■ Quando si usa il/i e quando si usa lo/gli? ■ Si dice gli pneumatici o i pneumatici? ■ Si può scrivere l’Fbi? ■ Si può scrivere l’8 settembre? ■ Si dice il TAV o la TAV? ■ Perché si dice il jazz ma lo juventino? ■ Perché si dice i deodoranti ma gli dei? ■ Perché si dice il cherubino ma lo champagne?
Si chiamano determinativi perché indicano qualcosa di determinato: il cane indica “quel cane lì”, non un cane qualsiasi.
Se per il femminile non ci sono dubbi su quale articolo determinativo utilizzare – ci sono solo la per il singolare e le per il plurale – per il maschile nasce invece un problema: quando usare lo (al plurale gli) e quando il (al plurale i)?
Chi è madrelingua va a orecchio senza troppi problemi, di solito, anche se ci sono casi che si sbagliano frequentemente (per es. gli gnocchi e non i gnocchi) e per chi ha dubbi esistono delle regole semplici per non confondersi.
Lo (e gli), si usano davanti a:
● le parole che cominciano con vocale; ● le parole che cominciano con x e z; ● le parole che cominciano con s impura (cioè seguita da un’altra consonante e non da una vocale, per esempio studio); ● i gruppi di consonanti gn, pn e ps.
Dunque, si dice lo xilofono, lo zappatore, gli specchi. Ma soprattutto lopsicologo (al plurale gli psicologi), lognomo (gli gnomi), lo gnocco (gli gnocchi); lo pneuma, lo pneumatico o lopneumotorace.
Il detto: “Ridi, ridi, che mamma ha fatto i gnocchi” è una forma popolare da evitare, è coretto gli gnocchi, e anche nel caso deglipneumatici è la forma più corretta, anche se “i pneumatici” è così diffusa che ormai passa per accettabile.
Il (al plurale i) si usa in tutti gli altri casi, dunque con le parole che cominciano in consonante (a parte quelle già viste): il bambino, il contadino, il dentista, il sogno (qui la s è seguita da vocale), il vigile.
ECCEZIONI! L’unica eccezione è rappresentata dal plurale di il dio che diventa gli dei (anziché i dei come si dice invece negli altri casi: i deodoranti, i deambulanti…). E poi c’è l’eccezione delle parole inglesi che cominciano con “w”: anche se si legge “u” (week-end, welfare) si associano all’articolo il e gli (e non a lo come le parole in “u”: gli uomini) e si dice il e i week-end, il e i whisky, come se si pronunciassero con la “v”. La stessa anomalia fonetica si ritrova nelle parole che cominciano con “sw”, dove la “w” è percepita come consonante e non come vocale, dunque si dice lo swing ma il suino, lo swap ma il suocero.
L’articolo con le parole straniere
Nel caso delle parole straniere la cui pronuncia diverge dal modo con cui scriviamo, di solito conta la pronuncia e non l’ortografia, perciò si dice lochampagne (come lo sciatore e non come il chierichetto), l’hotel e gli herpes (l’h è muta e quindi è come se queste parole cominciassero per vocale), iljazz, iljackpot, i jeans, il j’accuse (perché si pronunciano come parole che iniziano per g), mentre si dice lo junghiano, lo jodel, lo jugoslavo, lo juventino (perché si pronunciano come parole che iniziano per i). Per saperne di più vedi → “La pronuncia delle lettere” nella parte dedicata alle lettere straniere.
L’uso dell’articolo davanti alle sigle
Anche davanti alle sigle l’articolo pone qualche problema. In linea di massima si concorda con numero e genere della denominazione completa, per esempio si dice gli USA al plurale (sottintendendo gli Stati Uniti d’America) o la CEE (al femminile perché si sottintende la Comunità Economica Europea). Ma non è sempre così, a volte non è chiaro il genere delle sigle, e nel caso del o della TAV, per esempio, inizialmente si è diffuso il femminile perché era sentita come sinonimo della tratta dell’alta velocità. Ultimamente sta guadagnando terreno il TAV, razionalmente più corretto, visto che è la sigla di Treno ad Alta Velocità.
Tuttavia non sempre questi approcci razionali sono applicabili come una regola, e nel caso di Aids, per esempio, che significa Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita, si è affermato immotivatamente il maschile (l’Aids sta per lo Aids, che infatti è contagioso), forse perché sentito come sinonimo di virus. Per saperne di più vedi → “Sigle e acronomi” (e per l’uso dell’apostrofo degli articoli davanti alle sigle vedi il prossimo paragrafo).
L’apostrofo degli articoli: non si usa nel caso di gli e le
Quando una parola inizia per vocale: ● lo e la si apostrofano sempre: l’animale, l’ermellino, l’istrice, l’opossum e l’uccellino (come la del resto: l’amaca, l’edera); ● invece, al plurale gli e lenon si apostrofano: le elezioni, gli animali e mai “l’elezioni” o “gl’animali”.
Solo davanti alla i è possibile apostrofare gli, per esempio gl’imbuti, gl’italiani, ma è meglio evitarlo: nell’italiano moderno non è in uso e suona fuori luogo. Per saperne di più vedi → “Apostrofo: elisione e troncamento“.
Infine: ci sono casi in cui è possibile apostrofare l’articolo anche davanti ai numeri (per esempio l’8 settembre) o alle sigle che vengono pronunciate con una vocale anche se si scrivono con una conosonante perché prevale la pronuncia sull’ortografia, per esempio si trova spesso l’FBI (l’apostrofo, completamente scorretto dal punto di vista grammaticale, si giustifica con la concordanza con la pronuncia all’inglese “effebiài”, come una parola che inizia con la e).
■ Cosa sono gli articoli determinativi? ■ Cosa sono gli articoli indeterminativi? ■ Cosa sono gli articoli partitivi? ■ Qual è l’origine dell’articolo? ■ Cos’è il “potere sostantivante” dell’articolo? ■ Qual è la posizione dell’articolo nella frase?
“Articolo” significa letteralmente “piccola articolazione”, dal latino articulus, diminutivo di artus (anche se in latino non esisteva e le parole si declinavano con un cambio di desinenza finale, rosa, rosae).
Indica quelle brevi parole che precedono il sostantivo, ed è una parte del discorso molto importante perché è proprio la concordanza dell’articolo con il sostantivo a chiarire il genere del secondo (cioè se è maschile o femminile): il vaglia (maschile) e la moto (femminile), mentre parole come cantante chiariscono se sono maschili o femminili proprio attraverso l’articolo: il cantante o la cantante. Allo stesso modo l’articolo si concorda con il sostantivo che precede anche nel numero (i vaglia, le moto).
Nonostante la sua brevità e pur non avendo un senso da solo, questo monosillabo ha anche un altro grande potere (il potere sostantivante): posto davanti a una qualunque parola, un semplice articolo la trasforma in un sostantivo anche se (grammaticalmente) non lo è: il perché (una congiunzione o avverbio si trasforma in sostantivo), il bello, il brutto (sostantivazione degli aggettivi) o il sapere (cioè l’atto di sapere, il verbo diventa un nome).
Inoltre, in varie espressioni conferisce un valore universale. Per esempio: la domenica (= tutte le domeniche) vado allo stadio, oppure: il cane (= tutti i cani) è un quadrupede.
Per entrare più nei dettagli e scoprire meglio l’uso dell’articolo e tutti i dubbi grammaticali e ortografici più diffusi (meglio dire “i pneumatici” o “gli pneumatici”? Quando si può omettere? Quando “un” si deve apostrofare e quando no…) è consigliabile seguire i collegamenti ipertestuali che conducono alle relative sezioni più approfondite.
Riassumendo, gli articoli possono essere → determinativi o → indeterminativi. Gli articoli determinativi si sono probabilmente sviluppati dal latino ille, illo (quello) e illa (quella) e per il maschile sono di due tipi (il e lo, al singolare), mentre per il femminile c’è solo una forma (la); al plurale diventano rispettivamente: i, gli e le. Si chiamano determinativi perché indicano qualcosa di determinato: il cane indica “quel cane lì”, non un cane qualsiasi. In quest’ultimo caso gli articoli sono invece indeterminativi e, a loro volta, presentano la doppia variante per il maschile, un e uno, e una per il femminile. Questi ultimi, quando si volgono al plurale diventano → articoli partitivi(dei, degli e delle) perché indicano una parte del tutto; e → spesso si possono omettere o sostituire con → l’aggettivo indefinitoalcuni (ho mangiato dei biscotti o ho mangiato biscotti o ho mangiato alcuni biscotti).
■ Le parole in latino si volgono al plurale? ■ Meglio dire i curriculum o i curricula? ■ I medium e i media sono la stessa cosa? ■ Meglio dire i corpus o i corpora? ■ Cosa sono gli anglolatinismi? ■ È giusto dire l’opera omnia al singolare anche se significa “tutte le opere”? ■ Perché si dice gli addenda o i desiderata al plurale?
I forestierismi (le parole straniere) non si volgono al plurale (vedi → “Il plurale dei nomi stranieri“), ma anche quelle latine, si possono trattare come forestierismi?
Anche se c’è chi sostiene ancora che nel latino sia buona norma declinare le parole al plurale (e quindi non considerarlo come i forestierismi perché sarebbe la nostra lingua madre), la maggior parte delle fonti e dei dizionari moderni seguono le regole degli esotismi.
La questione è aperta e dibattuta soprattutto nel caso di curriculum (decurtazione dell’espressione più completa e corretta curriculum vitae) che si trova spesso al plurale, curricula, come fosse uno sfoggio di cultura (i dizionari riportano perlopiù che è invariabile, e lo affiancano all’italianizzazione curricolo e curricoli). Stesso discorso si può fare per i corpora, molto diffuso al posto dei corpus che però si può dire anche al singolare (una raccolta di opere o di testi).
È vero, in latino i plurali sono questi, ma perché non si dovrebbe dire i curriculum o i corpus come si dice i referendum (e non i referenda) gli ictus, i lapsus, i rebus, i bonus, gli excursus, i raptus, i virus e gli album? Lo stesso discorso si può fare per gli anglolatinismi (cioè le parole latine che ci sono arrivate attraverso l’inglese) e che non si declinano: i monitor, gli sponsor, i forum, i focus, i campus, le tariffe premium… Insomma in queste declinazioni al plurale del latino manca una logica coerente con i tantissimi esempi che rimangono invariabili. Tuttavia, c’è chi preferisce fare una distinzione tra i latinsimi moderni o derivati dall’inglese, come negli ultimi esempi, che non si dovrebbero declinare, e quelli classici che invece sarebbero da concordare al plurale: lectio magistralis e lectiones magistrales, una prescrizione non riscontrabile per esempio nello Zingarelli che definisce lectio sostantivo latino invariabile.
La questione cambia per i latinismi entrati direttamente al plurale, e in questo caso non si volgono al singolare, per esempio gli acta (relazioni, compilazioni), gli addenda (cose da aggiungere), i desiderata (desideri, richieste) e anche l’opera omnia, letteralmente “tutte le opere”, plurale, anche se in italiano l’espressione si trasforma in sostantivo femminile singolare e si dice comunemente “l’opera omnia di Virgilio”.
Un caso a parte è quello di media (che ci è arrivato però dall’inglese) al plurale, ma un medium, al singolare, ha un altro significato (è un sensitivo che ha a che fare con il paranormale, e dunque al plurale si parla dei medium), anche se dopo il celebre motto del sociologo Marshall McLuhan (1911-1980) “il medium è il messaggio” si trova ormai anche al singolare con il significato di mezzo di informazione.
Che si scrivano al singolare o al plurale, è buona norma ricordare che le parole in latino (al contrario degli altri forestierismi dove è solo una scelta possibile) si dovrebbero sempre scrivere in corsivo (vedi → “Lo stile di un testo e l’uso del corsivo“), a meno che non siano così diffuse da essere assimilate alla stregua delle parole italiane (virus, album…).
■ Come si fa il plurale dei forestierismi? ■ Tutte le parole straniere non si declinano al plurale? ■ Meglio dire mural o murales? ■ Al plurale si dice hater o haters? ■ Al plurale è meglio dire crêpe o crêpes? ■ Che differenza c’è tra le parole straniere crude come “mouse” e quelle assimilate nel nostro sistema come “sauna”? ■ Le parole francesi si possono declinare al plurale? ■ Le parole spagnole si possono declinare al plurale? ■ Perché i jeans o le fake news si dicono al plurale?
Quando le parole straniere (i forestierismi) entrano nel nostro lessico possono essere adattate e assimilate, e in tal caso si comportano come le parole italiane, per esempio la parola sauna, che è una voce finnica, al plurale si volge in saune in modo normale.
Quando invece entrano nell’uso così come sono, in modo crudo senza adattamenti, la regola è che diventano invariabili nel numero, dunque non si volgono al plurale: i film e i computer (non si può dire films e computers all’inglese). Ciò vale anche per le parole di formazioni più recente, per esempio gli hater (e non haters, anche se la scelta migliore è forse usare le parole italiane: odiatori).
