali) ma il suo genere maschile o femminile si ricava solo dallâarticolo o dalla preposizione articolata che lo precede: la donna⌠della qualemi hai parlato, alla qualemi sono rivolto, sulla qualeho delle perplessitĂ , con la qualemi vedo⌠Molto spesso è però sostituito da che o cui (invariabili) che sono piĂš brevi ed âeconomiciâ: lâamicoche (= con cuimi) frequento, il ragazzo cui (= a cui, al quale) scrivoâŚ
Che si usa quando il pronome è soggetto o oggetto (la torta cheho mangiato) e cui quando è un complemento indiretto (il libro di cui mi hai detto), preceduto dalle preposizioni.
Lâuomo a cui ho scritto o cui ho scritto? Quando però cui è complemento di termine (risponde alle domande âa chi? A che cosa?â) è possibile usare sia a cui sia solo cui (che in latino era la forma giĂ declinata con il medesimo significato), dunque si può dire la lettere cui (o a cui) ho risposto. In questi casi la scelta è solo una questione di stile, e la forma alla latina è piĂš dotta o ricercata, mentre lâaltra è piĂš frequente e un poâ meno altisonante. Negli altri complementi indiretti, invece, la preposizione è sempre necessaria e non si può omettere.
Che vale sia per le persone sia per le cose, mentre chi è sempre riferito alle persone, mai alle cose, e frasi come chitace acconsente, chi la fa lâaspetti equivalgono a colui che.
Spesso, quando ci sono delle frasi relative è piĂš elegante esplicitare la forma in modo chiaro invece di usare il che, per esempio: âLa sorella di Pierino, che fa lâinsegnanteâŚâ è un espressione ambigua: lâinsegnante è Pierino o la sorella? Se sostituiamo il che con il quale o la quale non ci sono equivoci. In linea di massima, è meglio evitare frasi con troppi âcheâ: possono essere âpesantiâ e poichĂŠ può avere tantissimi significati esplicitarlo può migliorare la frase (sui molteplici significati che puĂ assumere vedi â âI tanti valori di cheâ).
Talvolta per le frasi relative si possono utilizzare non solo questi pronomi, ma anche alcuni avverbi che però vengono utilizzati con una funzione pronominale, per esempio dove, dovunque o comunque: âVado in un albergo dove (= in cui, nel quale) câè la piscinaâ, âotterrò la promozione con qualunque (= ogni, tutti) mezzoâ.
â Quali sono i pronomi indefiniti? â Che differenza câè tra âunoâ pronome e âunoâ articolo indeterminativo? â Come funzionano gli apostrofi e i troncamenti dei pronomi indefiniti come alcun e alcuno? â Cosa sono i pronomi correlativi? â PerchĂŠ si dice: âNON ho visto NULLAâ (doppia negazioneâ), ma âNULLA mi fermaâ con una negazione sola? â âAlcunoâ e âNessunoâ sono pronomi o aggettivi?
Si chiamano cosĂŹ perchĂŠ indicano qualcosa in modo generico e vago (indeterminato e indefinto).
Alcune volte possono coincidere con gli analoghi aggettivi, quando non câè il nome (e persino con gli articoli indeterminativi, per es. ho visto unosconosciuto = articolo, e ho visto uno = pronome, cioè ho visto qualcuno di indefinito, ma vale anche per ho visto due, treâŚ).
Coincidono con le forme degli aggettivi indefiniti per esempio nel caso di alcuno (alcuni, alcune), nessuno (nessuna), ciascuno (ciascuna) e ancora altro, molto, poco, troppo, tanto, quanto, parecchio, tutto, nessuno, tale, taluno⌠che si possono sempre concordare con il genere (altra, poca) e con il numero (altre, altri). Esempi: ho visto tutto; moltinon sanno nuotare; troppi commettono erroriâŚ
Sono invece solo pronomi: qualcuno e qualcuna (senza plurale), qualcosa (invariabile maschile), ognuno e ognuna (senza plurale), chiunque (invariabile maschile), niente e nulla (invariabili maschili) e poi qualcheduno, certuni, chicchessia, checchĂŠ, alcunchÊ⌠(per esempio: qualcosa è cambiato, câè qualcuno?).
â I pronomi composti da uno, seguono le regole dellâarticolo nellâuso dellâapostrofo, e dunque nei costrutti come alcun altro o qualcun altro, non vanno mai apostrofati davanti a vocale, nel caso del maschile: â uno, quando è pronome, a differenza dellâarticolo non ammette invece la forma tronca (un) e si usa con il significato di âun taleâ (câè uno che mi segue); â niente e il suo corrispettivo piĂš formale nulla, si usano nelle espressioni negative; se seguono il verbo sono accompagnati da non, se invece lo precedono non lo vogliono e non ne hanno bisogno: âNiente e nulla mi farĂ cambiare ideaâ, ma: âNon ho visto nullaâ: â tanto⌠quanto, lâuno (gli uni) e lâaltro (gli altri), tale⌠quale, spesso servono per formare frasi correlative e in questo caso si chiamano anche pronomi correlativi (es. tantinascono quantimuoiono).
â Quali sono i pronomi dimostrativi? â Come si apostrofano questo e quello? â Quali sono i pronomi dimostrativi oltre a questo e quello? â Quando si usa codesto? â Come si distinguono i pronomi dimostrativi questo e quello dagli stessi aggettivi dimostrativi? â Si può dire âsto al posto di questo? â âCiòâ si può usare riferito alle persone? â âColuiâ si può riferire alle cose o solo alle persone? â âCostuiâ può avere un valore dispregiativo?
Questo e quello sono pronomi dimostrativi quando prendono il posto del nome, altrimenti sono aggettivi dimostrativi:
â prendo questo libro (â aggettivo) â prendo questo (â pronome).
Non presentano particolari dubbi grammaticali, si declinano senza problemi nel genere e nel numero (questa, queste, questi; quella, quelle, quelli), e lâunica questione problematica può riguardare lâuso dellâapostrofo che segue le regole dellâarticolo lo.
Questo si apostrofa davanti a vocale (questâuomo), e quello si comporta come bello e lâarticolo lo da cui è formato: quel cane, quellâarmadio, quello studio, quella casa, quellâautomobile; non si apostrofano invece quei cani,quegli armadi, quelle case, quelle antenne. Quegli si può eventualmente apostrofare solo davanti a parola che comincia per i (queglâitaliani) ma non è molto in uso, nĂŠ particolarmente consigliabile.
Bisogna anche registrare che nel parlato a volte circolano forme con la soppressione della sillaba iniziale (aferesi) come âsto (âsta, âste e âsti) al posto di questo (che me ne faccio di âsto coso?), ma sono forme popolari e familiari non eleganti e non adatte ai registri formali.
Tra i pronomi dimostrativi ci sono anche:
â stesso e medesimo: vado sempre nello stesso/medesimoposto; â ciò, che è invariabile e si usa per indicare le cose e mai le persone: mangia ciòche vuoi; â colui, colei e coloro, per lo piĂš usati nei discorsi solenni: beato coluiche è saggio; â costui, costei e costoro, poco usati, che equivalgono a questo e simili, ma si usano solo per le persone (âCarneade! Chi era costui?â, I promessi sposi, cap. VIII), ma assumono talvolta una sfumatura un poâ spregiativa (es. cosa credono di fare costoro?).
âCodestoâ non si usa Come nel caso degli aggettivi dimostrativi, anche per i pronomi le grammatiche riportano spesso codesto, che servirebbe a indicare qualcosa che è vicino a chi ascolta, e per esempio il maestro dalla sua cattedra direbbe allâalunno seduto in un banco lontano: portami codesto quaderno, invece di quel. Ma questo uso è completamente decaduto, nel parlato e nello scritto. Vive solo come regionalismo nella parlata toscana e va assolutamente evitato nellâitaliano formale.
â Cosa sono i pronomi possessivi? â Quali sono i pronomi possessivi? â Proprio e altrui sono pronomi possessivi? â Come si distinguono i pronomi possessivi (mio, tuo) dagli aggettivi possessivi (mio, tuo)?
I pronomi possessivi sono quelli che esprimono possesso e sono:
â maschile singolare: mio, tuo, suo, nostro, vostro e loro; â femminile singolare: mia, tua, sua, nostra, vostra e loro; â maschile plurale: miei, tuoi, suoi, nostri, vostri e loro; â femminile plurale: mie, tue, sue, nostre, vostre e loro.
Naturalmente queste stesse parole altre volte possono essere anche aggettivi possessivi, tutto dipende dal contesto: quando il nome non è espresso si comportano da pronomi (stanno al posto del nome) quando invece il nome câè svolgono la funzione di aggettivo. Per esempio:
â la miapenna (aggettivo) e â lamia (pronome, sta al posto di âpennaâ che viene sottintesa).
Oltre a queste forme di facile individuazione, ci sono anche proprio e altrui che possono assumere lo stesso significato del pronome possessivo, per esempio:
â quel commerciante fa i propriinteressi (cioè i suoi) â non si occupa dei vantaggi altrui (cioè degli altri, e in questo caso altrui è pronome invariabile).
â Si può dire a me mi? â Nei Promessi sposi
ricorre il rafforzativo a me mi? â
Ci sono contesti in cui è lecito usare a
me mi?
Evitare di dire âa me miâ è una delle regole che insegnano sin dalle elementari, e grammaticalmente rappresenta una ripetizione dello stesso concetto che non ha senso, è qualcosa di pleonastico che è diventato il simbolo di un cattivo italiano.
Eppure, poichĂŠ la lingua è non è logica, ma soprattutto metafora, tra le figure retoriche câè proprio il pleonasmo, un espediente che ha il suo senso, se lo si usa nel modo giusto, come del resto lâanacoluto, un costrutto sintattico volutamente errato cui Manzoni ricorreva spesso: âQuelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loroâ.
Proprio nei Promessi sposi si trova anche lâuso di âa me miâ, nelle parole di una vecchia che indirizza Renzo verso Gorgonzola: âA me mi par di sĂŹ: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta.â E lo stesso uso del rafforzativo del pronome personale è rimarcato anche alla terza persona, in un altro passo: âPerò, anche dallâamico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo senâera andato con la coda tra le gambeâŚâ.