Le uniche eccezioni avvengono quando una parola entra nella nostra lingua già al plurale, per esempio i jeans (e in tal caso rimangono ugualmente invariabili perché non si può fare il singolare) o le fake news (in questo caso si dice una fake news, come in inglse, anche se in italiano abbiamo bufale, notizie false, contraffatte, manipolate…).
Sono ammissibili le variazioni di singolare e plurale solo per eventuali parole che non sono entrate nel nostro lessico, ma rappresentano degli occasionalismi (per esempio nel caso di tecnicismi o termini specialistici non tradotti) che vengono riportati così come sono nell’originale, come una citazione, che può essere fatta sia con il singolare sia con il plurale a seconda dei casi, ma che è bene virgolettare (e anche affiancare dalla traduzione).
Questa regola non vale solo per gli anglicismi, ma anche per ogni altra lingua: i menu (francese), i lager (tedesco), i soviet (russo), gli yogurt (turco), i suq (arabo), i kamikaze (giapponese) i wok (cinese), i golem (ebraico).
Qualche eccezione si può trovare nel caso del francese, dello spagnolo e del portoghese, dove talvolta circola qualche plurale, anche se la regola del singolare invariabile vale comunque e non declinare queste parole è corretto. Però, a volte si può incontrare qualche francesismo al plurale come crêpes (oltre al singolare crêpe), così come per il portoghese è possibile imbattersi anche nei viados o nelle fazendas (o fazende) oltre che nei viado e nelle fazenda, mentre nel caso dello spagnolo i peone, i desaparecido, le telenovela, gli indio e i conquistador possono anche diventare i peones, i desapercidos, telenovelas, gli indios, i conquistadores e nel caso di murales, si usa raramente il singolare, mural, e si dice quasi sempre al plurale. Ma nonostante questi casi la regola di non declinare i forestierismi al plurale vive senza controindicazioni anche nei pochi casi in cui circolano delle eccezioni che sono solo possibili più che obbligatorie.
In linea di massima questa stessa regola vive anche per la parole latine, benché in certi casi vengano trattate in modo differente, come se al latino, che è considerata la nostra “lingua madre” fosse riservato un diverso trattamento (è una questione aperta: per saperne di più vedi → “Il plurale dei nomi latini“).
■ Il plurale dei composti di capo-.
■ Capostazione varia la radice: capistazione. ■ Capolavoro varia la
desinenza: capolavori. ■ Caposaldo varia entrambi gli elementi: capisaldi. ■ Meglio
dire i capoufficio o i capi ufficio?
Poiché nelle parole composte da capo– non esistono delle regole semplici e chiare per stabilire i plurali (vedi → “Il plurale dei nomi composti“), di seguito è possibile consultare una lista delle parole del genere più diffuse con i plurali indicati nei principali dizionari.
Si possono dividere in tre insiemi:
● le parole che al plurale variano solo capi– e mantengono uguale il secondo elemento; ● quelle che mantengono capo– e variano la desinenza finale; ● quelle che presentano più possibilità.
ATTENZIONE: Ci sono anche rari casi in cui il plurale si forma attraverso la variazione di entrambi gli elementi: capocannoniere → capicannonieri; capocronista → capicronisti; caposaldo → capisaldi.
I composti di capo– che al plurale variano in capi– senza cambiare il secondo elemento (es. capoarea→ capiarea) mentre al femminile plurale restano invariati (es. le capoarea):
I principali sostantivi che nella formazione del plurale cambiano la desinenza, ma mantengono invariato capo-:
capodanno (o capo d’anno) → capodanni (o capi d’anno); capodoglio (o capidoglio) → capodogli (o capidogli); capolavoro → capolavori (raro capilavori); capoluogo → capoluoghi (meno com. capiluoghi); capogiro → capogiri; capostipite → capostipiti; capotasto → capotasti; capoverso → capoversi; capovolgimento → capovolgimenti.
Al plurale hanno una doppia possibilità i seguenti sostantivi:
capomastro → capomastri e capimastri; capolinea → capilinea (o invariabile); caporedattore → capiredattori e caporedattori (femminile → la caporedattrice e le caporedattrici); capotecnico → capotecnici e capitecnici; capoufficio (e capo uffìcio o capufficio) → capi uffìcio e capiufficio; capocomico → capocomici o capicomici (femminile → la capocomica e le capocomiche) capocuoco → capocuochi (femminile la capocuoca e le capocuoche).
■ Come si fa il plurale dei nomi composti? ■ Perché il plurale di capostazione è capistazione mentre capolavoro diventa capolavori? ■ Si dice pomodori o “pomidoro”? ■ Si dice palcoscenici o “palcoscenichi”? ■ Si dice casseforti o “cassaforti”? ■ Si dice caporedattori o “capiredattore”?
I sostantivi formati dall’unione di due parole al plurale danno molti grattacapi e causano capogiri!
Senza fare i guastafeste, va detto che le regole che riportano molte grammatiche sono così complicate e, soprattutto, presentano tante di quelle eccezioni, che non si riesce a farne tesoro e a metterle in cassaforte (al plurale casseforti).
Per rispondere a tutti i dubbi di questi casi si possono dare solo delle indicazioni, meglio procedere con prudenza e consultare i dizionari.
L’unione di due parole è il risultato di tante combinazioni possibili:
● nome + nome (es. arcobaleno): nella maggior parte dei casi hanno un plurale regolare e modificano solo la desinenza finale: arcobaleni, francobolli, melograni, banconote, ferrovie. Ma non sempre.
Infatti, oltre a pescecani si può dire anche pescicani, mentre pescespada diventa pescispada, ma anche se quest’ultimo esempio è riportato in varie grammatiche, nei dizionari è registrato più spesso staccato: pesce spada al contrario di pescecane.
Questo caso fa riflettere sulla prima cosa importante: quando una parola è percepita come staccata, o si può scrivere staccata, il plurale il più delle volte si comporta di conseguenza. Per esempio: pomodoro, diventa pomodori (mentre pomidori e anche pomidoro sono delle forme popolari).
In passato si scriveva “pomo d’oro” e i plurali logici erano perciò diversi, ma con il tempo la parola è diventata unica e non più percepita come un composto, ed ecco che il plurale è diventato regolare: prende semplicemente la –i finale come una parola normale. Tutto il contrario di fico d’India che diventa fichi d’India e che ancora si scrive staccato. Naturalmente, questo esempio non rappresenta un criterio oggettivo, e forse proprio per questo in molti casi i dizionari ammettono i doppi plurali, per esempio: cassapanche e cassepanche, toporagni e topiragni;
●nome + aggettivo (es. cassaforte): per lo più formano il plurale cambiando la desinenza sia del primo sia del secondo termine, comportandosi come se fossero separati: cassaforte/casseforti; terracotta/terrecotte; gattamorta/gattemorte; caposaldo/capisaldi; acquaforte/acqueforti.
Ma attenzione: palcoscenico fa palcoscenici, tanto per citare un’eccezione;
●aggettivo + nome (es. gentiluomo): spesso si varia solo la desinenza a fine parola: francobollo/francobolli, biancospino/biancospini, e nel caso di gentiluomo/gentiluomini, seguendo la regola del secondo elemento che varia al plurale anche la sua radice. Anche purosangue non cambia (come sangue, il secondo elemento).
In altri casi, però, mezzobusto diventa mezzibusti, inoltre, i composti con alto– e basso– hanno quasi sempre il doppio plurale possibile: altopiani e altipiani, bassopiani e bassipiani,anche se bassofondo diventa bassifondi e altofornoaltiforni;
●aggettivo + aggettivo (es. sordomuto): per lo più cambiano solo la desinenza finale: sordomuto/sordomuti; pianoforte/pianoforti; agrodolce/agrodolci; bianconero/bianconeri;
●verbo + nome (es. cavatappi): se il
nome è già al plurale rimangono invariati: i cavatappi, i battipanni,
gli accendisigari, i portaborse, i portaombrelli, i guastafeste,
i portapenne e gli schiaccianoci; lo stesso avviene quando il
nome è femminile singolare: i salvagente, i tagliaerba, gli asciugamano,
i portacenere; se il nome è maschile singolare possono spesso variare: i
paracarri, i passaporti, i grattacapi, ma altre volte
rimangono invariati: i rompicapo, i copricapo;
●verbo + verbo (es. saliscendi): anche in questo caso tendono a non cambiare: i saliscendi, i dormiveglia;
●verbo + avverbio o viceversa (es. benestare e buttafuori): tendono a rimanere invariabili;
●preposizione (o avverbio) + nome (es. soprannome): di solito si declina al plurale solo il nome se è maschile: i soprannomi, i sottaceti; al femminile rimane per lo più invariato i dopocena, i fuoristrada e i fuoripista.
I composti della parola capo
I composti della parola capo sono da considerare a parte, ma la questione si ingarbuglia a tal punto che una regola valida non c’è e le proposte che si trovano nelle grammatiche non reggono, con il risultato che le per le pretese regole tutto rischia di diventare una caporetto!
Le “leggende grammaticali” (in questo caso non si può parlare di “regole”) affermano che capo– si trasforma in plurale (capi-) quando ha una posizione preminente, oppure quando è inteso nel senso di “superiore”, mentre altre insistono sul contesto: per esempio se capo– si riferisce a un solo reparto diventerà capireparto, se sono tanti reparti diventa caporeparti (ma questo plurale nei dizionari non è presente).
Il problema è che spesso gli esempi indicati nelle grammatiche non sono coerenti tra loro e differiscono da quanto riportato sui dizionari, e va detto che molte grammatiche glissano sulla questione. E persino i dizionari indicano a volte diverse soluzioni. Per esempio: caporedattore diventa capiredattori per il Devoto-Oli e lo Zingarelli, ma caporedattori per il Gabrielli e il Treccani.
Quando le regole non reggono non rimane che studiare le singole parole (per lo più modificano capo– in capi-).
Un regola più affidabile c’è nel caso dei plurali femminili: quando i composti di capo– si volgono al plurale femminile, al contrario del maschile tendono a rimanere invariati come al singolare, per cui i capiclasse, ma le capoclasse, i capibranco, ma le capobranco (ma anche in questo caso le eccezioni non mancano, per esempio le caporedattrici).
■ Come si fa il plurale dei nomi in –co e –go? ■ Quali sono i nomi in –co
e –go con un doppio plurale? ■ Si
dice psicologi o “psicologhi”? ■ Si dice stomaci o “stomachi”?
Poiché non esistono regole chiare e semplici (dunque utilizzabili) per sapere quando i nomi che terminano in –co e –go al plurale mantengono il suono duro o prendono quello dolce, di seguito è possibile consultare un elenco che raccoglie i più diffusi sostantivi di questo tipo e ne indica il plurale.
asparagi, biologi, cardiologi e la maggior parte dei composti con -logo (es: allergologi, esofagi, ideologi, filologi, fisiologi, psicologi, sociologi, speleologi…) e -fago (antropofagi, coprofagi, esofagi, necrofagi, onicofgi…).
È ammesso il doppio plurale in –gi e –ghi: astrologo, demiurgo, egittologo, meteorologo, sarcofago, sessuologo, taumaturgo, tuttologo.
■ Il plurale dei nomi della quarta declinazione rimane invariato? ■ Come si fa il plurale dei monosillabi? ■ Come si fa il plurale delle parole accentate? ■ Come si fa il plurale delle parole che terminano in –i e –u? ■ Come si fa il plurale delle parole che terminano in consonante?
Se i nomi si possono dividere in declinazioni a seconda della loro desinenza (→ –a, la prima;→ –o, la seconda; → –e, la terza), quelli che terminano in altro modo sono talvolta raggruppati nel mucchio selvaggio della quarta declinazione.
Questi nomi sono di solito invariabili, come quelli che terminano in –i (le crisi o le tesi) o i pochissimi in –u come le gru, i babau o i guru. Altrettanto invariabili sono tutte le parole che terminano in vocale accentata (le maestà, i caffè, i colibrì, le virtù, le tribù) e i monosillabi (i re, gli gnu). E lo stesso vale per tutti i nomi che terminano con una consonante (bar, film, gas, sport) che sono per lo più stranieri e dunque non si volgono mai al plurale.
■ Perché superficie o moglie al plurale diventano superfici e mogli, ma rimangono invariate le specie, le carie e le serie? ■ Qual è il plurale di bue? ■ Come si fa il plurale delle parole che terminano in –e? ■ Com’è il plurale delle parole che terminano in –ie?
I nomi che terminano in –e al plurale si volgono quasi sempre in –i , sia che siano maschili – per esempio: cane (→ cani), paese (→ paesi), pesce (→ pesci) – sia che siano femminili: pelle (→ pelli), fine (→ fini), rete (→ reti).
Naturalmente ciò non vale per → i re perché tutti i monosillabi sono sempre invariabili.
I nomi che terminano in –ie, però, al plurale rimangono invariati: la specie e le specie (e mai “le speci”), le carie, le serie e le barbarie. Ma le eccezioni che confermano la regola non mancano, per esempio: moglie, effigie e superficie diventano → mogli, effigi e superfici.