Altri esempi di âa me miâ si trovano nella Gerusalemme liberata di Tasso (âOimè! che fu rapina e parve dono, chĂŠ rendendomi a me da me mi tolseâ o nelle Novelle di Verga (âA me mi hanno detto delle altre cose ancora!â, âVita dei campiâ; âa me mi basterĂ che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un poâ di pagliericcioâ, âLa lupaâ).
In certi contesti, i rafforzativi sono dunque una leva della comunicazione e non si capisce perchĂŠ âa me miâ dovrebbe suscitare cosĂŹ tanto scalpore.
Nella lingua spagnola, per esempio, questo rafforzativo è praticamente dâobbligo: se non si rimarca a mi me gusta, ma soltanto me gusta, si ha lâimpressione che qualcosa non piaccia veramente.
In sintesi, è consigliabile evitare questo costrutto (come anche â âma peròâ biasimato altrettanto ingiustamente) nei contesti formali, soprattutto perchĂŠ è cosĂŹ vituperato che suona come un atto di ignoranza. Ma in altri contesti non ci sono ragioni per bollarlo come scorretto e âtanto odioâ è ingiustificato: non viola le regole della grammatica e se rafforzare fosse un reato dovremmo evitare anche espressioni come proprio lui e tante altre espressioni rafforzative.
â Si può usare gli al posto di loro? â Se ci si riferisce a piĂš persone, meglio dire gli ho dato o ho dato loro? â Glielo si può riferire anche a piĂš persone? â Alessandro Manzoni ha usato âgliâ al posto di âloroâ nei Promessi sposi?
Il pronome personalegli sta al posto di a lui, dunque al plurale è sempre meglio dire loro, quindi:
â âdai un bacio al principeâ si può trasformare in âdagli un bacioâ
ma
â âdai un bacio ai principiâ (plurale) diventa âdĂ loro un bacioâ e non âdagli un bacioâ.
Tuttavia nel parlato e nellâuso comune prevale spesso la forma meno elegante, che non è sempre considerata un errore.
Questo uso si ritrova persino nellâIntroduzione dei Promessi sposi: âTaluni però di queâ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, câeran sembrati cosĂŹ nuovi, cosĂŹ strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoniâ e Manzoni usa questa forma anche in altri passi del romanzo: âChi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta?â
Bisogna riconoscere che in alcuni casi il loro può suonare male anche se è piĂš corretto. Per esempio, la forma âglieloâ è molto piĂš eufonica (dateglielo è piĂš âmaneggevoleâ di datelo a loro).
In sintesi, quando la naturalezza del discorso lo richiede è possibile piegare e adattare le regole della grammatica troppo rigide.
â Lui, lei e loro possono essere soggetto? â Meglio dire lui andava o egli andava? â Quando è obbligatorio che lui diventi soggetto al posto di egli? â Nei Promessi sposi si trova âluiâ come soggetto?
Un tempo si insegnava a non usare mai lui e lei come soggetto: cosĂŹ come i pronomi di prima personame e te non possono essere soggetto (si dice iosono e non mesono), allo stesso modo lui (e lei) e il plurale loro erano consentiti nei casi fossero lâoggetto (guardo lui) o per altri complementi (parlo di lui, con lui, a luiâŚ). Per il soggetto si prescriveva sempre egli (dunque egli parla, non lui parla), e per il plurale essi.
Nellâitaliano corrente invece, soprattutto nel linguaggio diretto, queste formule sono sempre piĂš diffuse, e sono state âsdoganateâ anche da autori classici, a cominciare da Alessandro Manzoni che nei Promessi sposi usa frequentemente lui come soggetto: âLui invece caccia un urloâ; âe lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle coseâŚâ
Lui, lei e loro spesso sono preferiti anche nella scrittura a egli, ella o essi che suonano di stile un poâ antico, e nel parlato non si sentono mai. Passando dalla grammatica, dove sono leciti, alle questioni di stile, va detto che molte volte nel discorso si tende a non usare il pronome personale e a sostituirlo con sinonimi del nome o con altri giri di parole. Per esempio: âIl lupo vide Cappuccetto rosso. La ragazzina stava raccogliendo i fiorelliniâ è un costrutto piĂš diffuso di âIl lupo vide Cappuccetto rosso. Lei stava raccogliendo i fiorelliniâ.
Ci sono però casi in cui lâuso di lui, lei e loro come soggetto sono obbligatori, per esempio: â quando sono collocati dopo il verbo: lo dice lui (e mai âlo dice egliâ!); â quando sono preceduti da anche, nemmeno, piĂšâŚ: nemmeno lui (mai ânemmeno egliâ), piĂš luifa cosĂŹ e piÚ⌠anche lui, anche se luiâŚ; â nelle esclamazioni come proprio lui, beato lui; â nei dialoghi di tipo teatrale: Lui â âVieni!â Lei â âArrivo!â; â nelle contrapposizioni: luiera alto, leibassa; tanto luiquanto leiâŚ; â quando il pronome è da solo: chi è stato? Lui; â per dare risalto al pronome soggetto: lui sĂŹ che è una persona davvero intelligente.
â Meglio scrivere sĂŠ stesso o se stesso? â Si può omettere lâaccento di sĂŠ? â Ă logico omettere lâaccento di sĂŠ davanti a stesso e medesimo? â PerchĂŠ nel Novecento si è affermata la regola che âse stessoâ si scrivesse con lâaccento, ma oggi è stata messa in discussione? â Alessandro Manzoni come scriveva âsĂŠ stessoâ? â Quali sono le indicazioni dei principali dizionari per scrivere âsĂŠ stessoâ?
Nei monosillabi, in linea di massima, si mette lâaccento quando esistono degli âequivociâ che li possono far confondere con altri dal diverso significato (dĂ verbo e da preposizione, sĂŹ affermativo e si riflessivo⌠(vedi â âMonosillabi che cambiano significato con lâaccentoâ).
Il pronome personalesĂŠ, al contrario di me e te (il primo non ha omografi e nel secondo caso si accenta il tè bevanda)  si scrive con lâaccento (acuto) per evitare confusioni con secongiunzione.
Partendo da queste considerazioni da molto tempo si è diffusa la consuetudine che in presenza dei rafforzativi stesso e medesimo, venendo a mancare lâelemento di possibile confusione, si scrivesse senza accento se stesso e se medesimo (ma solo in questi casi). Questa regola è stata insegnata nelle scuole per decenni (spesso violarla era un errore da penna blu) ed è soprattutto entrata nelle norme editoriali di tutte le principali case editrici che lâhanno osservata nella pubblicazione dei libri per decenni e, anche se qualcuno aveva da obiettare sul senso, nel Novecento si è affermata come la tendenza dominante.
Le obiezioni di carattere logico e razionale partono dal presupposto che non ha senso oscillare a seconda dei casi, e poi câè sempre la possibilitĂ di confondere il rafforzativo del pronome personale con forme verbali come se (io) stessi, se (egli) stesse⌠Inoltre non si capisce per quale motivo non si dovrebbe scrivere anche a âse stanteâ invece di âa sĂŠ stanteâ.
Che ne dicono i dizionari e i repertori storici
Passando in rassegna i dizionari, sino agli anni Novanta il Devoto Oli (quando Giancarlo Oli era ancora vivente) riportava che âse stesso si scrive preferibilmente senza accentoâ e in tutto il testo del vocabolario lo scriveva cosĂŹ. Anche nello Zingarelli del 1985 lo si scriveva senza accento (pur ammettendo nella voce sĂŠ che se rafforzato da stesso e medesimo si può scrivere âanche senza accentoâ), come nel GRADIT e nel Nuovo De Mauro nella riedizione del 2014. Il Sabatini-Coletti (2005) tra parentesi annota che âsi può non accentare prima di stesso, medesimoâ e riporta due versi di Dante privi di accentazione. Il Gabrielli (2014) tra parentesi indica che sĂŠ rafforzato da stesso e medesimo âsi scrive di solito senza accentoâ, ma poi usa la forma accentata in altre parti della voce, che pare dunque la forma usata e preferita. Il DOP (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia di Migliorini, Tagliavini e Fiorelli, ERI, 1981) osserva che le varianti senza accento sono âfrequenti ma non giustificateâ come sostiene anche Luca Serianni (Grammatica italiana, Utet, 1991) secondo il quale la regola di omettere lâaccento non è di alcuna utilitĂ , anche se è la forma che prevale. Con il passaggio della cura del Devoto Oli a Serianni e Trifone, dunque, non câè da stupirsi che le occorrenze non accentate in tutto il testo siano state sostituite da quelle accentate, cosĂŹ come è accaduto nello Zingarelli dei nostri giorni. Andando a ritroso nel tempo, il dizionario Tommaseo-Bellini (1861-1879) riporta nei suoi esempi il pronome rafforzato privo di accento e, consultando il cd-rom LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli, 2001) con un ampio repertorio della lingua italiana in digitale si scopre addirittura che Manzoni lo scriveva talvolta non accentato (piĂš di 20 volte) e talvolta accentato, ma usando prevalentemente âsèâ con lâaccento grave per ben 33 volte. Ma a quei tempi si scriveva ancora a mano, e la consuetudine tipografica di distinguere chiaramente lâaccento acuto e grave si è consolidata in seguito, nellâOttocento spesso si usava solo quello grave sulle parole tronche (e âsè stessoâ con lâaccento grave ricorre anche nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, 1870). Nella seconda edizione postuma del romanzo (Sonzogno 1873) ricorrono oscillazioni di sĂŠ, sè e sestesso, che nella riedizione moderna di Einaudi sono state sempre sostituite da sĂŠ (acuto) o se senza accento.
Concludendo, in tempi recenti pare proprio che si stia affermando la scuola che preferisce sĂŠ stesso, che si sta diffondendo anche nelle norme editoriali di varie case editrici, ma non di tutte. Anche se ci sarebbe da interrogarsi sul senso di questa diatriba che è una sorta di riforma ortografica in nome della logica che cozza però contro lâuso che si era consolidato, la questione è attualmente aperta e la risposta è che lo si può scrivere come si preferisce.
Però è bene fare attenzione nei contesti scolastici o con professori alla vecchia maniera che potrebbero scambiare la scelta dellâaccento come un atto di ignoranza da stigmatizzare con la penna blu, invece che come un segno di maggior cultura e modernitĂ .
â Nelle formule di cortesia, quando gli interlocutori sono piĂš di uno, è meglio dare del voi o del loro? â Che differenza câè tra le forme di cortesia con lei e con voi? â Che cosâè il plurale maiestatis? â Che cosâè il plurale di modestia? â PerchĂŠ il medico si rivolge talvolta al paziente chiedendo âcome andiamoâ?
Dare del lei (terza persona singolare) seguito da congiuntivo (vedi anche âIl congiuntivo nelle frasi autonomeâ) si usa nelle formule di cortesia, cioè quando ci si rivolge a qualcuno a cui non si dĂ del tu, in modo formale, e vale anche per gli uomini, al maschile: lei è furbo (terza persona singolare).
Al plurale si dovrebbe perciò usare di conseguenza la terza persona plurale: loro (loro sono furbi).
Se invece si dĂ del tu allâinterlocutore (un tono meno formale e piĂš intimo), il plurale mantiene coerentemente la seconda persona del voi: tu sei furbo â voi siete furbi.
Tuttavia, dare del loro è oggi diventato piĂš raro, è percepito forse come eccessivamente formale, ma va precisato che dare del voi in tono formale è una formula di cortesia solo apparente, che si ritrova anche in formule legali o commerciali come âvogliate provvedereâ e simili al posto di âvogliano provvedereâ.
Questa mancata differenza che si riscontra sempre piĂš spesso deriva dalla confusione con il voi usato come formula di cortesia che ha però un uso completamente diverso. In passato, e ancora oggi in contesti regionali tipici per esempio del Sud Italia, si usa il voi riferito a una persona sola (e invariato se sono piĂš di una) anche per i contesti formali (come siete furbo, signore), ma oggi questa consuetudine non è in uso, e fuori dai contesti regionali, nellâitaliano standard è consigliabile evitarla.
Unâultima nota sui pronomi delle formule formali: esiste anche il plurale di maestĂ (maiestatis) usato un tempo per esempio dai re, che prevede il noi al posto di io, oppure quello di modestia, usato per esempio nella scrittura (es. âpossiamo concludere cheâ al posto di âconcludoâ, ma altre volte si può dare del voi al lettore o usare formule impersonali). Quando invece un medico chiede al paziente: âCome andiamo?â usa una formula âaffettivaâ come se condividesse le sofferenze del malato e ne fosse partecipe.
â Cosa sono i pronomi personali. â Che differenza câè tra le forme io, me e mi?  â Che differenza câè tra le forme egli/ella e esso/essa? â SĂŠ si scrive sempre con lâaccento? â Darglielo si può riferire anche a una donna? â Quando il pronome personale, per es. egli, è obbligatorio e quando si può omettere? â Che differenza câè tra i pronomi personali soggetto e complemento? â PerchĂŠ si dice âio guardoâ, ma non si può dire lui guarda âioâ? â Quali sono i pronomi personali riflessivi? â DĂ a me o mi dĂ hanno lo stesso significato? â Qual è il plurale di âgliâ?
I pronomi personali sono quelli che specificano la persona: io e noi, tu e voi⌠ma bisogna fare delle distinzioni importanti perchĂŠ queste parole si trasformano a seconda del contesto della frase e possono diventare me e te (si dice io guardo ma non âme guardoâ, o guardo te, e non âguardo tuâ) o anche mi e ti (mi lavo, ti dico).
Per sapere come usarli nel modo corretto, perciò, bisogna distinguere quando sono soggetto (io), quando sono complemento (me) che può anche diventare mi (mi piace = a me piace) e quando sono impiegati nelle forme riflessive (mi).
PiÚ nel dettaglio: la prima persona singolare ioè sempre soggetto (es. ioguardo te), quando diventa un complemento si trasforma in me (tu guardi me) e lo stesso vale per tu che diventa te e egli che diventa lui o sÊ. Queste forme sono dette anche forti o toniche, perchÊ possiedono un accento forte, ma possono diventare forme deboli, o atone, quando sono espresse da mi, ti e gli, che perdono questo accento marcato e si possono trasformare in suffissi enclitici (= che si aggiungono in fondo alla parola precedente appoggiandosi al loro accento), per esempio: dà a me si può trasformare in mi dai o anche dammi.
Queste regole con le trasformazioni dei pronomi personali a seconda delle loro funzioni si possono meglio riassumere in un prospetto.
Persona
Soggetto
Compl. (toniche)
Compl. (atone)
I sing.
io
me
mi
II sing.
tu
te
ti
III sing.
egli, esso, (lui) ella, essa (lei)
lui, sĂŠ
si, lo, gli, ne, la, le
I plur.
noi
noi
ci
II plur.
voi
voi
vi
III plur.
essi, esse (loro)
loro, sĂŠ
le, si, ne
Câè da notare cheâŚ
â Le terze persone dei pronomi personali Le terze persone dei pronomi soggetto, lui, lei e loro (in tabella tra parentesi) un tempo non venivano impiegate come soggetto (si usava obbligatoriamente egli/esso, ella/essa) ma solo come oggetto (dunque guardo lui, ma non lui guarda). Ma anche se câè chi ancora oggi ha qualche riserva su questo uso per il soggetto e preferisce evitarle, nella scrittura moderna si trovano e non sono considerate un errore: questo uso si ritrova piĂš volte per esempio giĂ nei Promessi sposi (âchĂŠ finalmente, lui sarebbe sempre stato lâimperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronioâ).
Viceversa lâuso di egli, ella, che si riferisce alle persone, ed esso, essa, piĂš adatto a essere il pronome soggetto delle cose o degli animali, sono sempre piĂš disuso sia nel parlare, e poco frequenti anche nello scrivere (si ritrovano invece spesso negli scritti del passato e vivono nelle tabelle con le coniugazioni dei verbi). Anche se queste forme sono grammaticalmente lecite, si tendono a evitare attraverso lâuso di sinonimi (es. ella era viene specificato: la ragazza/donna, MariaâŚ) o si sostituiscono con lui, lei e loro. Questi ultimi, però, in alcuni casi si devono usare obbligatoriamente. Per saperne di piĂš â âLui può essere soggetto al posto di egli?â
â I pronomi personali si sottintendono I pronomi soggetto in italiano perlopiĂš si evitano e si sottintendono. Se non câè un cambio di soggetto nel periodo che richiede di specificare il nuovo soggetto con un pronome al posto di ripetere il nome, sottolineare io mangio, può essere considerato uno stile âegoistaâ, mentre specificare tu o egli il piĂš delle volte è inutile e ridondante. Per esempio:
Cappuccetto rosso incontrò il lupo. Egli la vide e sĂŹ avvicinò quatto quatto. (Egli) le disseâŚ
Il primo egli è necessario, perchĂŠ altrimenti il soggetto sottinteso sarebbe Cappuccetto. La regola è che nellâalternarsi delle frasi si sottintende sempre lo stesso soggetto fino a che non interviene un cambio di costrutto. Il secondo egli è dunque del tutto inutile e ripeterlo suona fastidioso.
Per lo stesso motivo, nelle forme del congiuntivo che presentano ambiguità , si tende invece a inserire spesso il pronome personale nella frase per maggior chiarezza, per esempio: mi chiedo dove tu vada (poichÊ si dice che io vada, che tu vada e che egli vada) è meglio indicare di volta in volta di chi si sta parlando.
â Attenzione a sĂŠ SĂŠ si scrive sempre con lâaccento (acuto, per distinguerlo da se congiunzione), anche se rimane aperta la questione se è piĂš corretto scrivere sĂŠ stesso o se stesso che nellâuso ha una lunga tradizione senza accento in quanto la confusione con la congiunzione verrebbe a mancare. Si può scrivere in tutti e due i modi, ma per approfondire  vedi â âSi scrive se stesso o sĂŠ stesso?â.
â Attenzionea gli e le nellâuso, gli e le spesso si confondono e si usano a sproposito, ma bisogna ricordare che: gli = a lui le = a lei dunque, soprattutto quando queste forme si trasformano in enclitiche, bisogna fare attenzione al sesso del nome di riferimento! Non si può dire gli ho detto riferito a una persona femminile (le ho detto), nĂŠ si può dire: âDagli un bacioâ se ci si riferisce a una donna, si dice: âDalle un bacioâ, cosĂŹ come non si può dire: âPortale rispettoâ a un uomo, si dice: âPortagli rispettoâ.
â Gli al plurale è loro Spesso si tende a usare le forma enclitica gli anche al plurale, per esempio: âSon arrivati Marco e Antonio, offrigli un bicchierino.â In questo caso la forma piĂš corretta ed elegante è: âOffri loro un bicchierinoâ, perchĂŠ gli significa a lui, e non a loro, anche se in certi casi questo uso è accettabile. Per saperne di piĂš vedi â âGli ho dato o ho dato loro?â
â Uso alterato del lei al plurale Tra le insidie dei pronomi personali câè anche lâuso non propriamente esatto del lei/loro: quando si usa la forma reverenziale del lei che si dĂ , anche al maschile, attraverso il verbo al congiuntivo (venga, si sieda); bisogna ricordarsi che se gli interlocutori sono due si dovrebbe dare del loro (vengano, si siedano) piĂš che del voi (plurale di tu). Per saperne di piĂš  â âDare del tu, del lei del loro e del voiâ.
â Cosa sono i falsi accrescitivi. â Fumo e fumetto hanno la stessa origine? â Spaghetti è un diminutivo di spago? â Tacchino è il diminutivo di tacco? â Gazzetta è il vezzeggiativo di gazza? â Quali sono i falsi alterati che hanno lo stesso etimo anche se i significati divergono? â Quali sono i falsi alterati casuali? â Polpaccio è un dispregiativo di polpo? â Foca ha la stessa etimologia di focaccia? â Cavallone deriva da cavallo? â Cero, cerino e cerotto hanno a che fare con la cera?
Ci sono nomi che sembrano alterazioni di un nome primitivo, ma lo sono solo in apparenza.