Tra le eccezioni che rientrano nelle parole irregolari che al plurale cambiano la loro radice c’è poi da segnalare bue che diventa buoi (vedi anche “Plurali anomali“).
■ Perché il plurale di la mano è le mani ma le radio e moto restano invariate? ■ Plurale di braccio: che differenza c’è tra braccia e bracci? ■ Eco è femminile anche al plurale? ■ Perché il plurale di brusio e zio è con la doppia i, brusii e zii, ma quello di principio e dominio ha una sola i, principi e domini? ■ Perché il plurale di medico è medici e quello di baco è bachi? ■ Perché il plurale di chirurgo è chirurghi e quello di psicologo è psicologi? ■ Quali parole cambiano la radice nel plurale come uomo/uomini? ■ Quali parole cambiano il genere nel plurale come uovo, maschile, che diventa uova, femminile? ■ C’è una regola per sapere quando i nomi in -co e -go diventano dolci come medici e asparagi, o rimangono duri come bachi e monologhi?
Le parole che terminano in –o per la maggior parte sono maschili, e al plurale si volgono in –i: per esempio corvo (corvi), posto (posti).
Ma esistono anche nomi femminili che terminano in –o e la mano diventa le mani, mentre l’eco (che è femminile: la eco) al plurale fa gli echi (ma cambia genere e si trasforma in maschile). Tuttavia, questi sostantivi femminili di solito restano invariati anche al plurale, per esempio le radio, le auto, le moto o le dinamo.
Tra le irregolarità che si riscontrano in questa seconda declinazione si possono segnalare quei sostantivi che oltre al plurale regolare ne possiedono un altro, come braccio (→ bracci e braccia) oppure osso (→ ossi e ossa) anche se spesso i significati differiscono: i bracci meccanici e le braccia dell’uomo, gli ossi degli animali o gli ossi dei diti mignoli, oppure le ossa nel loro insieme, e le dita (nel loro insieme) della mano (per saperne di più vedi → “Nomi con doppio plurale e doppio significato”).
In altri casi, si trovano nomi maschili che al plurale diventano obbligatoriamente femminili per esempio: il riso (nel senso del ridere) diventa le risa, il paio e l’uovo diventano le paia e le uova, e centinaio, migliaio e miglio si trasformano in centinaia, migliaia e miglia. Tra i femminili che diventano maschili, invece, c’è l’eco che diventa gli echi.
Tra le eccezioni, bisogna poi ricordare i nomi che al plurale cambiano anche la propria radice, oltre alla desinenza, come: uomo (→ uomini), dio (→ dei) o tempio (→ templi, aggiungendo una l).
Il plurale dei nomi in –io
Perché bacio diventa baci (con una sola i) mentre zio diventa zii? Per saperlo c’è una regola semplice: tutto dipende dall’accento del singolare: nei nomi in –io, quando sulla i è cade l’accento tonico, come nel caso di zìo, pendìo e brusìo, al plurale mantengono la doppia i (→ zii, pendii e brusii), se invece la i è atona (l’accento cade su un’altra sillaba della parola) come bàcio, princìpio e domìnio, si trasformano al plurale con una i sola (→ baci, principi e domini).
Ma le irregolarità di questi nomi in –o, non sono finite! Bisogna ancora affrontare uno dei peggiori incubi grammaticali da cui quasi nessuno è esente: perché il plurale di medico è medici e quello di gioco è giochi? E perché chirurgo diventa chirurghi, ma teologo diventa teologi?
I plurali dei nomi in –co e –go
Purtroppo, per i nomi che terminano in -co e -go le cose sono così complicate che una regola fissa non c’è o, se c’è, include tante di quelle eccezioni che perde di senso.
Per esempio c’è chi ha osservato che questi nomi al plurale mantengono il suono duro quando sono accentati sulla penultima (cioè sono piani, per esempio antìco fa antichi, ma allora perché amìco diventa amici e grècogreci?), mentre se sono accentati sulla terz’ultima (cioè sono sdruccioli) al plurale assumono un suono dolce (per cui polìtico diventa politici, ma allora come la mettiamo con òbbligo che fa obblighi e àbaco che fa abachi?).
Davanti a tante irregolarità è meglio abbandonare l’ipotesi di trovare una regola semplice e applicabile e spostare l’attenzione sui singoli casi, andando a orecchio o controllando sui dizionari in caso di dubbi.
Albergo diventa alberghi e mago maghi (i Magi sono invece quelli del presepio), mentre medico, sindaco e teologo si trasformano in medici, sindaci e teologi. In generale i composti di -fago e -logo si volgono quasi sempre in –fagi e –logi (ma non vale per gli apologhi e i decaloghi).
Le cose sono così complicate che persino i dizionari registrano spesso la doppia forma del plurale: chirurghi e “chirurgi” (meno elegante e diffuso, da evitare), traffici e “traffichi” (arcaico), sarcofaghi e “sarcofagi”, stomaci e “stomachi”, e anche accanto alle forme psicologi, sociologi e antropologi, sono riportate e ammesse (anche se poco eleganti) quelle popolari “psicologhi”, “sociologhi” e “antropologhi”.
■ Come si fa il plurale dei nomi in –cia e –gia. ■ Si dice ciliegie o “ciliege”? ■ Si dice arance o “arancie”? ■ Si dice valigie o “valige”? ■ Si dice province o “provincie”? ■ Si dice gocce o “gocce”? ■ Si dice lance o “lancie”? ■ Che differenza c’è tra camice e camicie? ■ Perché il plurale di tema e poeta è temi e poeti, ma cinema e gorilla rimangono invariabili?
I nomi che terminano in –a per la maggior parte sono femminili, e in questo caso al plurale prendono la –e, per esempio: pera (→ pere), guida (→ guide).
Le parole come strega, però, visto che hanno la g dura, al plurale aggiungono la h per mantenere il suono duro (→ streghe).
Ma bisogna fare attenzione, perché non tutti i nomi che terminano in –a sono femminili (vedi → “Il sesso dei nomi: il genere“), e quando sono maschili si volgono al plurale con la –i: poeta (→ poeti), tema (→ temi), esteta (→ esteti).
Un caso anomalo è quello di belga, che al plurale femminile manitene il suono duro (le belghe), mentre al maschile diventa i belgi (vedi anche → “Plurali anomali“).
A questi due gruppi bisogna poi aggiungere anche i sostantivi maschili che sono invariabili, sono delle eccezioni, e al plurale non cambiano affatto, per esempio: boia, cinema, gorilla, sosia…
Tra i sostantivi che terminano in –a si annida però uno dei grandi dilemmi della nostra lingua, che lascia ogni volta dei dubbi anche a chi ha dimestichezza con la scrittura: per i plurali dei nomi in –cia e –gia, quando ci vuole la ie quando no?
Perché il plurale di cilie-gia è cili-egie e quello di aran-cia è aran-ce?
Per risolvere questo interrogativo esiste qualche regola semplice e piuttosto affidabile:
● quando sulla i cade l’accento (in altre parole è tonica) le cose sono facili, perché nel plurale è sempre mantenuta: farmacìa fa farmacìe, bugìa fa bugìe e si può andare a orecchio; ● quando la i è invece senza accento (atona) bisogna vedere se le desinenze –cia e –gia sono precedute da vocale o da consonante; se prima c’è la vocale il plurale mantiene la i: –cie e –gie (dunque: ciliegie e non “ciliege”, valigie e non “valige”, e camicie non “camice”, il camice è quello del medico); ● se invece le terminazioni in –cia e –gia sono precedute da consonante, il plurale è –ce e –ge. Quindi: arancia diventa arance e non “arancie”, e allo stesso modo si dice lance e non “lancie”, gocce e non “goccie” e così via.
Tuttavia, poiché questi errori sono così diffusi che sono entrati nell’uso, anche se le forme più corrette ed eleganti rimangono queste, nel caso di “valige” e “ciliege” ormai i dizionari (e persino i correttori ortografici) li accettano come tollerabili, così come nel caso di “provincie” al posto del più corretto province.
Ma quando si scrive e si vuole mantenere un registro colto ed elevato è di gran lunga preferibile e consigliabile usare le forme classiche!
■ Quali sono le regole per il plurale dei nomi? ■ Perché i nomi si possono suddividere in 4 declinazioni? ■ Quali sono le declinazioni dei nomi? ■ Quali sono i plurali irregolari dei nomi?
I nomi possono variare nel genere, cioè passare dal maschile al femminile, e anche nel numero, cioè dal singolare al plurale.
Nella maggior parte dei casi è molto semplice costruire il
plurale (casa diventa case), ma altre volte può essere molto
complicato e non esiste una regola universale che prescriva esattamente come
costruire i plurali.
Alcune grammatiche, ma non tutte, per rendere conto delle diverse formazioni del plurale raggruppano i nomi in declinazioni a seconda della desinenza (un po’ come per le coniugazioni dei verbi), che possono essere comode per dividerli in insiemi con caratteristiche simili.
Ci sono i nomi che al singolare terminano:
● in –a (prima declinazione) che se sono maschili tendenzialmente prendono la i (gli automi) e se sono femminili si volgono con la e finale (le case), ma presentano eccezioni come i boia ( vedi → “Il plurale dei nomi in -a: aranc-e e cilieg-ie“); ● in –o (seconda declinazione) e che prendono la i al maschile (gli armadi) e al femminile (le mani), ma non sempre (le moto e le radio, vedi → “Il plurale dei nomi in -o e le irregolarità“); ● in –e (terza declinazione) spesso prendono la i, ma ci sono le eccezioni che rimangono invariate (le carie, vedi → “Il plurale dei nomi in -e“); ● la quarta declinazione raccoglie tutto il resto: i nomi che terminano in –i, –u, in consonante, le parole accentate e i monosillabi, che rimangono sempre invariabili (vedi → “Il plurale dei nomi della quarta declinazione“);
Ci sono però molte altri variabili da tenere presenti, a cominciare dai plurali dei nomi che terminano in –cia e –gia che a volte mantengono la i (camicie, ciliegie) e a volte no (province, arance → vai alla regola), in –co e –go, che a volte mantengono il suono dolce (medici, asparagi) e altre volte no (chirurghi, sarcofagi → scopri di più); e poi c’è la questione dei plurali dei nomi composti che a volte variano solo la finale (pomodori), a volte solo il primo elemento (capiclasse) e a volte entrambi (capisaldi → scopri di più), visto che il caso dei composti dicapo- è ancora più complicato ( → scopri di più).
Infine ci sono i nomi stranieri che rimangono tendenzialmente invariati, con qualche oscillazione (per esempio murales → scopri di più) e i sostantivi latini che oscillano (i media ma i referendum → scopri perché).
■ Come si formano i femminili delle professioni? Quando si formano i femminili con la desinenza in –a, in –essa o in –trice? ■ Cos’è il sessismo della lingua? ■ Meglio dire chirurgo o chirurga? ■ Meglio dire avvocato, avvocata o avvocatessa? ■ Meglio dire sindaca o sindachessa? ■ Meglio dire poliziotta o donna poliziotto? ■ Meglio dire la vigile o la vigilessa? ■ Meglio dire la sindaca o la sindachessa? ■ Meglio dire la presidente o la presidentessa?
In italiano, ma anche in altre lingue, il maschile è dominante sia nell’assegnazione del genere per i concetti neutri (il parlare, scalare una montagna è bello, il perché delle cose…) sia nel caso in cui un nome maschile e uno femminile si concordano con uno stesso aggettivo: prevale il maschile e nell’inferno dantesco Paolo e Francesca sono dannati.
Analogamente, quando diciamo che l’uomo (= l’essere umano) è bipede includiamo anche le donne. Si tratta del maschile generico (o non marcato).
Dal punto di vista grammaticale, perciò, non esiste una coincidenza tra il genere della parole e il sesso delle persone o animali che designano: la giraffa e la tigre, come la sentinella o la guida, sono nomi promiscui e non denotano il sesso degli esemplari, sono parole generiche, così come il mare, al maschile, non ha a che fare con il suo sesso: nella perdita del neutro che esisteva in latino le parole si sono trasformate in maschili o femminile senza ragioni logiche (vedi → “Il sesso dei nomi: il genere“).
Fatte queste premesse grammaticali, da qualche decennio è in atto un dibattito – che però è di tipo politico-sociale – sul “sessismo della lingua” che riguarda prevalentemente le professioni e le cariche sociali, un tempo egemonia maschile, ma sempre più aperte alle donne.
E allora si deve dire la ministra e l’architetta
o prevalgono le forme al maschile anche per gli incarichi femminili?
La questione è attualmente aperta e al centro di controversie di non facile soluzione.
In Italia, uno dei primi libri a porre la questione è stato quello di Alma Sabatini (Il sessismo nella lingua italiana, 1987) pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che, in nome della parità dei sessi, attaccava un uso della lingua che avrebbe creato discriminazioni nel non distinguere i generi. Precedentemente, le rivendicazioni del femminismo e del ruolo della donna puntavano con orgoglio al fatto che anche le donne si potessero fregiare di un carica maschile, come quella di medico o di chirurgo, un tempo ricoperte da soli uomini. In proposito si può ricordare un vecchio indovinello che girava appunto negli ambienti femministi degli anni Settanta.