Tra questi, alcuni hanno unâorigine che effettivamente ha una derivazione comune, anche se nellâuso odierno si è perso questo legame antico che univa le due parole a unâalterazione e a uno stesso significato.
Per esempio, cerino e cerotto non sono alterazioni di cero (candela), ma tutti e tre derivano da cera: il cerotto arriva dal greco kerotĂłn , cioè âunguento di ceraâ, in latino cerotum, cosĂŹ come il cerino è un fiammifero dal bastoncino di cera e il cero è fatto della stessa materia. Allo stesso modo aquilone, calzone o cavallone, sono nati dagli accrescitivi di aquila, calza e cavallo, mentre il fumetto era come una nuvola di fumo che usciva dalla bocca dei personaggi, e gli spaghetti somigliavano allo spago.
Altre volte le similitudini sono assolutamente casuali e hanno unâetimologia slegata. Per esempio focaccia o polpaccio non sono forme spregiative di foca e di polpo.
â Tra questi ultimi falsi accrescitivi ci sono: baro e barone botto e bottone bullo e bullone burro e burrone gallo e gallone lampo e lampone mago e magone matto e mattone monte e montone torre e torrone.
â Tra i fasi diminutivi o vezzeggiativi ci sono asta e astuccio botte e bottino collo e collina gazza e gazzetta merlo e merluzzo naso e nasello (nel senso del pesce, nel caso dellâappoggio degli occhiali deriva da naso) posto e postino pulce e pulcino rapa e rapina rubino e rubinetto tacco e tacchino.
â Cosa sono i pronomi? â Qual è la funzione dei pronomi? â Come si possono classificare i pronomi? â Molto spesso sono identici agli aggettivi (mio, quelloâŚ), come si distinguono? â Quali sono esempi di frasi con i pronomi?
Letteralmente, pronome significa âche sta al posto del nomeâ (pro nomen), cioè lo sostituisce, ma per essere piĂš precisi possono sostituire anche altre parti del discorso, per esempio aggettivi e altre parole. Insomma, i pronomi sono dei âsegnapostoâ abbastanza elastici, che si usano per evitare di ripetere una stessa parola, per economicitĂ e per non appesantire una frase. Per esempio: âHo uno zaino pesante, non è che me lo porteresti un poâ tu?â. In questo caso lo significa lo zaino, sostituisce il nome. Invece: âCredevo fosse veloce, ma non lo è affattoâ sostituisce lâaggettivo veloce.
Quasi sempre, i pronomi sono parole che diventano tali solo allâinterno di un contesto, ma in altri contesti le stesse parole hanno altri ruoli e funzioni, e per esempio possono essere aggettivi: questo libro o il mio libro sono aggettivi, perchĂŠ affiancano il nome e si concordano con il suo numero e genere, ma da soli: prendi questo o dammi ilmio, diventano pronomi. La loro classificazione è dunque in parte simile a quella degli aggettivi, e tradizionalmente vengono distinti in:
(Per saperne di piĂš vai ai rispettivi paragrafi).
Naturalmente, visto che le etichette con cui le parole si classificano non appartengono alla realtĂ ma sono delle categorie inventate per comoditĂ , câè anche chi si è spinto a suddivisioni ulteriori, distinguendo per esempio lâinsieme dei pronomi numerali (per analogia con gli aggettivi numerali) dunque âle tre donne andavanoâŚâ può diventare âle tre andavanoâ, cosĂŹ come âil primo amoreâ può diventare âil primoâ, dunque numerale ordinale⌠ma le grammatiche evitano di solito queste distinzioni cosĂŹ pedanti.
â Si può dire smisuratissimo? â Si può fare il superlativo di aggettivi che sono giĂ superlativi? â Si può fare il superlativo dei nomi o dei verbi? â Si può dire ultimissimo? â Si può dire dâaccordissimo? â Si può dire augurissimi?
Non tutti gli aggettivi possiedono le forme comparative e superlative, per esempio non li hanno quelli  che coinvolgono i concetti di tempo, materia o qualitĂ dellâessere come mensile, marmoreo, triangolare, ateo (non avrebbe alcun senso dire che qualcosa è piĂš mensile di unâaltra o sommamente triangolare).
Tuttavia, in senso figurato tutto è sempre possibile (ma dipende dai contesti), e si può dire anche estremissimo, anche se letteralmente estremo significa giĂ ciò che è piĂš esterno, oppure per esagerare: smisuratissimo e ultimissimo, anche se questi aggettivi letteralmente, non lo consentirebbero dal punto di vista grammaticale. Ma poichĂŠ la lingua è metafora, tra queste âlicenzeâ si possono trovare casi come âio sono italianissimoâ e in questo applicare le regole del superlativo al di fuori del contesto degli aggettivi, le parole âsuperlativizzateâ in modo iperbolico sono tante. Nel nostro lessico sono entrati per esempio padronissimo, finalissima, canzonissima, augurissimi, presidentissimo, affarissimo o campionissimo dove il suffisso dellâaggettivo viene applicato ai sostantivi. Tra i pronomi accresciuti in questo modo si registra stessissimo e poi circolano persino intere locuzioni come dâaccordissimo, hai ragionissima, processo in direttissima o in gambissima. E anche i verbi vengono qualche volta accresciuti ricorrendo ai prefissi superlativi: stravedere, strafare, strapagare o stramaledireâŚ
Questi ultimi esempi appartengono però ai registri pubblicitari o gergali, piÚ che a quelli formali o poetici, per cui in linea di massima è consigliabile usarli con moderazione.
â Quali sono i superlativi assoluti irregolari? â Qual è il superlativo assoluto di benefico? â Si può dire malevolissimo? â Si può dire asprissimo? â Si può dire piĂš estremo? â Meglio dire cattivissimo o pessimo? â Il superlativo di ampio è ampissimo o amplissimo? â Meglio dire miserrimo o miserissimo? â Si può dire âcelebrissimoâ? â Ci sono aggettivi che sono giĂ superlativi e non hanno il grado positivo? â Qual è il superlativo di interno? â Si può dire estremissimo? â Qual è il superlativo di vicino?
Come avviene nel caso dei comparativi di maggioranza e di uguaglianza, esistono aggettivi che nella formazione dei superlativi assoluti cambiano completamente la loro radice, oppure non si appoggiano al suffisso -issimo sul modello di bravo â bravissimo che contraddistingue i superlativi regolari. Dunque bisogna fare attenzione nei seguenti casi:
â gli aggettivi che terminano in âfico e -volo, formano il superlativo in âentissimo (e non in âissimo) perciò:
â i seguenti aggettivi hanno invece il superlativo in âerrimo:
aspro diventa asperrimo (anche se asprissimo ormai si è diffuso ed è accettabile) misero diventa miserrimo (anche se miserissimo circola, non è elegante) acre diventa acerrimo (e non acrissimo) celebre diventa celeberrimo (e non celebrissimo) integro diventa integerrimo (e non integrissimo) salubre diventa saluberrimo (e non salubrissimo).
Inoltre, tra le irregolaritĂ , câè ampio che diventa amplissimo, prende una l come avviene nel caso del plurale anomalo ampli, ma lâuso di ampissimo è diffuso al punto di essere tollerabile.
In altri casi ancora esistono delle forme speciali di comparativi e superlativi, che riguardano alcuni aggettivi che presentano una doppia forma possibile. In tabella sono raccolte tutte queste varianti.
Grado positivo
Comparativo
Superlativo
buono
piĂš buono o migliore
buonissimo o ottimo
cattivo
piĂš cattivo o peggiore
cattivissimo o pessimo
grande
piĂš grande o maggiore
grandissimo o massimo
piccolo
piĂš piccolo o minore
piccolissimo o minimo
alto
piĂš alto o superiore
altissimo o sommo o supremo
basso
piĂš basso o inferiore
bassissimo o infimo
interno
piĂš interno o interiore
intimo
esterno
piĂš esterno o esteriore
estremo
vicino
piĂš vicino
prossimo
ATTENZIONE ALLâERRORE Come nel caso dei comparativi non si può dire âpiĂš meglioâ o âpiĂš miglioreâ, anche nel caso dei superlativi non si può dire âpiĂš buonissimoâ, âpiĂš ottimoâ, piĂš pessimoâ o âpiĂš massimoâ, queste parole hanno giĂ il significato di massimo grado e non si possono âaumentareâ, cosĂŹ come non avrebbe senso dire âpiĂš ultimoâ o âpiĂš primoâ.
Tuttavia, nel caso di prossimo, intimo o estremo, hanno perso lâoriginale significato di superlativi e vivono di vita propria, sono usati anche con altri significati che permettono dei paragoni o degli aumenti di grado: si può dire che un parente èpiĂš prossimo (= vicino) di un altro, che uno sport è piĂš estremo (= spericolato, rischioso) di un altro, oppure che una confessione èpiĂš intimadi unâaltra. Lâuso di queste espressioni è documentato persino in autori classici (âcircondato daâ parenti piĂš prossimi, stava ritto nel mezzo della salaâ, Promessi sposi) e non è errato. A riprova della perdita dellâoriginario significato superlativo ci sono espressioni come estremissimo o intimissimo che circolano con una certa frequenza. Inoltre, in senso figurato tutto è sempre possibile, persino la consuetudine di rendere superlativi i sostantivi (partitissima, finalissima), i pronomi (stessissimo) o intere espressioni (dâaccordissimo). Per saperne di piĂš, vedi â âI superlativi âabusiviâ, iperbolici e metaforiciâ.
Ci sono infine alcuni aggettivi che non hanno il grado positivo, e sono giĂ espressi in forma comparativa, per esempio anteriore (= davanti a qualcosa dâaltro), posteriore, ulteriore, primo, ultimo o postumo. In modo analogo, altri aggettivi possiedono giĂ un significato superlativo che non permette di accrescerli ancora di piĂš, per esempio colossale, eterno, immenso, enorme, infinito, smisurato, immortale⌠(salvo gli usi figurati di primissimo, smisuratissimoâŚ).
â Che cosa sono i superlativi relativi? â Che cosa sono i superlativi assoluti? â Come si formano i superlativi? â Che differenza câè tra superlativi relativi e assoluti? â Meglio dire bravissimo o assai bravo? â Si può dire strabello? â Ipersensibile è un superlativo assoluto come sensibilissimo? â Quali sono le parole di rinforzo che servono a formare i superlativi? â Tutti gli aggettivi hanno il grado superlativo? â Che differenza câè tra âil piĂš belloâ e âbellissimoâ? â Che differenza câè tra comparativi e superlativi?