Indovinello In seguito a un grave incidente stradale un ragazzo è fin di vita e viene trasportato d’urgenza in pronto soccorso, mentre il padre che era alla guida muore. Nella sala operatoria arriva il chirurgo, e non appena vede il ragazzo, sbianca e chiede di essere sostituito da un collega: non si sente in grado di operarlo, perché quello è suo figlio! Ma com’è possibile, visto che il padre era deceduto poco prima nello stesso incidente?
Semplice: il chirurgo in questione era una donna, quindi la madre. Solitamente il quesito veniva rivolto dalle donne agli uomini, che se non individuavano la soluzione erano tacciati di vedute ristrette e sessiste. Oggi, invece, questa storiella che giocava sul maschilismo imperante rischia di diventare un’autorete, dal punto di vista del sessismo, perché sempre di più emerge la tendenza a indicare una donna come chirurga. Va detto che non tutte le donne sono favorevoli a questo tipo di femminilizzazione delle cariche, e per esempio tra gli avvocati la maggioranza delle donne attualmente preferisce presentarsi come avvocato, e anche se da marzo del 2017 per le donne è possibile richiedere all’Ordine degli Architetti il duplicato del timbro professionale con la dicitura ufficiale di “architetta” l’iniziativa non ha avuto molto successo.
È nota anche la posizione dell’ex ministro delle pari opportunità Stefania Prestigiacomo che aveva esplicitamente espresso la sua antipatia per il termine ministra.
Comunque sia, nel 2007 è stata diramata una direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche) che invitava a usare un linguaggio non discriminante nei documenti di lavoro per favorire in questo modo una politica per le pari opportunità. Ci sono amministrazioni che hanno recepito la direttiva sin da subito, e altre che le hanno ignorate o contestate. L’Accademia della Crusca, qualche anno dopo, ha affiancato il Comune di Firenze nello stilare le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, perché il punto era quello di stabilire caso per caso come si potesse rendere il giusto femminile, che di volta in volta si può fare con la desinenza in –a, in –essa, in –trice… In questo modo, venendo a quanto è successo negli ultimi anni, l’uso di termini come ministra, sindaca, poliziotta anziché donna poliziotto e simili sono entrati non solo nei dizionari, ma anche nel linguaggio dei giornali e dei media, pur sollevando perplessità spesso anche da parte delle donne.
Passando alle questioni pratiche, da un punto di vista grammaticale
le possibilità, in casi come questi, sono tre: si può dire il chirurgo, la
chirurgo (ma questa soluzione non è in uso e stride, dunque è solo teorica,
dal punto di vista grammaticale, ma è perfettamente lecita nel caso di parole
in cui il maschile e il femminile sono uguali: la dentista, la pediatra,
la analista…) o la chirurga,
esattamente come si può dire la presidente della Camera, la
presidentessa o anche il presidente della Camera Nilde Iotti. Qual è
la scelta migliore?
Le risposte sono politiche e sociali, più che grammaticali, e ognuno rivendica le sue ragioni e sceglie il suo “stile”. Di fatto i dizionari da un po’ di anni hanno cominciato a inserire voci come ministra (nello Zingarelli del 1923 era definita voce scherzosa per indicare la moglie del ministro, a parte le accezioni storiche legate per esempio le sacerdotesse antiche ministre di qualche culto). E questa parola si sta sempre più affermando anche sui giornali, benché non in tutti e non sempre.
I femminili delle cariche attualmente più in voga
Fatte le dovute premesse, in questo momento di transizione e di dibattiti, non esiste una regola generale da seguire, e l’unica possibilità è quella di analizzare caso per caso qual è il giusto femminile e qual è l’alternativa più in uso con l’ausilio di un dizionario e anche a seconda dei contesti e delle proprie convinzioni. Il Devoto Oli riporta la voce ministra ma aggiunge che è più comunemente usato il maschile il ministro anche con riferimento a donna. Mentre nel caso di donna poliziotto recita che non è “da non incoraggiare” e il femminile riportato come più corretto è quello di poliziotta. Analogamente, anche molte forme in –essa sono ultimamente recepite come evocative di qualcosa di ironico o di spregiativo, come nota lo Zingarelli, per cui sarebbero da evitare forme come la presidentessa (meglio la presidente), la sindachessa (meglio la sindaca) o la avvocatessa, mentre nel caso di professoressa e studentessa, poetessa, dottoressa e principessa non c’è alcun problema. In altri casi prevalgono le femminilizzazioni in –a, per esempio: la deputata, la ginecologa, o le altre forme tradizionali di femminilizzazione: la senatrice, la direttrice, la amministratrice; altre volte rimangono come scelta opzionale la notaia o il notaio Maria*** (così come per avvocato, architetto…). In altri casi ancora, per esempio medica, soldata o ingegnera i femminili sono piuttosto rari, benché possibili.
Gli articoli davanti alle donne e ai nomi di sesso incerto
Un’altra questione riguarda l’utilizzo dell’articolo femminile davanti ai cognomi di donna, e già l’ex ministra del governo Monti, Elsa Fornero, aveva sollevato questo problema chiedendo di non essere appellata “la Fornero”, proprio in nome delle pari opportunità, visto che nessuno si sarebbe sognato di dire “il Monti”. In questi casi se si vuole evitare questo uso si può sempre aggiungere il nome (Loredana Bertè è una cantante, invece di “la Bertè”, oppue aggiungere altre apposizioni e qualifiche, per esempio “la cantante Bertè” (sulla questione vedi → “L’uso dell’articolo e la sua omissione” in cui si trova anche la questione dei nomi dal sesso incerto come soprano: “il soprano Maria Callas” o “la soprano”?).
■ Come si fa a sapere se i nomi stranieri sono maschili o femminili? ■ Si dice il samba o la samba? ■ Skyline è maschile o femminile? ■ Perché si dice il rock (maschile) ma la techno (femminile)? ■ Perché diciamo la pallacanestro ma il basket/basketball?
Le parole straniere entrate a far parte della nostra lingua (i forestierismi) di solito non presentano molti problemi nell’attribuzione del genere, quando arrivano da lingue affini come il francese o lo spagnolo, e le cose tendono a coincidere con la lingua di origine, a parte poche eccezioni come per esempio il samba, in portoghese maschile, ma in italiano ammissibile anche al femminile, la samba, perché il fatto che finisca in –a inganna (anche se non è una regola grammaticale è una “regola istintiva”) e fa presumere che sia femminile: da qui l’uso inizialmente considerato errato, si è poi affermato come così diffuso che è ormai accettato.
La questione è più complicata per le lingue che hanno il neutro, come il tedesco. Di solito prevale l’analogia con l’italiano: lasachertorte, perché è una torta, ledelicatessen per analogia con delicatezze, il dobermann perché è un cane, ma poi ci sono eccezioni come il würstel, affermato al maschile anche se l’analogia sarebbe con salsiccia (ma forse è vissuto come simile a un salsicciotto o a un hot dog affermato al maschile).
Il problema principale riguarda le parole inglesi, semplicemente per il fatto che sono numericamente preponderanti su tutte le altre lingue: i circa 3.500 anglicismi riportati dai dizionari sono più di tutti i forestierismi delle altre lingue messe assieme.
Bisogna tenere presente che l’italiano tende ad assegnare il maschile per le categorie neutre (andare a scuola è bello, il mangiare, il come e il quando), e da un punto di vista statistico la maggior parte degli anglicismi è maschile. Ancora una volta, però, non ci sono regole precise, e si trova lo skyline ma anche la skyline, a volte percepito come simile all’orizzonte o al profilo (lo skyline cittadino) a volte assimilato letteralmente alla linea del cielo (ultimamente i dizionari riportano il maschile come la forma più affermata).
Le cose sono complicate soprattutto per gli anglicismi incipienti, cioè quelli nuovi che poi sviluppano il loro genere preciso solo nel tempo.
Email o emoticon, per esempio, oggi si sono stabilizzate al femminile, ma inizialmente si registrava una forte incertezza. E anche la parola film, oggi maschile, ha cambiato sesso, perché sino agli anni Trenta del secolo scorso si trovava al femminile, la film, per analogia con pellicola di cui era il sinonimo.
La tendenza ad assegnare un genere come quello del corrispondente italiano, insomma, non è sempre possibile a volte ci sono più opzioni (diciamo il party anche se dovremmo basarci sull’equivalente festa, o forse sottintendiamo ricevimento?) e a volte ci sono eccezioni imprevedibili: curiosamente diciamo la pallacanestro, con riferimento a palla, ma il basket (in inglese però si dice basketball, il basket è solo un cesto), mentre la pallavolo diventa il volley (anche se in inglese sarebbe volleyball). E ancora, diciamo Aids al maschile anche se la traduzione della sigla sarebbe Sindrome da ImmunoDeficenza Acquisita, forse perché sottintendiamo il virus (per sapere di più sul genere delle sigle → “Sigle e acronimi“).
In generale diciamo lastation wagon e laspider, perché come per la Uno, la Tipo e la Cinquecento sottintendiamo (l’iperonimo) automobile. E allora i generi musicali sono per lo più al maschile, il jazz, il rock, il rap e il blues, ma se si sottintende la parola musica ecco che si parla della disco (music) o della techno e della trap. E così si ha la blacklist (da la lista) e si dice la workstation e la playstation per analogia con il “falso amico” stazione, che ha un suono simile, anche se un significato differente.
In
sintesi, per gli anglicismi non ancora stabilizzati può essere difficoltoso
concordarli con l’aggettivo nel giusto genere, quando oscillano, mentre per
quelli stabilizzati e datati il dizionario è il punto di riferimento, in caso
di dubbi.
■ Come si fa a sapere se i nomi geografici sono maschili o femminili? ■ Le città sono sempre femminili? ■ Quali sono i nomi dei fiumi maschili e femminili? ■ Quali sono i nomi dei monti e delle montagne maschili e femminili? ■ Si dice il Costarica o la Costa Rica? ■ Si dice il Piave o la Piave? ■ I laghi sono sempre maschili? ■ I Paesi sono maschili o femminili? ■ Il Costarica è maschile o femminile? ■ Come si può aggirare il problema delle concordanze dei nomi geografici se non si è sicuri del loro genere maschile o femminile?
Perché diciamo la Senna ma il Tevere?
E come si fa a sapere quando un nome geografico è maschile o femminile?
La questione è molto complicata, perché se per risolvere questi dubbi nel caso dei nomi comuni si può consultare un dizionario, i nomi propri non sono invece registrati. In proposito non ci sono delle regole precise, ma esistono molte indicazioni utili per districarsi tra questi dubbi.
Le città sono di solito femminili perché si sottintende “città”: Firenze è bella, Torino è caotica, Roma è antica. Il Cairo è invece maschile perché l’articolo fa parte integrante del nome della città, come L’Aquila, che però è femminile (Milano, in passato maschile nel dialetto meneghino – Milan l’è un gran Milan – si è adeguata).
Anche i mari sono maschili perché si sottintende: il (mare) Mediterraneo, Tirreno, Adriatico… L’Etna, il Vesuvio e lo Stromboli sono maschili perché si sottintende il vulcano, così come l’Elba sottintende l’isola e diventa femminile (come la Corsica, la Sardegna, la Sicilia), però si dice il Giglio (come abbreviazione dell’Isola del Giglio) perché prevale il nome maschile che porta.
Più difficile è la questione che riguarda i Paesi, per lo più femminili, ma non sempre, per esempio: il Guatemala, il Venezuela, il Canada, il Sudafrica, il Congo, il Kenia. Spinosissima è la questione della Costa Rica, che se scritta staccata come nella denominazione ufficiale è femminile (letteralmente significa “costa ricca”), ma nell’uso molto più spesso si trova scritta in una parola sola, e in questo caso prevale il maschile: il Costarica.
Lo stesso problema si riscontra per i nomi di monti e fiumi, in particolare per quelli che sono poco conosciuti, dove non è facile districarsi. Comunque la Dora Baltea, la Dora Riparia e la Secchia sono femminili come la Loira e la Senna, mentre il Po, il Lambro, il Ticino, l’Arno e il Tevere sono maschili come il Danubio. In molti casi prevale forse l’adeguarsi istintivo alla terminazione in -a (percepito come femmnile anche se non è una regola, vedi → “Il sesso dei nomi: il genere“) e in -o (percepitocome maschile).
Quanto al Piave, un tempo era femminile (e lo è tutt’ora nei dialetti veneti: la Piau), ma dopo la celebre canzone in cui “mormorava calmo e placido al passaggio…” si è cristallizzato definitivamente come maschile.
Allo stesso modo, il monte Bianco o Rosa, maschili (sono monti), come gli Appennini o i Pirenei; ma le Alpi e le (montagne) della Marmolada e della Maiella, come le Dolomiti, sono femminili.
Per i laghi è tutto più semplice, perché a parte il Garda, di solito non si può omettere la parola lago e dire per esempio “il Bracciano”.
In caso di dubbi, perciò, il consiglio è quello di scrivere sempre per esteso ciò che è sottinteso (l’iperonimo): aggiungere il fiume Ovesca o Sarca risolve ogni problema sull’articolo da utilizzare e sul suo sesso, oprattutto nel caso dei nomi che non sono universalmente conosciuti.
■ Perché i nomi sono maschili o femminili? ■ Come si distingue il maschile e femminile dei nomi? Si può dire che i nomi maschili terminano in O e quelli femminili in A? ■ Quali sono i nomi maschili che finiscono con la A? ■ Quali sono i nomi femminili che finiscono con la O? ■ Che differenza c’è tra “il tavolo” e “la tavola”?
Sembra naturale e logico che un nome come mamma sia femminile e papà sia maschile, ma in realtà dal punto di vista grammaticale non esiste alcuna corrispondenza necessaria tra il genere di una parola e il sesso di ciò che designa. Quando diciamo che il canguroha il marsupio in realtà ci riferiamo alla femmina del canguro, perché il maschio non lo possiede affatto. E così non c’è una ragione logica per cui alcuni animali siano al femminile (la tigre, la marmotta) e altri al maschile (il leone, il cammello). Questi nomi sono anche detti promiscui (comprendono entrambi i generi). Allo stesso modo, una sentinella o una guardia (femminili) non corrispondono al sesso di chi svolge queste funzioni che possono essere sia uomini sia donne.
Lettura Ricordo, da bambino, il tavolo della cucina su cui a volte giocavo o facevo i compiti sino all’ora di cena, quando finalmente richiudevo ogni cosa. All’improvviso, quello stesso tavolo veniva ricoperto da una tovaglia bianca, come una gonna che ne copriva le gambe, e apparecchiato. Al richiamo di: “È pronto! A tavola!” tutta la famiglia si sedeva e il tavolo era diventato la tavola, al femminile, che ci nutriva. Almeno fino a quando non la si sparecchiava nuovamente e la magia era finita: ritornava a essere un tavolo, da lavoro, maschio e spoglio. Mi è sempre sembrata una bella immagine per descrivere l’essenza della nostra lingua: instabile, irrazionale, senza una logica apparente.
In altri casi le parole si differenziano tra il maschile e il femminile, per esempio madre e padre, abate e badessa, e la femmina del camoscio è la camozza.
In latino esistevano tre generi, il maschile, il femminile e il neutro impiegato proprio le cose e i concetti senza sesso, ma nel passaggio all’italiano il neutro è caduto in disuso e la conseguenza è che le parole si sono mascolinizzate e femminilizzate a orecchio e senza una ragione logica. E così il mare è maschile, in italiano, mentre in francese è femminile (la mère), in spagnolo (mar) può essere maschile o femminile a seconda dei contesti (“tengo un mar de compromisos”, cioè “ho un mare di cose da fare”, oppure “la mar de gente”, un “mare di gente”). In tedesco Meer è neutro, e in inglese (sea) non c’è il problema del genere, che vive solo nei pronomi personali.
Come distinguere il maschile e il femminile dei nomi
Per chi parla e scrive, è necessario sapere quando un sostantivo è maschile o femminile per poterlo concordare correttamente con gli aggettivi e le altre parole: il paneè buono (maschile) e la tortaè buona (femminile).
Bisogna fare attenzione: anche se spesso è così, non è vero che i sostantivi maschili terminano in –o e quelli femminile in –a, questa circostanza non è una regola, e pensare che sia così è un’idea ingannevole ed errata: nomi come Mattia, Battista o Andrea (per quest’ultimo vale per l’italiano, in altri Paesi può essere femminile), sono maschili, come l’automa, il poeta, il sosia, il papa e il papà, il gorilla, il cinema, il prisma, il sisma, il plasma, il carisma, il boia, il vaglia, il pigiama, il nonnulla, il pirata, il problema, lo scisma, lo stemma, lo stratagemma, l’aforisma e l’aldilà. E anche: l’asma e l’edema (“lo asma” e “lo edema”)! Viceversa, sono femminili molte parole che terminano in -o come la moto, la pallavolo, la radio, la mano, l’auto, la dinamo e anche l’eco (“la eco”), che però al plurale è sempre gli echi, al maschile.
Dopo tutti questi esempi forse è più chiaro come fare a distinguere il genere di una parola: un nome è maschile (o femminile) quando il suo articolo è maschile (e viceversa): il capitale è una somma di denaro e la capitale è la città principale di un Paese.
Come si fa a sapere quale articolo abbinare? Non c’è una regola, c’è solo l’uso e in caso di dubbi non resta che consultare il dizionario.
A volte però le cose sono ancora più complicate e spinose, per esempio nel caso di alcuni → nomi propri geografici (che non si trovano sul dizionario).
■ Quali sono i nomi con due plurali che hanno un diverso significato? ■ Che differenza c’è tra bracci/braccia? ■ Che differenza c’è tra budelli e budella ■ Che differenza c’è tra cervelli e cervella? ■ Che differenza c’è tra cigli e ciglia? ■ Che differenza c’è tra corni e corna? ■ Che differenza c’è tra diti e dita? ■ Che differenza c’è tra fili e fila? ■ Che differenza c’è tra fondamenti e fondamenta? ■ Che differenza c’è tra frutti e frutta? ■ Che differenza c’è tra gesti e gesta? ■ Che differenza c’è tra legni e legna? ■ Che differenza c’è tra lenzuoli e lenzuola? ■ Che differenza c’è tra membri e membra ■ muri/mura ■ Che differenza c’è tra ossi e ossa?
Tra i nomi sovrabbondanti non ci sono solo quelli che presentano ridondanze dallo stesso significato (presepe e presepio, puzza e puzzo), ci sono anche quelli che possiedono due plurali diversi, che molto spesso hanno però diversi significati.
Per esempio i gesti sono quelli che facciamo con le mani nella comunicazione, ma le gesta sono le imprese degli eroi; altre volte un plurale ha un valore collettivo e uno ha un valore individuale: gli ossi designano i singoli ossi considerati separatamente (due ossi della mano) o quelli degli animali (ossi di seppia), mentre le ossa indicano l’insieme, l’ossatura o lo scheletro (le ossa della mano = tutte), le lenzuola indicano il completo, e i singoli lenzuoli spaiati sono al maschile.
Di seguito un elenco dei più diffusi sostantivi che presentano due plurali dal significato differenziato:
● i bracci (del carcere, di
una bilancia, di una croce o di una tenaglia) e le braccia (del corpo
umano);
● i budelli (cunicoli lunghi e stretti) e le budella (intestini);
● i cervelli (persone intelligenti, “la fuga dei cervelli”) e le cervella
(la materia cerebrale per esempio degli animali);
● i cigli (della strada) e le ciglia (degli occhi);
● i corni (strumenti musicali) e le corna (del toro);
● i diti (singolarmente: i diti indici) e le dita (nel loro
insieme: della mano);
● i fili (d’erba) e le fila (tirare
le fila, con valore collettivo);
● i fondamenti (del sapere) e le fondamenta (della casa);
● i frutti (singoli: i frutti del pero) e la frutta (inteso come
nome collettivo);
● i gesti (che si fanno nel gesticolare) e le gesta (di un eroe);
● i legni (i pezzi di legno) e la legna (nome collettivo);
● i lenzuoli (singolarmente) e le lenzuola (il paio completo);
● i membri (del governo) e le membra (del corpo);
● i muri (di casa) e le mura (della città);
● gli ossi (singoli o degli animali, per esempio di seppia) e le ossa
(nel loro insieme).
■ Cos’è il nome o sostantivo? ■ Che differenza c’è tra nome e sostantivo? ■ Cosa sono i nomi concreti? ■ Cosa sono i nomi astratti? ■ Cosa sono i nomi comuni? ■ Cosa sono i nomi propri? ■ Cosa sono i soprannomi? ■ Cosa sono i nomi derivati? ■ Cosa sono i nomi alterati? ■ Cosa sono i nomi composti? ■ Cosa sono i nomi collettivi? ■ Cosa sono gli accrescitivi? ■ Cosa sono i diminutivi? ■ Cosa sono i vezzeggiativi? ■ Cosa sono i dispregiativi? ■ Cosa sono i nomi difettivi? ■ Cosa sono i nomi sovrabbondanti? ■ Quali sono i nomi geografici? ■ Perché nel caso dei nomi di popoli si può scrivere “gli inglesi” minuscolo, ma gli “Egizi” maiuscolo? ■ Cosa sono i nomi falsi alterati?
Il nome, detto anche sostantivo, è una parte del discorso molto importante nella lingua, qualcosa di primordiale alla base del linguaggio stesso: permette la corrispondenza tra un suono e un oggetto o un concetto.
Non ci sono solo i nomiconcreti che indicano le cose, ci sono anche i nomiastratti che esprimono idee, sentimenti e concetti come la paura, la felicità, l’amicizia…
Accanto ai nomi comuni (concreti e astratti) ci sono quelli propri, che possono essere di persona (Silvia) o animale (Fido), ma includono anche i cognomi e i soprannomi (il Griso manzoniano) o quelli geografici (Milano, Arno, Lazio) o etnici, che indicano i nomi dei popoli (gli Egizi). I nomi propri si scrivono tassativamente con l’iniziale maiuscola, ma nel caso dei popoli contemporanei (gli italiani, i francesi) ormai è caduta la consuetudine di scriverli così, si possono scrivere anche in minuscolo e dipende dai gusti, mentre nel caso dei popoli antichi è buona regola usare la maiuscola (gli Etruschi).
Tra gli altri tipi di classificazione dei nomi che si possono fare, c’è la distinzione in semplici o composti (francobollo, pomodoro), oppure in individuali (uomo, pecora, luna) e collettivi (gente, gregge, firmamento) che pur essendo singolari designano un insieme di persone, animali o cose. In quest’ultimo caso è bene fare attenzione alle concordanze: la gente fa e non la “gente fanno”. Ci sono poi nomi primitivi, che sono costituiti solo dalla radice e dalla desinenza (fior-e) e quelli derivati che possono aggiungere alla radice suffissi, prefissi, alterazioni e composizioni che conferiscono un significato diverso, anche se appartenente allo stesso ambito semantico: fiorista, fioraio, fioretto, fiordaliso, fioritura…
I sostantivi sono una parte variabile del discorso perché si possono volgere al singolare e al plurale, e possono subire anche altri tipi di alterazioni.
I nomi alterati si possono distinguere in:
●accrescitivi, spesso attraverso il suffisso -one: ombrello/ombrellone, cane/cagnone, ma anche in altri modi per es. giovanotto o candelotto; ●diminutivi (con suffissi come –ino, –etto, –ello, –icciolo, –erello, –ellino…) ombrellino, libretto e libricino, ragazzino, ma anche festicciola, uccelletto, pastorello; ●vezzeggiativi (i suffissi possono essere –ino, –icino, –olino, –uzzo…): sono forme di diminutivi che conferiscono contemporaneamente un tocco di simpatia e di grazia: ometto, micetto, boccuccia, cagnolino, reuccio (talvolta la distinzione tra vezzeggiativo e diminutivo non è netta); ●dispregiativi o peggiorativi (attraverso suffissi come –accio, –onzolo, –astro, –ercolo, –iciattolo, -ucolo…): omaccio e omaccione, libercolo e libraccio, ragazzaccio, e ancora poetastro o poetucolo, donnicciola e donnaccia, pretonzolo, mostriciattolo, casupola.
Naturalmente non bisogna lasciarsi ingannare da queste desinenze, non sempre sono un’alterazione dei nome e nel caso di polpaccio o focaccia non sono dispregiativi di polpo e foca, così come tacchino, mattone o collina non derivano certo da tacco, matto e collo (per saperne di più → “I nomi falsi alterati“).
In altri casi le alterazioni dei nomi avvengono attraverso “regole istintive” che da un punto di vista grammaticale sarebbero errate come per esempio l’applicazione dei superlativi (che appartiene solo agli aggettivi o agli avverbi) anche ai sostantivi, per esempio finalissima, partitissima (per saperne di più vedi → “I superlativi abusivi, iperbolici e metaforici“)-
Ci sono alcuni nomi detti difettivi perché hanno il “difetto” di possedere solo il singolare (fame, sete, latte, sangue, pietà, pazienza…) oppure solo il plurale (nozze, ferie, gesta, viveri…). Viceversa, i nomi sovrabbondanti hanno più forme possibili (sono le stesse etichette che si applicano ai verbi difettivi e sovrabbondanti), e per esempio si può dire indifferentemente puzzo e puzza, presepe e presepio, scudiero e scudiere, ginocchi e ginocchia. Altre volte esistono delle leggere sfumature di significato tra una forma e l’altra, come orecchio e orecchia (per le “orecchie” che si fanno ai libri è obbligatoria la seconda forma) che al plurale diventano orecchi e orecchie.