Oltre al grado comparativo, un aggettivo può possedere anche quello superlativo, che ne indica il grado massimo e può essere di due tipi: â relativo, quando il confronto è allâinterno di un contesto: sei il piĂš (o il meno) bravodella classe. In questo caso, come di solito avviene nel comparativo, il grado massimo si esprime aggiungendo la particela piĂš, senza alterare lâaggettivo; â assoluto, quando lâaffermazione è indipendente da ogni confronto, e in questo caso per lo piĂš si forma con il suffisso âissimo: sei bravissimo.
Ma i superlativi assoluti si possono formare anche in altri modi, per esempio con i prefissi stra-, super-, iper-, ultra-, arci-, extra-, ultraâ (straricco, superaccessoriato, ipersensibile, ultraricco, arcistufo, extraresistente), oppure ponendo davanti allâaggettivo degli avverbi come molto, assai, estremamente, enormementeâŚ, o ancora con altre parole di rinforzo, per esempio stanco morto, ubriaco fradicio, tutto solo (un altro aggettivo), stanco stanco (ripetizione). Tutte queste possibilitĂ hanno la stessa funzione e lo stesso significato, la loro scelta è solo una questione di stile: si può preferire ipersensibile a sensibilissimo a seconda del contesto.
Tuttavia, in generale, è bene non abusare dei prefissi che sono tipici dei registri pubblicitari (ultrapiatto, extrasottile) o parlati e popolari (strabello, megagalattico).
ATTENZIONE Questi sono i superlativi assoluti regolari, ma esistono anche altre forme che sono irregolari e che bisogna conoscere. Per esempio i casi in cui il suffisso non è piĂš âissimo, ma âentissimo (malevolentissimo, benefecintessimo) oppure âerrimo (celeberrimo), e in altri casi ancora esistono aggettivi diversi da usare, per cui non si dice âinternissimoâ o âesternissimoâ ma intimo ed estremo (per saperne di piĂš â âI superlativi assoluti irregolariâ).
Va poi precisato che non tutti gli aggettivi possiedono le forme comparative e superlative, per esempio quelli che coinvolgono i concetti di tempo, materia o qualitĂ dellâessere come mensile, marmoreo, triangolare, ateo ne sono privi (non avrebbe alcun senso dire che qualcosa è piĂš mensile di unâaltra o sommamente triangolare).
â Che cosa sono i comparativi di uguaglianza, maggioranza e minoranza? â Meglio dire piĂš buono o migliore? â Meglio dire piĂš cattivo o peggiore? â Si può dire âpiĂš minoreâ? â Si può dire âpiĂš maggioreâ? â Cosa sono le particelle comparative?
Quando si fanno dei confronti, un aggettivo può essere paragonato con altre cose attraverso un paragone di uguaglianza, maggioranza o minoranza. In questi casi si dice che è (di grado) comparativo (altrimenti è di grado positivo). Naturalmente, non tutti gli aggettivi ammettono confronti, e non si può dire che qualcosa è piĂš ultima o piĂš prima di unâaltra, anche se in senso metaforico o ironico è sempre tutto possibile, e si può dire che una persona è piĂš quadrata di unâaltra (letteralmente non avrebbe alcun senso), o che una cosa è piĂš mia che tua. Nei comparativi generalmente non si varia lâaggettivo, ma lo si affianca a particelle (dette comparative) che formano delle locuzioni. Per esempio:
â il comparativo di uguaglianza è retto da particelle come cosÏ⌠comeâŚ; tanto⌠quanto⌠(a volte le prime si possono anche omettere); o con altre locuzioni come al pari di. Per esempio: è (cosĂŹ) bello come lâoriginale; è grande quanto il tuo; è resistente al pari dellâaltroâŚ;
â il comparativo di maggioranza è retto da particelle come piÚ⌠diâŚ; o piÚ⌠che⌠Per esempio: è piĂš alto di me; è piĂš resistente che il tuo;
â il comparativo di minoranza: è retto da particelle come meno⌠di⌠(o cheâŚ). Per esempio: è meno alto di me; è meno resistente che il tuo.
In questi casi non ci sono problemi, ma in altri casi ci sono alcuni aggettivi che possiedono forme di comparativo differenziate, e dunque si trasformano in una parola sola, invece di appoggiarsi alle particelle comparative, per esempio:
â piĂš buono può essere sostituito da migliore: questo compito è migliore dellâaltro; â piĂš cattivo può essere sostituito da peggiore: questo compito è peggiore dellâaltro; â piĂš grande può essere sostituito da maggiore: questo compito è maggiore dellâaltro; â piĂš piccolo può essere sostituito da minore: questo compito è minore dellâaltro.
ATTENZIONE ALLâERRORE In questi esempi si può scegliere di usare una forma o lâaltra, ma lâerrore da evitare è quello di mescolarle: non si può dire âpiĂš miglioreâ, âpiĂš peggioreâ, âpiĂš maggioreâ o âpiĂš peggioreâ! Queste forme includono giĂ il valore del piĂš, per cui il comparativo si forma o con piĂš seguito dallâaggettivo di grado positivo oppure con la forma di comparativo differenziata che ne include il significato.
Sulle doppie forme dei comparativi e sulle differenze con i superlativi vedi anche la tabella in â âI superlativi assoluti irregolariâ
â Gli aggettivi sono sempre variabili? â Come si forma il plurale degli aggettivi? â Gli aggettivi come si volgono al femminile? â Quali sono le declinazioni degli aggettivi? â PerchĂŠ il plurale di poco è pochi, ma quello di pacifico è pacifici? â PerchĂŠ il plurale di saggio è saggi, ma quello di pio è pii? â Come si fa il plurale degli aggettivi composti? â Quando bello diventa bel, bei, belli? â Quando si deve dire quel, quei o quelli invece di quello? â Quali sono gli aggettivi invariabili? â Quando usa buon e quando buono? â Nessun e nessuno seguono le regole di un e uno? â Quando lâaggettivo si riferisce a una coppia di nomi uno maschile e lâaltro femminile come si declina? â Meglio dire i pomodori e le mele rossi, o i pomodori e le mele rosse?
Gli aggettivi sono inclusi tra le parti variabili del discorso perchĂŠ il piĂš delle volte si concordano con il sostantivo di riferimento nel genere (maschile e femminile) e nel numero (singolare, plurale).
Per essere precisi non sempre è cosÏ, e ci sono anche molti aggettivi invariabili come molti numeri, alcuni colori come il rosa, alcuni aggettivi determinativi. Sono invariabili anche:
â aggettivi come tuttofare, stereo, turbo⌠â alcune locuzioni avverbiali usate come aggettivi (perbene, dappoco); â pari e i derivati (dispari, impari); â alcuni composti di antiâ come antinebbia, antifurto, antiriflesso (ma non vale per antipatico o antisismico, al plurale âci), di fuori- (fuoripista, fuoriporta), si monoâ (monoposto), o di pluriâ (pluriuso);
e in altri casi ancora.
Per comprendere quando si possono declinare e come, può essere utile dividerli in categorie a seconda della loro desinenza (cosÏ come si fa con i sostantivi):
â gli aggettivi che al maschile singolare terminano in âo (per esempio bello) hanno quattro possibili desinenze: âo per il maschile singolare â uomobello âa per il femminile singolare, â donnabella âi per il maschile plurale â uominibelli âe per il femminile plurale, â donnebelle;
â gli aggettivi che al maschile singolare terminano in âa (es. idealista) hanno tre possibili desinenze: âa per il maschile e il femminile singolare â uomo o donnaidealista âe per il femminile plurale, â donneidealiste âi per il maschile plurale â uominiidealisti Â
â gli aggettivi che al maschile singolare terminano in âe (es. interessante) hanno due possibili desinenze: âe per il maschile e femminile singolare â uomo o donnainteressante âi per il maschile e femminile plurale â uomini o donne interessanti
â âco al plurale si trasformano in âchi (pronuncia dura; per esempio pòchi, antĂŹchi) quando sono accentati sulla penultima (sono cioè piani); se invece sono accentati sulla terzâultima (sdruccioli) si trasformano in âci mantenendo il suono dolce (per esempio: pacĂŹfici, antibiòtici ma al femminile mantengono il suono duro: pacifiche, antibiotiche); â in âgo al plurale diventano âghi (casalinghi, larghi), ma ciò non vale per i composti di âfago (antropofagi); â in âio al plurale maschile terminano in âii quando al singolare lâaccento tonico cade sulla i (pĂŹo â pii), altrimenti si contraggono in una sola âi (saggio â saggi).
Quando sono composti, di solito gli aggettivi cambiano il plurale solo nella desinenza del secondo elemento: veritĂ sacrosante; comunitĂ italo-francesi.
Nel declinare gli aggettivi è bene ricordare che:
â bello (come quello, formato dallâarticolo determinativo il/lo) si comporta seguendo le regole che governano â lâarticolo determinativo, dunque al maschile possiede un doppio singolare e un doppio plurale a seconda della parola che segue: un belgatto, un bellâarmadio, bei colori, begli occhi (al femminile sempre bella e belle). Dunque non è corretto dire che bei occhi; â buono (come alcuno, formato â dallâarticolo indeterminativoun/uno) si comporta come lâarticolo indeterminativo: buonappiglio (senza lâapostrofo), buonostudente (benchĂŠ buonstudente venga ormai tollerato, anche se non elegante), buonâanima, buona persona (al plurale è invece sempre buone e buoni). Vedi anche âLâapostrofo: elisione e troncamentoâ
Infine, bisogna prestare attenzione alle concordanze: quando ci sono aggettivi riferiti a piĂš nomi di genere diverso prevale il maschile, per esempio: âIl gatto e la gatta sonobianchiâ, anche se talvolta, per assonanza, è ammissibile anche concordare lâaggettivo solo con il nome piĂš vicino: âHo passato giorni e settimaneintenseâ. Insomma talvolta le regole di questo tipo non si applicano solo in modo rigido e matematico, sono elastiche e si possono piegare a seconda delle circostanze, se suonano meglio.