Altre volte ci sono nomi che hanno un diverso significato tra singolare e plurale (vedi anche → “Nomi con doppio plurale e doppio significato“), come l’oro (il metallo) e gli ori (i gioielli), o l’ottone (la lega) e gli ottoni (i fiati). E ancora ci sono nomi che presentano un falso cambiamento tra il maschile e il femminile, in realtà in questo passaggio di genere cambia completamente il significato, per esempio l’arco e l’arca, il collo e la colla, il colpo e la colpa o il pianto e la pianta(per saperne di più → “Falsi cambiamenti di genere“).
■ Cos’è l’uso impersonale di un verbo? ■ Quali sono i verbi impersonali? ■ Quali sono le locuzioni impersonali? ■ I verbi atmosferici sono sempre impersonali? ■ Si può dire piovono pietre? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi impersonali? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi coniugati in modo impersonale?
Non tutte le forme verbali hanno necessariamente una persona: i modi indefiniti (infinito, participio e gerundio) ne sono slegati, oppure nel caso del modo imperativola prima persona singolare non esiste, visto che non avrebbe senso impartire un ordine coniugato con “io”.
A parte ciò, ogni verbo si può usare anche in modo impersonale, cioè alla terza persona preceduta da si (si pensa, si mangia, si va) che è un modo generico di esprimere un’azione senza ricorrere a io, tu, noi o voi, e cioè senza legare il verbo a una persona. Dire perciò si vince, si dice, si tramanda, si racconta, si sa, si sta, si va, si parte o si arriva equivale a dire: qualcuno vince, dice…
Tra
le altre locuzioni impersonali ci sono quelle come bisogna studiare,
conviene riflettere, oppure è giusto (utile, bene, male…), va
bene, va male, va a gonfie vele.
Esistono poi i verbi impersonali, quelli cioè senza persona, dove il soggetto è inespresso. Per esempio accade, succede, avviene, sembra, pare, urge, importa, è necessario (conveniente, utile…). Tra questi ci sono tutti i verbi che riguardano i fenomeni atmosferici: si dice piove (“io piovo”, “tu piovi”… non ha senso) come anche nevica, grandina, tuona, lampeggia, albeggia, tramonta e sono impersonali anche le forme come fa caldo o fa freddo.
Se invece questi verbi assumono altri significati o vengono usati in senso figurato, allora possono reggere una persona, per esempio: il cannone tuona, il maestro tuona contro gli ignoranti, piovono pietree frecce…
■ Si dice ho potuto andare o sono potuto andare? ■ Quale ausiliare si usa con i verbi servili? ■ Come si associano gli ausiliari ai verbi fraseologici? ■ Come si usano gli ausiliari nelle locuzioni verbali?
Davanti a una locuzione formata per esempio da verbi servili, come poter andare, quale ausiliare si deve usare nei tempi composti? Si dice “ho potuto andare” o “sono potuto andare”?
Più precisamente, potere regge l’ausiliario avere (ho potuto) e andare l’ausiliario essere (sono andato), ma allora quali dei due prevale quando questi due verbi si uniscono in una locuzione?
Sono potuto andare è preferibile rispetto a ho potuto andare (anche se circolano entrambe le soluzioni). Di solito è più corretto utilizzare l’ausiliario del verbo principale e non quello del servile che lo accompagna. Dunque, poiché si dice ho parlato e sono uscito, è bene dire anche ho potuto parlare e sono dovuto uscire.
Questa regola generale, però, non è sempre vera.
Per esempio, quando i verbi servili sono seguiti dal verbo essere all’infinito o da un infinito al passivo, vogliono l’ausiliario avere: quindi è corretto dire ho voluto essere furbo (e non sono voluto) e avrei potuto essere lodato.
Inoltre, i verbi come sapere, preferire, desiderare e osare mantengono sempre avere: ho saputo correre (e non sono saputo), ho preferito andare ecc.
■ Cosa sono le locuzioni verbali? ■ Cosa sono i verbi fraseologici? ■ Quali sono i verbi fraseologici? ■ Cosa sono i verbi servili? ■ Quali sono i verbi servili? ■ Cosa sono i verbi causativi? ■ Quali sono i verbi causativi? ■ Quali sono esempi di frasi con locuzioni verbali? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi fraseologici? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi servili? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi causativi?
Ci sono verbi che si appoggiano ad altri verbi per formare costrutti dal significato particolare, per esempio, invece di dire mangerei si può dire potrei mangiare (si aggiunge il verbo potere). Tra questi costrutti ci sono anche espressioni come sto per mangiare (si appoggia al verbo stareinvece di dire per esempio mangerò) o ancora lasciami fare.
Frasi come queste sono formate da verbi che si possono classificare in servili, fraseologici e causativi:
● i verbi servili sono soprattutto dovere, potere e volere che, se non hanno una funzione predicativa che li rende autonomi (per esempio “mi deve dei soldi”, “non ne posso più”, “voglio un ombrello”) di solito servono altri verbi in locuzioni come posso mangiare, devo correre, voglio comprare… Anche altri verbi come sapere, desiderare, preferire e osare in certi contesti diventano servili e contribuiscono a dare vita a forme verbali basate su verbi diversi, per esempio “so guidare”, “desidero bere” o “preferisco tacere”;
● i verbi fraseologici sono locuzioni in cui alcuni verbi assumono significati particolari unendosi a un infinitoo a un gerundio, per esempio “sto per partire”) “sto facendo i compiti” (si introduce il verbo “stare” invece di dire semplicemente “parto” e “faccio”); tra questi verbi che in contesti del genere assumo un nuovo significato, oltre a stare, ci sono anche solere, cominciare, terminare, smettere, riuscire, finire, tentare, cercare, sapere e molti altri, tra cui andare(dove andremo a finire) che nel nuovo Millennio si sta diffondendo sempre più nel linguaggio televisivo anche con una forma che travalica lo spazio (dell’andare) per indicare un’azione imminente nel tempo (“andiamo a impiattare la pietanza”, ma non è uso che ha una sua tradizione storica). Tra questi costrutti ci sono anche: cerco di nuotare, smetto di fumare, provo a dormire, comincio a lavorare… E tra i modi di dire che conferiscono alla frase una sfumatura di significato diversa da quella senza il verbo di appoggio, ci sono anche locuzioni come mi trovo a, mi sento di, mi limito a, riesco a… seguiti dal verbo principale all’infinito;
● i verbi causativi, di solito fare e lasciare + infinito, esprimono un’azione che non è compiuta dal soggetto, ma fatta compiere ad altri o dall’esterno, e formano locuzioni come non mi fai (o lasci) dormire; fallo (o lascialo) riflettere; lascia perdere quella cosa…
■ Cos’è la forma riflessiva? ■ Cos’è la forma riflessiva indiretta? ■ Cos’è la forma riflessiva reciproca? ■ Cos’è la forma riflessiva affettiva? ■ Cosa sono i verbi pronominali? ■ Quali sono esempi di frasi con la forma riflessiva? ■ Quali sono esempi di frasi con la forma riflessiva apparente? ■ Quali sono esempi di frasi con la forma riflessiva indiretta? ■ I verbi riflessivi sono solo transitivi? ■ Quali sono esempi di frasi con i verbi pronominali? ■ Quali sono esempi di frasi con la forma riflessiva affettiva?
Oltre alla forma attiva e passiva, il verbo può avere anche la forma riflessiva che si usa quando l’azione compiuta dal soggetto si riflette su sé stesso e non su qualcosa di esterno; per esempio: il gatto si lecca (= lecca sé stesso), oppure si lava, si gratta…
In altre parole, nel verbo riflessivo il soggetto e l’oggetto coincidono, sono la stessa persona, e la forma verbale è sempre accompagnata dal pronome personale riflessivo (mi, ti, ci, si, vi).
Questa è la forma diretta, o propria, del si riflessivo, e si chiama così perché il pronome riflessivo fa da complemento oggetto (si lava = lava sé stesso). Per questo motivo i verbi riflessivi sono sempre transitivi.
Ci sono poi altre forme riflessive (anche se letteralmente non lo sarebbero, perché l’azione non si riflette davvero su sé stessa, ma solo in apparenza):
● la forma riflessiva indiretta, o apparente, per esempio: Mario si allaccia la scarpa, oppure si fa la barba. In questo caso il si (ma vale anche per mi, ti, ci e vi, per esempio: mi faccio la barba e mi asciugo il viso) non è un complemento oggetto o diretto che si può sostituire con sé stesso, ma si trasforma in a sé stesso (ecco perché è indiretta). Per essere più precisi: Marco si lava (lava sé stesso), è la forma diretta, mentre Marco si lava le mani (cioè lava le mani a sé stesso) è una forma indiretta o apparente; ● la forma riflessiva reciproca, per esempio: i cani si annusano, o si salutano, equivale a dire si annusano/salutano a vicenda, l’uno con l’altro (ed ecco perché si chiama reciproca); ● la forma riflessiva dei verbi pronominali: anche se nella forma sono del tutto identici ai riflessivi, ci sono poi i verbi intransitivi pronominali, detti anche riflessivi intransitivi, cioè quei verbi che includono le particelle pronominali mi, ti, ci, si e vi nel loro paradigma, per esempio accorgersi, arrabbiarsi, pentirsi, vergognarsi. Le particelle in questione non sono l’oggetto, ma significano di me, di te… e sono diversi per esempio da lavarsi (cioè lavare sé stessi) e simili. ● la forma riflessiva affettiva è una forma di riflessivo, anche se propriamente non lo sarebbe affatto, che si definisce d’affetto perché le particelle pronominali in gioco hanno un valore rafforzativo affettivo, ma sono pleonastiche, e cioè si possono anche togliere senza cambiamenti di significati. Per esempio: “Ma cosa mi combini?” oppure: “Mi faccio una bella mangiata”. In questi esempi la particella mi si può anche eliminare, il suo scopo è unicamente quello di aggiungere alla frase un senso di maggiore coinvolgimento e di affetto.
■ Come si coniugano le forme passive? ■ Qual è la coniugazione del passivo? ■ Come si coniuga il verbo lodare al passivo? ■ Ci sono verbi che non hanno la forma passiva? ■ Quali sono gli esempi di frasi al passivo?
La coniugazione dei verbi nella forma passiva è molto semplice: basta unire la coniugazione del verbo esserecon il participio passato.
Per esempio io amo al passivo diventa io sono amato, io temo → sono temuto, io servo → sono servito e così via per ogni coniugazione e per ogni tempo.
Di seguito una tabella di esempio con il paradigma della coniugazione passiva in ogni forma che ha come modello il verbo lodare.
Indicativo
presente
imperfetto
passato remoto
io sono lodato
io ero lodato
io fui lodato
tu sei lodato
tu eri lodato
tu fosti lodato
egli è lodato
egli era lodato
egli fu lodato
noi siamo lodati
noi eravamo lodati
noi fummo lodati
voi siete lodati
voi eravate lodati
voi foste lodati
essi sono lodati
essi erano lodati
essi furono lodati
passato prossimo
trapassato prossimo
trapassato remoto
io sono stato lodato
io ero stato lodato
io fui stato lodato
tu sei stato lodato
tu eri stato lodato
tu fosti stato lodato
egli è stato lodato
egli era stato lodato
egli fu stato lodato
noi siamo stati lodati
noi eravamo stati lodati
noi fummo stati lodati
voi siete stati lodati
voi eravate stati lodati
voi foste stati lodati
essi sono stati lodati
essi erano stati lodati
essi furono stati lodati
futuro semplice
futuro anteriore
io sarò lodato
io sarò stato lodato
tu sarai lodato
tu sarai stato lodato
egli sarà lodato
egli sarà stato
lodato
noi saremo lodati
noi saremo stati
lodati
voi sarete lodati
voi sarete stati
lodati
essi saranno lodati
essi saranno stati
lodati
Congiuntivo
presente
passato
imperfetto
trapassato
che io sia lodato
che io sia stato lodato
che io fossi lodato
che io fossi stato lodato
che tu sia lodato
che tu sia stato lodato
che tu fossi lodato
che tu fossi stato lodato
che egli sia lodato
che egli sia stato lodato
che egli fosse lodato
che egli fosse stato lodato
che noi siamo lodati
che noi siamo stati lodati
che noi fossimo lodati
che noi fossimo stati lodati
che voi siate lodati
che voi siate stati lodati
che voi foste lodati
che voi foste stati lodati
che essi siano lodati
che essi siano stati lodati
che essi fossero lodati
che essi fossero stati lodati
Condizionale
presente
passato
io sarei lodato
io sarei stato
tu saresti lodato
tu saresti stato
egli sarebbe lodato
egli sarebbe stato
noi saremmo lodati
noi saremmo stati
voi sareste lodati
voi sareste stati
essi sarebbero lodati
essi sarebbero stati
Imperativo
(io) …
(tu) sii lodato
(egli) sia lodato
(noi) siamo lodati
(voi) siate lodati
(essi) siano lodati
Infinito presente: essere lodato Infinito passato: essere stato lodato Gerundio presente: essendo lodato Gerundio passato: essendo stato lodato Participo presente: — Participio passato: —
■ Che cos’ è la forma passiva? ■ Come si riconosce la forma passiva? ■ Come si fa la forma passiva? ■ Che differenza c’è tra “sono trasportato” e “vengo trasportato?” ■ Qual è il trucco per distinguere una forma passiva come “sono chiamato” e una attiva come “sono andato”? ■ Che cos’è il si passivante? ■ La forma passiva si può fare anche con il verbo “venire”? ■ Tutti i verbi possono avere la forma passiva? ■ Il “si passivante” è solo impersonale?