â Meglio dire una donna bella o una bella donna? â Che differenza câè tra un uomo grande e un grande uomo? â Che differenza câè tra ho visto un solo uomo e ho visto un uomo solo? â PerchĂŠ si può dire un grande principe ma non un azzurro principe? â Gli aggettivi vanno prima o dopo il nome? â Quali sono le regole della collocazione degli aggettivi qualificativi? â Che differenza câè tra: una bella iniziativa interessante; una bella e interessante iniziativa; e unâiniziativa bella e interessante? â Quali sono le regole della collocazione degli aggettivi determinativi? â Dire mio figlio o figlio mio è la stessa cosa? â Che differenza câè tra primo numero e numero primo?
Per gli aggettivi qualificativi non esistono regole precise che regolano la collocazione prima o dopo il nome, spesso dipende dallo stile: si può dire indifferentemente âè una bella donnaâ oppure âè un donna bellaâ.
In altri casi è invece obbligatorio collocare lâaggettivo dopo il nome: non si può dire âun azzurro principeâ nĂŠ un âuniversitario professoreâ (anche se si può dire âun grande principeâ e un âvalente professoreâ).
Insomma, in mancanza di regole precise non resta che andare a orecchio e valutare caso per caso.
In linea di massima, però, lâaggettivo precede il nome quando ha un senso generico o esprime qualitĂ permanenti e naturali (una buonaidea, un belfilm), mentre si colloca dopo quando lo si vuole mettere in risalto (unâidea buona, un filmbello) o per specificare una particolaritĂ del nome (medicolegale, profilogreco).
Quando ci sono piĂš aggettivi si possono collocare anche prima e dopo il nome: â una meravigliosa iniziativa interessante, â una meravigliosa e interessante iniziativa, â unâiniziativa meravigliosa e interessante.
A volte la posizione dellâaggettivo può conferire alla frase significati diversi (o diversi significati, è lo stesso), per esempio: Napoleone era un grandâuomo, ma non un uomogrande (nel senso della statura); e ho visto un uomosolo (= da solo) è diverso da ho visto un solo uomo (cioè ho visto solo lui).
Gli aggettivi determinativi, invece, di solito precedono sempre il nome cui si riferiscono, a parte in pochissimi casi. Con gli aggettivi possessivi, per esempio, sono ammissibili forme come âfiglio mio!â, che ha un valore diverso rispetto a âmio figlioâ che si usa abitualmente. Anche nel caso dei numerali si possono registrare delle eccezioni, per esempio si dice: âSei il numero unoâ (lâaggettivo è posticipato), mentre un ânumero primoâ (cioè divisibile solo per sĂŠ stesso) ha un significato diverso da âil primo numeroâ.
â Quando i colori si concordano nel numero e nel genere e quando no? â PerchĂŠ si dice le scarpe rosse al plurale ma le scarpe rosa al singolare? â Meglio dire i pantaloni marrone o i pantaloni marroni? â Meglio dire le scarpe arancioni o le scarpe arancione? â Le gradazioni dei colori, come giallo ocra, si declinano al plurale?
I colori sono perlopiĂš aggettivi (la mela rossa, i tavoli verdi), ma non sempre. Marrone, per esempio, non è un aggettivo da un punto storico, ma un sostantivo che indica una varietĂ di castagna (lo abbiamo importato dal francese marron) e solo per estensione è diventato il colore che la contraddistingue, dunque per essere precisi il âmaglione marroneâ significa: âil maglione color castagnaâ.
Perciò non si dovrebbe dire âgli stivali marroniâ, ma âgli stivali marroneâ (anche se ormai i dizionari registrano anche lâuso aggettivale che si declina al plurale, ma è un poâ improprio e non molto elegante). Per questo motivo alcuni colori si concordano con il nome nel genere e nel numero (i quaderni bianchi e i cieli azzurri), e altri no: le pantofole rosa, cioè del colore della Rosa canina, e non le pantofole rose.
Anche il colore blu è invariabile, ma solo perchĂŠ è un monosillabo, e come tutti i monosillabi non si volge al plurale (vedi â âIl plurale dei nomi della quarta declinazioneâ). Lo abbiamo importato solo nella seconda metĂ dellâOttocento dal francese bleu che poi abbiamo italianizzato (ma ancora agli inizi del Novecento era piĂš diffuso il francesismo). Precedentemente noi avevamo solo lâazzurro, il celeste (da cielo) o il turchino e il turchese, a loro volta derivati da âpietre turcheâ perchĂŠ indicavano il colore delle pietre preziose che arrivavano dalla Turchia.
Anche arancio non si declina, si tratta di un albero e indica il colore dellâarancia (il frutto spesso impropriamente utilizzato al maschile), mentre lâaggettivo derivato che indica il color arancio sarebbe piĂš propriamente lâarancione (preferibilmente invariabile: i pantaloni arancione, âarancioniâ è un uso un poâ piĂš popolare e meno elegante). E cosĂŹ non si declinano il color bordò (il colore del vino francese bordeaux), il color nocciola e una serie di colori che non hanno un proprio nome, ma fanno riferimento a cose della stessa tinta: terra di Siena, fumo di Londra, color cammello, carta da zucchero ecc. In questi casi i colori sono invariabili: le scarpe bordò, nocciola, beige, marrone, blu, viola, rosa, lilla, amaranto, indacoâŚ
Altrettanto invariabili sono di solito le gradazioni dei colori: le scarpe possono essere gialle, rosse e verdi, ma si dice le scarpe giallo ocra, rosso cupo, verde smeraldoâŚ
â Come funziona la numerazione romana? â Quando è obbligatorio usare i numeri romani? â Cosa sono gli aggettivi numerali ordinali? â Che differenza câè tra numeri ordinali e cardinali? â Quando è obbligatorio usare i numeri romani? â Quando non si possono usare i numeri romani? â Come si scrive 50 in numeri romani? â I numeri romani si scrivono sempre in maiuscolo? â Come si pronunciano i numeri romani?
Gli aggettivi numerali si distinguono in cardinali che corrispondono ai numeri (1, 2, 3âŚ) e ordinali (primo, secondoâŚ) che indicano lâordine di numerazione. Questi ultimi si possono scrivere seguiti da una piccola âoâ in apice, spesso fatta per semplicitĂ con il simbolo ° (1°, 2°⌠vedi â I caratteri della tastiera) che diventa una âaâ per il femminile (1a, 2 aâŚ), oppure con i numeri romani.
Il sistema di numerazione romano segue un poâ la logica del contare con le dita: 1 si indica con un segno (I), 2 con due (II) e 3 con tre (III), ma a questo punto invece di aggiungere un quarto segno è piĂš semplice scrivere 5 meno 1 (IV), quindi, a seconda della posizione di âIâ prima o dopo âVâ (che indica il numero 5) si ha IV (4) e VI (6). La stessa logica si applica al simbolo X (cioè 10): IX corrisponde a 9, e XI a 11 e cosĂŹ via. Il 50 si esprime con la lettera L, e arrivati al numero 39 (XXXIX), scatta la regola del 50 â 10 cioè XL. I simboli C (100) e M (1.000) sono invece derivati dalle iniziali dellâalfabeto (Cento e Mille).
Lo zero non esiste: verrĂ importato in Occidente piĂš tardi dagli Arabi insieme alle altre cifre chiamate appunto numeri arabi.
I numeri romani si scrivono sempre in maiuscolo (tranne quando vengono usati nelle note a piè di pagina, per esempio: Manzoniiv), e si usano obbligatoriamente al posto dei numeri arabi per indicare i nomi di papi e re (Luigi XIV, Giovanni XXIII) e anche per indicare i secoli: il XX secolo. In questo caso si pronunciano come numeri ordinali, dunque si dice Luigi quattordicesimo, non Luigi quattordici come a volte si sente.
Spesso, soprattutto in passato, venivano indicate cosĂŹ anche le date di pubblicazione di libri o film, anche se oggi possono risultare di non immediata comprensione, per esempio MCMLXV corrisponde a 1965, e in questo caso si pronuncia come il numero cardinale corrispondente.
A parte questi casi, in generale nello scrivere è sempre meglio evitare le cifre, dunque si scrive âsono arrivato primoâ e non â1°â, e per i risultati sportivi o di questo tipo il numero romano sarebbe fuori luogo. Di solito i numeri in cifre si scrivono solo dal decimo in poi (es. il 10° arrivato, il 20° arrivato) altrimenti è meglio usare le lettere.
Di seguito una tabella che aiuta a riassumere le regole e le equivalenze.
â Cosa sono gli aggettivi? â Che differenza câè tra aggettivi qualificativi e determinativi? â Cosa sono gli aggettivi dimostrativi? â Cosa sono gli aggettivi possessivi? â Cosa sono gli aggettivi indefiniti? â Cosa sono gli aggettivi numerali? â Che differenza câè tra aggettivi numerali cardinali e ordinali? â Cosa sono gli aggettivi primitivi e derivati? â Cosa sono le forme alterate degli aggettivi? â Come si distingue un aggettivo come âquestoâ dal pronome? â PerchĂŠ âchiaroâ è aggettivo in âmaglione chiaroâ, ma è avverbio in âparlar chiaroâ?
Gli aggettivi sono parole che si aggiungono al nome, e vengono classificate tre le parti variabili del discorso perchĂŠ si possono di solito (ma non sempre) volgere non solo al singolare e al plurale, ma anche al maschile e al femminile. In questi casi si concordano sempre con il nome nel numero (lâuomoelegante, gli uominieleganti) e nel genere (lâuomo coraggioso, la donnacoraggiosa).
Tradizionalmente vengono distinti in qualificativi, quelli che esprimono qualitĂ (alto, bello, forte, simpatico) e determinativi (o indicativi) che in altre parole indicano qualcosa di determinato (questo libro, non uno qualsiasi; quel cane, il mio orologio, nessun amico).
PiĂš nei dettagli, gli aggettivi determinativi si possono ulteriormente dividere in:
â dimostrativi, sono questo e quello (che a seconda delle parole con cui si associa può diventare quel: quel quaderno e quello studio, secondo le regole degli articoli il e lo) che servono a indicare qualcosa vicino a chi parla o scrive (questo animale) oppure lontano (quellâanimale).
âCodestoâ non si usa Le grammatiche riportano perlopiĂš anche codesto, che servirebbe a indicare qualcosa che si trova vicino a chi ascolta (per cui in una conversazione si potrebbe dire: togliti codesto cappello, riferito a chi lo indossa), ma è ormai caduto completamente in disuso, tranne nella parlata toscana e nel linguaggio burocratico dove si riferisce a un ente o istituto con altro significato (mi rivolgo a codesta banca perâŚ).
A questi si possono aggiungere anche stesso e medesimo (chiamati anche aggettivi dimostrativi dâidentitĂ o aggettivi identificativi): hanno lo stesso o medesimo vestito (cioè proprio quello). In altri casi hanno un valore rafforzativo: lâho visto iostesso; â possessivi, cioè mio, tuo, suo, nostro, vostro e loro (questâultimo è invariabile). Indicano a chi appartiene qualcosa. Alla terza persona si può usare anche proprio, per esempio: âGuarda solo al proprio (= suo) orticelloâ, oppure si può usare per rafforzare il legame di proprietĂ o possesso: âCe la farò con le mie proprie forzeâ. Quando lâaggettivo possessivo è accompagnato dai nomi di parentela di solito non vuole lâarticolo (per cui si dice âmia sorellaâ, e non âla mia sorellaâ). Per saperne di piĂš â âLâuso dellâarticolo e la sua omissioneâ; â indefiniti, si chiamano cosĂŹ perchĂŠ indicano in modo generico (e appunto indefinito) la quantitĂ o la qualitĂ di qualcosa: ogni, qualche, qualsiasi, qualunque, qualsivoglia (che sono invariabili e si usano solo al singolare), tutto, parecchio, altro e altri ancora tra cui alcuno.
Alcuno si usa solo al singolare e nelle frasi negative diventa nessuno, per cui è meglio dire ânon ho alcun dubbioâ invece di ânessun dubbioâ, dove la doppia negazione risulta pleonastica; in alternativa si può omettere e dire ânon ho dubbiâ. Va ricordato che alcuno è affiancato dalla forma con troncamento alcun, che non si deve mai apostrofare davanti alle parole maschili (es. alcun amico); segue le regole degli â articoli indeterminativiun e uno (dunque: alcun male e alcuno sforzo), e lo stesso vale per nessuno e nessun (dunque nessunâaltra = nessuna, ma nessun altro); â interrogativi ed esclamativi, introducono domande (dirette e indirette) o esclamazioni: che (invariabile), quale e quanto (per esempio: che o quale giornale leggi? Quanti biscotti hai mangiato? Ma anche: che giornata! Quanta gente! Quale valore hai dimostrato!); â numerali, che a loro volta si dividono in:
               â cardinali, cioè i numeri: uno, due, treâŚ. che sono tutti invariabili, tranne uno che può diventare una, mille che diventa âmila (duemila, tremila, centomilaâŚ), milione e miliardo (milioni e miliardi).
Naturalmente quando un numero è riferito al nome assume la funzione di aggettivo (opere da tre soldi), se invece è preceduto dallâarticolo, che ha il potere di rendere sostantiva ogni cosa, ha la funzione di un nome: âIl treè il numero perfetto!â
Se non si tratta di date, formule matematiche, cifre statistiche o importanti che si vogliono mettere in risalto (il 35% degli elettori) o numeri troppo lunghi (ho speso 234.000 euro) è sempre meglio scriverli in lettere e non in cifre (per esempio: dopo quattro giorni). Si usano invece nella numerazione delle note a piè pagina o a fine capitolo, in apice, attaccati alla parola di riferimento (es. parola1).
               â ordinali (indicano lâordine in una serie): primo, secondo⌠centesimo⌠e si possono scrivere in cifre arabe seguite dal simbolo ° (1°, 2°âŚ) o in numeri romani, e questa seconda variante è obbligatoria per i nomi di papi e re (Luigi XIV, Giovanni XXIII) e anche per indicare i secoli: il XX secolo (che, anche se stiamo uscendo dalla questione degli aggettivi, si può anche scrivere come il Novecento o il â900). Per saperne di piĂš â âI numeri romaniâ.
Come i â sostantivi, anche gli aggettivi possono essere primitivi (bello, forte, rossoâŚ) o derivati da nomi, come primaverile, boschivo, mortale, dantesco, ombreggiato, milanese⌠inoltre ci sono le formealterate, cioè diminutivi e vezzeggiativi (bellino, rosellino), accrescitivi (intelligentone, allegrone per lo piĂš sostantivati) o dispregiativi (giallastro, dolciastro). Tra le alterazioni possibili, molti aggettivi possono anche assumere diversi gradi: bellissimo è il (grado) superlativo assoluto di bello (detto invece di grado positivo, cioè normale), mentre il superlativo relativo si forma con una locuzione, il piĂš bello, cosĂŹ come il grado comparativo di maggioranza (piĂš bello di), minoranza (meno bello di) o di uguaglianza (bello comeâŚ).
Una precisazione importante Non bisogna mai dimenticare che le parole assumono la loro funzione solo allâinterno di un contesto, e mai in assoluto. âRiccoâ, per esempio, non è necessariamente sempre un aggettivo (essere un aggettivo non è una proprietĂ della parola) e nellâanalisi grammaticale può essere classificato in modi diversi: può anche essere sostantivato (basta aggiungere lâarticolo): il ricco, cioè colui che è ricco (sostantivo), che è diverso da âil proprietario riccoâ (se câè il nome di riferimento è sempre aggettivo). Lo stesso vale per altre parole come questo e quello, aggettivi se accompagnati dal nome (questo libro) ma che assumono il ruolo di pronomi dimostrativi se sono da soli: prendi questo. E ancora, una stessa parola che può essere spesso aggettivo, altre volte può essere usata in maniera avverbiale, cioè assumere il ruolo dellâavverbio: âScrivetechiaroâ (cioè chiaramente, in modo chiaro). In questo caso chiaro è avverbio, invariabile, ed è diverso da âil cielo chiaroâ (aggettivo e variabile: alba chiara, cieli chiari, albe chiare).
â Si può usare lâarticolo davanti ai nomi propri? â Meglio dire âil Manzoniâ o solo âManzoniâ? â PerchĂŠ si mette lâarticolo davanti ai nomi femminili: la Bertè, la Montalcini? â PerchĂŠ si dice il Carducci ma non il Garibaldi? â Si può dire âla mia sorellaâ? â Si può dire âil mio babboâ? â Meglio dire: âi cani, i gatti e i topiâ o âi cani, gatti e topiâ? â Meglio dire lâedizione âdei Promessi sposiâ o âde I promessi sposiâ? â Quando si usa lâarticolo con i nomi geografici (lâAfrica è grande) e quando no (Roma è grande)? â Meglio dire il soprano Maria Callas o la soprano?
In linea di massima, lâarticolo si usa con il nome, ma naturalmente ci sono varie eccezioni e non è sempre cosĂŹ: non tutti i nomi possono essere preceduti dallâarticolo.
Lâarticolo si omette davanti ai nomi propri: non si dice lo Stefano, ma semplicemente Stefano, e lo stesso vale per i cognomi di persona (è arrivato Rossi e nonil Rossi), anche se può capitare di imbattersi in âil Manzoniâ o la âMontessoriâ.
Alcune grammatiche riportano la âregolaâ che i nomi di personaggi illustri ammettono lâarticolo, per esempio il Pascoli o il Carducci, ma ciò non è vero. Infatti, non si dice per esempio il Michelangelo, il Cesare, il Napoleone o il Garibaldi. NĂŠ, sfogliando un giornale leggiamo il Benigni, dunque il caso dei nomi di alcuni letterati del passato (non tutti, e non si dice âil Danteâ) è unâeccezione da contestualizzare solo in quellâambito (e usare o meno lâarticolo in questi pochi casi è una scelta stilistica).
Ă invece molto diffusa la consuetudine di usare lâarticolo femminile per i cognomi di donna: la Bertè, la Loren o la Montalcini. Questa consuetudine è stata tacciata di un uso linguistico sessista. PerchĂŠ specificare il genere femminile quando non lo si fa per i personaggi pubblici maschili? Questa critica fu sollevata per esempio dallâex ministra Elsa Fornero che non gradiva essere appellata âla Forneroâ visto che nessuno avrebbe chiamato lâallora presidente del consiglio di quel governo âil Montiâ. In questi casi, chi volesse evitare questo uso può aggirare la questione specificando sempre anche il nome (Loredana Bertè) o lâapposizione (la ministra Fornero) in modo da evitare lâuso dellâarticolo considerato politicamente poco corretto (per approfondire la questione del sessismo â âIl sessismo della lingua e la femminilizzazione della caricheâ). Davanti ai nomi dal sesso incerto, per esempio soprano (al maschile anche se tipico delle donne) è invece consuetudine apporre lâarticolo che ne qualifica il genere quando sono uniti al nome, per esempio la soprano Maria Callas (ma si può dire anche Maria Callas è stata la/il soprano piĂš famosa/o), mentre per i nomi dal sesso ambivalente si usa necessariamente il femminile: Maria Callas è stata una cantante famosa (e non un cantante).
Al contrario dei nomi propri, lâarticolo si usa invece nel caso dei soprannomi, il Parmigianino o il Griso, e nel caso dei â nomi geografici di continenti, laghi, fiumi e monti: lâAsia, il Po, il Garda e il Gran Sasso. Viene invece omesso davanti ai nomi delle cittĂ (Roma è una cittĂ dâarte) e alcune grammatiche riportano come eccezioni La Spezia, LâAquila, Il Cairo, LâAia, La Mecca, La Paz, o LâAvana, ma a essere pignoli in questi casi lâarticolo fa parte del nome, non è unâaggiunta arbitraria. Lâeccezione è semmai il caso di specificazioni o attributi che accompagnano il nome di una cittĂ , per esempio la Roma di Cesare o la Milano da bere.