Tutti i verbi possiedono una forma attiva, dove il soggetto è quello che compie l’azione, come si dice generalmente, o comunque si trova nello stato che il verbo esprime (il cane mangia l’osso; il cane corre).
Ma il verbo può assumere anche altre forme, come quella riflessiva (in cui l’azione si rivolge verso sé stessi, per es. il gatto si lava) e quella passiva.
Nella forma passiva avviene un ribaltamento della struttura della proposizione e il soggetto grammaticale “subisce” l’azione espressa dal verbo:
il cane (soggetto) mangia (predicato verbale attivo) l’osso (complemento oggetto)
si può rovesciare in
l’osso (soggetto) è mangiato (predicato verbale passivo) dal cane (complemento di agente).
Attraverso questa forma, il soggetto non è più chi compie l’azione, ma chi la subisce: il cane è il soggetto logico, ma non quello grammaticale che diventa l’osso, cioè quello che nella forma attiva era l’oggetto.
Per compiere questo ribaltamento è perciò necessario che ci sia un complemento oggetto, altrimenti non è possibile. Per questo motivo solo i verbi transitivi, quelli che rispondono alle domande “Chi? Che cosa?” e reggono il complemento oggetto possono essere “rigirati”. I verbi intransitivi non possiedono la forma passiva.
Più nel dettaglio, per volgere una frase al passivo si devono compiere tre trasformazioni:
● il complemento oggetto diventa soggetto; ● il soggetto diventa complemento d’agente (per le persone) o di causa efficiente (per le cose); ● il verbo si volge nella forma passiva.
Come si coniuga la forma passiva? Molto semplicemente: basta unire la coniugazione del verbo essere al participio passato. Per esempio io lodo al passivo diventa io sono lodato, io temo → sono temuto, io servo → sono servito e così via per ogni coniugazione e per ogni tempo (se non fosse chiaro è possibile vedere la tabella con un paradigma coniugato per intero).
Un trucco per riconosere i passivi
Bisogna fare attenzione a non confondere la forma passiva con un normale tempo composto attivo con il verbo essere! In altre parole, nella pratica, quando si trovano forme come “è mangiato”, “è calciato”, “è sollevata” come si possono distinguere dalle forme del passato prossimo attivo di verbi intransitivi che non hanno il passivo come “è andato”, “è sbiadito” o “è piovuto”?
Un trucco pratico è quello di sostituire il verbo essere con il verbo venire. Il passivo infatti si può costruire anche con venire oltre che essere. Se questa sostituzione è possibile senza snaturare il senso della frase vi trovate di fronte a un passivo, altrimenti si tratta di un tempo composto di una forma attiva.
Perciò:
● sono forme passive: l’osso è (viene) mangiato; il pallone è (viene) calciato; la vela è (viene) sollevata; ● sono certamente forme attive di normali tempi composti: è andato, è sbiadito o è piovuto (che non consentono alcuno scambio tra essere e venire).
Questo sistema, però, funziona solo con il presente: l’osso è stato mangiato non si può sostituire con “l’osso è venuto mangiato”, ma non è poi così difficile volgere al presente una frase, in caso di dubbi.
Il si passivante
C’è anche un’altra modalità per rendere la forma passiva: il si passivante, che si forma appunto con si seguito dalla terza persona singolare o plurale del verbo transitivo, per esempio:
● si accettano (= sono/vengono accettati) buoni pasto; ● si mangia (= viene mangiata) la minestra; ● si sconta (= viene scontata) tutta la merce.
Questo ultimo modo di formare il passivo è però impersonale(non si riferisce a una persona come io o tu), e si può fare solo quando il complemento di agente o di causa efficiente non è espresso.
■ Che cosa sono i verbi transitivi e intransitivi? ■ Che differenza c’è tra verbi transitvi e intransitivi? ■ Come si può sapere quale ausiliario possiede un verbo? ■ Si dice è vissuto o ha vissuto? ■ Si dice ho corso o sono corso? ■ Si dice è grandinato o ha grandinato? ■ I verbi transitivi reggono tutti l’ausiliario avere? ■ I verbi intransitivi reggono tutti l’ausiliario essere? ■ Come mai se “amare” è un verbo transitivo che regge l’ausiliario avere si può dire “sono amato” oltre a “ho amato”? ■ Un verbo può possedere due ausiliari? ■ Ci sono verbi che possono essere usati sia transitivamente sia intransitivamente? ■ Quali sono i verbi che possono reggere sia “essere” sia “avere”? ■ A cosa serve sapere se un verbo è transitivo o intransitivo?
I verbi si possono dividere in due generi, quelli transitivi e quelli intransitivi.
Sono transitivi i verbi che lasciano transitare l’azione su qualcosa, in altre parole reggono il complemento oggetto (o diretto), e in modo semplice e pratico sono quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”, in alternativa sono intransitivi.
Per esempio: si può mangiare qualcosa? Sì, dunque mangiare è un verbo transitivo. Si può andare qualcosa? No. Dunque andare è un verbo intransitivo (si può andare da qualche parte, non direttamente qualche parte).
Questa distinzione è molto importante per vari motivi pratici.
● Tutti i verbi transitivi, nella formazione dei tempi composti, si appoggiano all’ausiliare avere, dunque si dice ho mangiato (mentre sono mangiato è la forma passiva); ● i verbi transitivi possiedono la forma passiva, quelli intransitivi no. In altre parole nel primo caso, essendoci un oggetto, è possibile ribaltare la frase: io mangio la mela → la mela è mangiata da me (il verbo diventa passivo, il soggetto si trasforma in complemento di agente e l’oggetto diventa il soggetto);
●attenzione: se tutti i verbi transitivi si appoggiano all’ausiliario avere, non è detto che viceversa gli intransitivi vogliano sempre essere, a volte si appoggiano ad avere (per es. partecipare → ho partecipato), e non c’è una regola per stabilire quale sia il loro ausiliare, in caso di dubbi è bene consultare il dizionario.
Ci sono casi in cui uno stesso verbo può essere usato sia transitivamente sia intransitivamente, dunque gli ausiliari possono cambiare a seconda dei contesti, per esempio cambiare (si può cambiare qualcosa, dunque ho cambiato, ma si può dire anche che la situazione è cambiata) o girare (ho girato il volante e la ruota è girata). In altri casi l’uso transitivo o intransitivo di un verbo ne cambia il significato: avanzare nel senso di procedere (intransitivo) e nel senso di avanzare la minestra o avanzare una pretesa (transitivo), o come nelle espressioni ho servito il pranzo e non è servito a niente (nel senso di “non è più utile”).
Ci sono poi alcuni verbi che sono sempre intransitivi tranne in un caso: quando reggono il complemento oggetto che riprende la radice e il significato del verbo stesso, per esempio dormire un sonno tranquillo, vivere una vita… e si può dire ho corso una corsa (o una gara), ma si dice sono corso a casa (uso intransitivo).
Infine, in qualche caso ci sono verbi intransitivi che possono reggere il doppio ausiliario, e per esempio si può dire sia è prevalso sia ha prevalso. Tra questi ci sono tutti i verbi che indicano fenomeni atmosferici, per cui è possibile dire è piovuto e ha piovuto, e lo stesso vale per nevicare, grandinare, tuonare, lampeggiare, albeggiare.
■ Cosa sono i verbi sovrabbondanti? ■ Quali sono i verbi sovrabbondanti? ■ Si dice adempiere o adempire? ■ Si dice intorbidare o intorbidire? ■ Le forme dei verbi
sovrabbondanti rientrano sempre nella stessa coniugazione? ■ Le forme dei verbi sovrabbondanti hanno sempre lo stesso significato? ■ che differenza c’è tra i verbi sovrabbondanti e i falsi sovrabbondanti? ■ Che differenza c’è tra arrossare e arrossire? ■ Che differenza c’è tra impazzare e impazzire? ■ Che differenza c’è tra sfiorare e sfiorire?
I verbi sovrabbondanti sono quelli che possiedono forme doppie e diverse che si alternano intorno a una stessa radice.
Sono un po’ opposto dei verbi difettivi che invece sono privi di alcune forme.
Tra i verbi sovrabbondanti ci sono per esempio adempiere e adempire, annerare e annerire, compiere ecompire, intorbidare e intorbidire: in questi casi ci sono vocali tematiche doppie che fanno cadere uno stesso verbo, che ha lo stesso significato, all’interno di due diverse coniugazioni.
In altri casi, invece, i verbi sovrabbondanti danno origine a verbi che hanno un significato differente a seconda della forma, e sono detti falsi sovrabbondanti, per esempio atterrare e atterrire, arrossare (far diventare rosso) e arrossire (diventare rosso), impazzare (manifestarsi in modo chiassoso) e impazzire (diventare pazzo), scolorare (togliere il colore) e scolorire (impallidire) o sfiorare e sfiorire.
■ Cosa sono i verbi difettivi? ■ Com’è il passato prossimo di “splendere”? ■ Quali sono i verbi difettivi? ■ Come si fa a esprimere le forme mancanti dei verbi difettivi, se è necessario? ■ Quali sono gli esempi di verbi difettivi?
Ci sono verbi, chiamati difettivi molto semplicemente perché mancano (difettano) di alcune forme e sono perciò considerati irregolari (al contrario altri hanno più forme possibili, e si chiamano sovrabbondanti).
Splendere per esempio, non possiede un participio passato in uso, e perciò non si coniunga nei tempi composti: si può dire che il sole splendeva (o risplendeva) ma non si può usare il passato prossimo e dire il sole è “splenduto” (per essere più precisi sarebbe possibile, ma è sempre stato così raro che è uscito dall’uso, anche se alcuni grammatici e alcuni dizionari lo contemplano come forma corretta).
Ci sono verbi che difettano solo del participio passato, per esempio:
competere, convergere, divergere, esimersi, incombere, indulgere, permanere, soccombere, splendere (e risplendere) o stridere.
Se proprio non si vuole fare a meno dei tempi composti, in questi casi si possono usare sinonimi come brillare, nel caso di splendere o rivaleggiare per competere e così via.
In altri casi i verbi difettivi sono privi anche di altre forme, che non esistono o non sono usate, e in questo caso usare equivalenti e sinonimi può essere di aiuto o anche indispensabile, nel discorso. Ecco un elenco delle sole forme possibili di alcuni verbi, accompagnati da qualche alternativa:
● aggradare (essere gradito, piacere) indicativo pres. aggrada, aggradano; imperf. aggradava, aggradavano; cong. pres. aggradi, aggradano; cong. imperf. aggradasse, aggradassero; condiz. pres. aggraderebbe, aggraderebbero; ● delinquere (commettere delitti) si usa solo all’infinito (associazione a delinquere) e al participio passato ha solo il significato di sostantivo, delinquente. Molto raramente si trova declinato al presente indicativo (delinquo…), ma meglio evitarlo e ricorrere ad altre sostituzioni equivalenti, come “commetto un reato”; ● fervere (essere ardente) indicativo pres. ferve, fervono; imperf. ferveva, fervevano; part. pres. fervente; gerundio fervendo;● incombere (essere imminente, sovrastare) si usa solo nelle terze persone dei tempi semplici (incombe, incombeva, incombette), nel part. pres. incombente e nel gerundio incombendo; ● prudere (dare prurito) si usa solo nelle terze persone dei tempi semplici (prude, prudono, prudeva, prudevano) nel part. pres. prudente e nel gerundio prudendo; ● solere (essere solito) indicativo pres. soglio, suoli, suole, sogliamo, solete, sogliono; imperf. solevo ecc.; cong. pres. soglia, ecc.; cong. imperf. solessi, ecc.; part. pass. solito; gerundio solendo; ● urgere (essere urgente) indicativo pres. urge, urgono; imperf. urgeva, urgevano; fut. urgerà, urgeranno; cong. pres. urga, urgano; cong. imperf. urgesse, urgessero; condiz. urgerebbe, urgerebbero; part. pres. urgente; gerundio urgendo; ● vertere (riguardare) si usa solo nelle terze persone dei tempi semplici (verte, vertono, verteva, vertevano…); ● vigere (essere in vigore) si usa solo nelle terze persone dei tempi semplici (vige, vigono, vigeva, vigevano…) nel part. pres. vigente e nel gerundio vigendo.
■ Perché molte grammatiche includono i verbi porre, trarre e condurre tra quelli della seconda coniugazione? ■ Come si coniuga condurre? ■ Come si coniuga porre? ■ Come si coniuga trarre? ■ I composti di condurre, porre e trarre si comportano come i verbi progenitori? ■ Quali sono i composti di condurre, trarre e porre?