Lâarticolo va omesso nei nomi di parentelapreceduti dallâaggettivo possessivo: si dice mio fratello, mia sorella, mia nonna, mia madre e mio padre (e mai la mia sorella e simili), ma le eccezioni non mancano. Nel caso di babbo e di mamma, per esempio, si usa: il mio babbo, la mia mamma, e allo stesso modo si usa nei plurali (le mie sorelle, i miei nonni, le mie zie) o quando è preceduto da un aggettivo qualificativo, il mio vecchio padre. Al contrario, lâarticolo si omette davanti ai possessivi che precedono le formule come Sua Altezza (o Eccellenza, Eminenza, MaestĂ , SantitĂ e Signoria).
Inoltre, si può omettere anche davanti alle citazioni di opere il cui titolo comincia con un articolo. âA proposito dei Promessi sposiâ, è corretto anche se il titolo originale è I promessi sposi (lâalternativa, a volte pignola e meno scorrevole, ma ugualmente corretta, è quella di scrivere: âA proposito de I promessi sposiâ).
Infine, quando ci sono elenchi di nomi di diversa appartenenza, per esempio i cani, i gatti e i topi conviene riportare sempre lâarticolo prima di ogni nome, è piĂš elegante, mentre quando i nomi sono invece dello stesso genere è consigliabile ometterlo: il musicista, cantante e scrittore Vinicio Capossela.
â Come si distinguono gli articoli partitivi dalle preposizioni articolate? â Si può dire âhai dei begli occhiâ? â Si può dire âil cane di dei miei amiciâ? â Si può dire âsono stato in dei postiâ? â Che differenza câè tra âmangio biscottiâ, âmangio dei biscottiâ e mangio alcuni biscottiâ? â Quando è obbligatorio lâuso del partitivo? â Quando si può evitare lâuso del partitivo? â Con quali parole si può sostituire un partitivo? â Quando i partitivi non si possono usare?
Un, uno e una non hanno un vero e proprio plurale.
Gli articoli indeterminativi al plurale diventano come le preposizioni articolate: dei, degli e delle. Prendono il nome di articoli partitivi perchĂŠ indicano una quantitĂ o una parte del tutto, come quando (anche al singolare) si dice: âHo mangiato della carne e ho bevuto dellâacquaâ (= una parte, un poâ). Con questa stessa funzione, ho visto un amico al plurale diventa ho visto degli amici (cioè alcuni, un poâ, certi, una parte dei miei amici, non tutti) che ha un valore indeterminato prima che di quantitĂ .
Come distinguere i partitivi dalle preposizioni articolate? In alternativa agli articoli partitivi, per formare il plurale si può utilizzare lâaggettivo indefinito alcuni e alcune (alcuni pneumatici, alcune amiche). Oppure, si possono sostituire con un poâ, certi, qualche. E ancora, si possono quasi sempre omettere. Per esempio:
ho mangiato delle ciliegie = ho mangiato ciliegie, oppure qualche ciliegia, alcune ciliegie, un poâ di ciliegie, certe ciliegie.
Nellâanalisi grammaticale, dunque, un trucco per distinguere le preposizioni articolate dagli articoli partitivi è quello di provare a compiere questa sostituzione o a ometterli (guardo dei film = guardo film o alcuni film; la palla dei bambini è invece preposizione articolata). O ancora, si può provare a girare la frase al singolare (prendo delle cose â prendo una cosa = partitivo; il nome delle cose â il nome della cosa, preposizione).
Nella loro declinazione nel genere e nel numero, i partitivi seguono le stesse regole degli articoli determinativii, gli e le da cui sono composti (e non degli indeterminativi un, uno e una). Dunque, il plurale di una è sempre delle, mentre quello di un e di uno si trasforma in dei o degli. Il che significa che âunâ al plurale può diventare a seconda dei casi dei (es. un cane â dei cani) oppure degli (un amico â degli amici).
PiĂš precisamente, degli si usa davanti a:
â le parole che cominciano con vocale (degli amici, degli ermellini, degli imbuti, degli orsi, degli usignoli); â le parole che cominciano con x e z (degli xenofobi, degli zerbini); â le parole che cominciano con s impura (cioè seguita da unâaltra consonante e non da una vocale, per esempio deglistudi); â i gruppi di consonanti gn, pn e ps (degli gnomi, degli pneumatici, degli psicologi).
Negli altri casi si usa dei (dei cani, dei bambiniâŚ).
Come nel caso di le e gli, è bene ricordare che anche delle e degli non si apostrofano mai: delle aquile ( e mai âdellâaquileâ), degli amici (e mai âdeglâamiciâ), e anche nel caso di degli seguito da parola che inizia con i è preferibile omettere lâapostrofo (degli italiani è meglio di âdeglâitalianiâ, anche se grammaticalmente sarebbe accettabile). Per saperene di piĂš vedi â âIl, lo e la: gli articoli determinativiâ e â âApostrofo: elisione e troncamentoâ.
Quando i partitivi si possono anche omettere e quando non si possono usare
Venendo alle questioni di stile, è consigliabile non abusare di dei, degli e delle con valore partitivo.
In passato molti linguisti di stampo purista si sono scagliati contro lâuso dei partitivi perchĂŠ venivano considerati unâinterferenza della lingua francese (dove sono sempre obbligatori e non si possono omettere), e anche se nellâitaliano moderno sono utilizzati molto di frequente soprattutto nel parlato, è rimasta nellâaria una certa ostilitĂ nel loro abuso soprattutto nei registri alti. Perciò câè chi ritiene preferibile dire âho letto alcuni libriâ invece di âho letto dei libriâ, ma sono scelte stilistiche personali.
Lâuso del partitivo plurale non si può invece ammettere dopo la preposizione di: il cane di un mio amico non può diventare il cane di dei miei amici; o si omette dei (il cane di miei amici) o si sostituisce (il cane di certi miei amici).
Con le altre preposizioni è grammaticalmente ammissibile, ma è spesso considerato inelegante o anche scorretto dopo la preposizione in: sono andato in dei posti (meglio: in posti, in certi posti); animalichiusi in delle gabbie⌠sono espressioni additate come da evitare dal punto di vista dello stile. Câè anche chi biasima il suo uso con altre preposizioni, per esempio mangio pane con del salame (meglio mangio pane con salame), oppure ho prestato la mia macchina a degli altri e cosĂŹ via. Anche quando il nome è accompagnato da un aggettivo qualificativo, per esempio ho bevuto dei vini ottimi, non è ben visto da tutti rispetto a ho bevuto vini ottimi. E davanti a queste forme che alcuni considerano ammissibili, ma altri sconvenienti, è sempre meglio domadarsi se non sia di volta in volta meglio evitarle e rigirare una frase in modo piĂš felice a seconda dei casi.
Infine, i partitivi non andrebbero usati quando ci si riferisce a coppie di oggetti e nomi che non possono essere piĂš di due (in tal caso dei, nel senso di alcuni, ha poco senso), per esempio: Valeria ha occhi molto belli (e non âha degli occhi molto belliâ, visto che sono solo due e che la loro bellezza non appartiene a una parte di essi), cosĂŹ come non si dovrebbe dire âhai delle belle gambeâ, anche se questo tipo di espressioni sono piuttosto frequenti e inarginabili al punto di essere entrate nellâuso.
Invece gli articoli partitivi sono  obbligatori quando precedono il verbo nei costrutti: si può dire ho portato libri, ma non libri ho portato.
â Lâarticolo uno si può apostrofare? â Si può scrivere unâinsegnante? â PerchĂŠ si scrive un amico senza apostrofo ma unâamica con lâapostrofo? â Si dice âuno pneumaticoâ o âun pneumaticoâ? â Meglio dire âunâaziendaâ o âuna aziendaâ? â PerchĂŠ si dice uno spazzino ma un secchiello se cominciano entrambi con la S? â Che differenza câè tra gli articoli indeterminativi e determinativi? â Come si fa il plurale di âunâ, âunoâ e âunaâ? â Quando si deve usare âunâ e quando âunoâ?
Uno, un e una sono articoli indeterminativi perchĂŠ indicano un nome indeterminato (un cane qualsiasi, non il cane = quel cane lĂŹ). Come nel caso degli â articoli determinativi, al femminile non câè alcuna ambiguitĂ si usa sempre una (una tazzina, una finestra, una strada) che si può (ed è consigliabile, anche se non obbligatorio) apostrofare quando la parola seguente inizia per vocale (unâamaca, unâeccezione, unâitaliana, unâocarina e unâupupa).
Per lâarticolo indeterminativo maschile (un e uno), invece, la regola si può formulare in un modo semplice da ricordare: si usa sempre un, in particolare per le parole che cominciano per vocale (unamico, unarmadio) tranne nei seguenti casi in cui si usa uno davanti a:
â i gruppi di consonanti gn, pn e ps; â le parole che cominciano con x e z; â le parole che cominciano con s impura, cioè seguita da unâaltra consonante, per esempio studio (davanti alla s seguita da vocale si usa invece un: un secchiello).
Dunque si dice: unognomo, unopneumatico, unopsicologo, unospazzino, unoxenofobo, unozerbino.
In tutti gli altri casi si usa un: unbottone, uncavallo, undiamante, ma soprattutto si usa sempre un anche davanti a vocale (è bene ripeterlo): unassolo, unelettrone, unimbuto, unosso e unufficio.
In questi casi non si deve mai e poi mai usare uno con lâapostrofo: scrivere âunâerroreâ è un errore (e un orrore) tra i piĂš sgradevoli e intollerabili, benchĂŠ diffusi. Vedi anche â âLâapostrofo: elisione e troncamentoâ.
âUnoâ non si apostrofa mai per una ragione molto semplice: davanti ai nomi che iniziano per vocale si usa lâarticolo un, che non ha bisogno di alcun apostrofo, vive da solo cosĂŹ comâè. Unâ si usa solo ed esclusivamente per il femminile una davanti a vocale: unâamaca, unâeccezione, unâiniziativa, unâopera e unâulcera.
Perciò scrivere unâinsegnante significa che stiamo parlando di una donna (= una insegnante), altrimenti nel caso di un uomo è un insegnante.
L'italiano corretto ha cambiato indirizzo. Se avevi salvato lagrammaticaitaliana.wordpress.com aggiorna il tuo segnalibro in: siti.italofonia.info/italianocorretto