La maggior parte delle grammatiche includono i verbi come condurre, porre o trarre tra quelli della seconda coniugazione, perché derivano dal latino conducere, ponere e trahere.
Al di là dei criteri di classificazione, di seguito è possibile vedere come si coniugano nelle forme che presentano irregolarità:
■ Quali sono i verbi irregolari in -ire? ■ Perché molte grammatiche includono il verbo dire tra quelli della seconda coniugazione? ■ Come si coniuga dire? ■ I composti di dire si comportano come il verbo progenitore? ■ Meglio “contraddicevo” o “contraddivo”? ■ Perché si dice “benedicevo” ma all’imperativo “benedici” e non come il verbo da cui deriva (di’)? ■ Esaurire fa esausto o esaurito? ■ Seppellire fa seppellito o sepolto? ■ Come si coniuga aborrire? ■ Come si coniuga apparire? ■ Come si coniuga aprire? ■ Come si coniuga assalire? ■ Come si coniuga costruire? ■ Come si coniuga morire? ■ Come si coniuga offrire? ■ Come si coniuga salire? ■ Come si coniuga sparire? ■ Come si coniuga udire? ■ Come si coniuga uscire? ■ Come si coniuga venire?
Tra i verbi che terminano in –ire il più frequente è il verbo dire anche se è spesso inserito nelle grammatiche (ma non in tutte) tra i verbi della seconda coniugazione, perché è una contrazione del latino dicere.
Al di là dei criteri di classificazione, di seguito è possibile vedere come si coniuga nei tempi semplici irregolari (quelli composti si formano regolarmente con il participio passato, detto, e l’ausiliare avere).
Seguono questo modello i composti: benedire, contraddire, disdire, indire, maledire, predire, ridire… per cui si dice contraddicevo, benedicevo, maledicevo (le forme popolari “contraddivo”, “benedivo” o “maledivo” sono poco eleganti e da evitare nei registri colti e formali).
L’unica eccezione, nel caso di benedire, è l’imperativo: “Benedici questa casa!” è corretto invece di benedi’.
Di seguito un elenco degli altri più importanti verbi irregolari in –ire (tra questi sono riportati anche quelli che, pur essendo regolari negli altri casi, prendono l’infisso –isc):
● aborrire (ausil. avere) indicativo pres. aborro e aborrisco, aborri e aborrisci, aborre e aborrisce, aborriamo, aborrite, aborrono e aborriscono; fut. aborrirò; pass. rem. aborrii, aborristi; cong. pres. aborra e aborrisca…, aborriamo, aborriate, aborrano e aborriscano; cong. imperf. aborrissi; cond. aborrirei; imp. aborri e aborrisci; part. aborrito; (seguono questo modello: applaudire, assorbire, inghiottire, languire, mentire, nutrire, riempire, ripartire nel significato di dividere, sdrucire); ● apparire (ausil. essere) indicativo pres. appaio e apparisco, appari e apparisci, appare e apparisce, appariamo, apparite, appaiono; fut. apparirò; pass. rem. apparsi e apparvi o apparii, apparse e apparve o apparì, apparimmo, appariste, apparsero e apparvero o apparirono; cong. pres. appaia o apparisca…, appariamo, appariate, appaiano o appariscano; cong. imperf. apparissi; cond. apparirei; imp. appari e apparisci; part. apparso; (seguono questo modello anche scomparire e comparire); ● aprire (ausil. avere) indicativo pres. apro; fut. aprirò; pass. rem. aprii e apersi, apristi, aprì e aperse, aprimmo, apriste, aprirono e apersero; cong. pres. apra; cong. imperf. aprissi; cond. aprirei; imp. apri; part. aperto; (seguono questo modello: coprire, ricoprire, scoprire); ● assalire (ausil. avere) indicativo pres. assalgo e assalisco, assali e assalisci, assale e assalisce, assaliamo, assalite, assalgono e assaliscono; fut. assalirò; pass. rem. assalii e assalsi, assalisti, assalì e assalse, assalimmo, assaliste, assalirono e assalsero; cong. pres. assalga e assalisca, assaliamo, assaliate, assalgano e assaliscano; cong. imperf. assalissi; cond. assalirei; imp. assali e assalisci; part. assalito; ● costruire (ausil. avere) indicativo pres. costruisco; fut. costruirò; pass. rem. costruii e costrussi (raro), costruisti, costruì e costrusse (raro), costruimmo, costruiste, costruirono e costrussero (raro); cong. pres. costruisca; cong. imperf. costruissi; cond. costruirei; imp. costruisci; part. costruito e costrutto (raro); (segue questo modello anche istruire); ● morire (ausil. essere) indicativo pres. muoio, muori, muore, moriamo, morite, muoiono; fut. morirò e morrò; pass. rem. morii, moristi; cong. pres. muoia, muoia, muoia, moriamo, moriate, muoiano; cong. imperf. morissi; cond. morirei; imp. muori; part. morto; ● offrire (ausil. avere) indicativo pres. offro; fut. offrirò; pass. rem. offrii e offersi, offristi, offrì e offerse, offrimmo, offriste, offrirono e offersero; cong. pres. offra; cong. imperf. offrissi; cond. offrirei; imp. offri; part. offerto; (segue questo modello anche soffrire); ● salire (ausil. essere, ma transitivamente anche avere: ho salito le scale) indicativo pres. salgo, sali, sale, saliamo, salite, salgono; fut. salirò; pass. rem. salii, salisti; cong. pres. salga, salga, salga, saliamo, saliate, salgano; cong. imperf. salissi; cond. salirei; imp. sali; part. salito; ● sparire (ausil. essere) indicativo pres. sparisco; fut. sparirò; pass. rem. sparii e sparvi, sparisti, sparì e sparve, sparimmo, spariste, sparirono e sparvero; cong. pres. sparisca; cong. imperf. sparissi; cond. sparirei; imp. sparisci; part. sparito; ● udire (ausil. avere) indicativo pres. odo, odi, ode, udiamo, udite, odono; fut. udirò e udrò; pass. rem. udii, udisti; cong. pres. oda, oda, oda, udiamo, udiate, odano; cong. imperf. udissi; cond. udirei e udrei; imp. odi, udite; part. udito; ● uscire (ausil. essere) indicativo pres. esco, esci, esce, usciamo, uscite, escono; fut. uscirò; pass. rem. uscii, uscisti; cong. pres. esca, esca, esca, usiamo, usciate, escano; cong. imperf. uscissi; cond. uscirei; imp. esci; part. uscito; (segue questo modello anche riuscire); ● venire (ausil. essere) indicativo pres. vengo, vieni, viene, veniamo, venite, vengono; fut. verrò; pass. rem. venni, venisti; cong. pres. venga, venga, venga, veniamo, veniate, vengano; cong. imperf. venissi; cond. verrei; imp. vieni; part. venuto; (seguono questo modello: avvenire, convenire, divenire, intervenire, pervenire, provenire, svenire…);
A questo elenco si possono aggiungere alcuni verbi che sono regolari, però hanno un doppio participio passato:
● esaurire (ausil. essere) oltre a esaurito, regolare, può avere anche esausto; ● profferire (ausil. avere) fa profferito, ma anche profferto; ● seppellire (ausil. avere), seppellito e sepolto.
■ Quali sono i verbi irregolari in -ere? ■ Quali sono le irregolarità
che si ripetono nei verbi irregolari in -ere? ■ Come si coniuga bere? ■ Come si coniuga cadere? ■ Come si coniuga chiedere? ■ Come si coniuga cogliere? ■ Come si coniuga cuocere? ■ Come si coniuga dolere? ■ Come si coniuga dovere? ■ Come si coniuga giacere? ■ Come si coniuga godere? ■ Come si coniuga nuocere? ■ Come si
coniuga parere? ■ Come si coniuga piacere? ■ Come si coniuga potere? ■ Come si coniuga scegliere? ■ Come si coniuga sedere? ■ Come si coniuga spegnere? ■ Come si coniuga tacere? ■ Come si
coniuga tenere? ■ Come si coniuga valere? ■ Come si coniuga vedere? ■ Come si coniuga vivere? ■ Come si coniuga volere?
I verbi in –ere sono quelli che presentano il maggior numero di forme irregolari. Perlopiù sono irregolari solo nelle forme del passato remoto e del participio passato.
Molte forme irregolari, però, si ripetono con una certa regolarità e di seguito troverete le principali irregolarità raggruppate per tipologia.
Alcuni verbi in –ere nel passato remoto prendono la desinenza –si e nel participio passato –so.
Di seguito, altri tipi di irregolarità dei verbi in -ere nel passato remoto e nel participio passato (tra parentesi i verbi che seguono lo stesso paradigma).
Ci sono poi i verbi che presentano irregolarità anche in altre forme, oltre al passato remoto e al participio, e che hanno una radice che varia a seconda dei tempi. Di seguito un elenco che raccoglie i più diffusi:
● bere (ausil. avere): indicativo pres. bevo; fut. berrò; pass. rem. bevvi (o bevetti) bevesti… bevvero; cong. pres. beva; cong. imperf. bevessi; cond. berrei; imp. bevi; part. bevuto; ● cadere (ausil. essere) indicativo pres. cado; fut. cadrò; pass. rem. caddi, cadesti; cong. pres. cada; cong. imperf. cadessi; cond. cadrei; imp. cadi; part. caduto; (seguono questo modello: accadere, decadere, scadere…); ● chiedere (ausil. avere) indicativo pres. chiedo; fut. chiederò; pass. rem. chiesi, chiedesti; cong. pres. chieda; cong. imperf. chiedessi; cond. chiederei; imp. chiedi; part. chiesto; (segue questo modello anche richiedere); ● cogliere (ausil. avere) indicativo pres. colgo, cogli, coglie, cogliamo, cogliate, colgono; fut. coglierò; pass. rem. colsi, cogliesti; cong. pres. colga, colga, colga, cogliamo, cogliate, colgano; cong. imperf. cogliessi; cond. coglierei; imp. cogli; part. colto; (seguono questo modello: accogliereincogliere, raccogliere, ma anche togliere, sciogliere, distogliere); ● cuocere (ausil. avere) indicativo pres. cuocio, cuoci, cuoce, cociamo, cocete, cuociono; fut. cocerò; pass. rem. cossi, cocesti; cong. pres. cuocia, cuocia, cuocia, cociamo, cociate, cuociano; cong. imperf. cocessi; cond. cocerei; imp. cuoci, cocete; part. cotto; (ma sono ormai largamente accettate anche le forme cuociamo, cuocete, cuocerò, cuocerei…); ● dolere (ausil. essere) indicativo pres. dolgo, duoli, duole, doliamo o dogliamo, dolete, dolgono; fut. dorrò; pass. rem. dolsi, dolesti; cong. pres. dolga…, doliamo o dogliamo, doliate o dogliate, dolgano; cong. imperf. dolessi; cond. dorrei; imp. duoli, dolete; part. doluto; ● dovere (ausil. avere) indicativo pres. devo o debbo, devi, deve, dobbiamo, dovete, devono o debbono; fut. dovrò; pass. rem. dovetti o dovei, dovesti; cong. pres. debba…, dobbiamo, dobbiate, debbano; cong. imperf. dovessi; cond. dovrei; imp. (mancante); part. dovuto; ● giacere (ausil. essere) indicativo pres. giaccio, giaci, giace, giacciamo, giacete, giacciono; fut. giacerò; pass. rem. giacqui, giacesti; cong. pres. giaccia, giaccia, giaccia, giacciamo, giacciate, giacciano; cong. imperf. giacessi; cond. giacerei; imp. giaci; part. giaciuto; (segue questo modello anche soggiacere; ● godere (ausil. avere) indicativo pres. godo; fut. godrò; pass. rem. godetti o godei, godesti; cong. pres. goda; cong. imperf. godessi; cond.godrei; imp. godi; part. goduto; ● nuocere (ausil. avere) indicativo pres. noccio o nuoccio, nuoci, nuoce, nociamo, nocete, nocciono o nuocciono; fut. nocerò; pass. rem. nocqui, nocesti; cong. pres. noccia, noccia, noccia, nociamo, nociate, nocciano; cong. imperf. nocessi; cond. nocerei; imp. nuoci, nocete; part. nociuto (ma si registrano anche le forme con il dittongo: nuocevo, nuocerò…); ● parere (ausil. essere) indicativo pres. paio, pari, pare, pariamo o paiamo (raro), parete, paiono; fut. parrò; pass. rem. parvi, paresti; cong. pres. paia, paia, paia, paiamo o pariamo, paiate o pariate, paiano; cong. imperf. paressi; cond. parrei; imp. (mancante); part. parso; ● piacere (ausil. essere) indicativo pres. piaccio, piaci, piace, piacciamo, piacete, piacciono; fut. piacerò; pass. rem. piacqui, piacesti; cong. pres. piaccia; cong. imperf. piacessi; cond. piacerei; imp. piaci; part. piaciuto; (seguono questo modello: compiacere e dispiacere); ● potere (ausil. avere) indicativo pres. posso, puoi, può, possiamo, potete, possono; fut. potrò; pass. rem. potei, potesti; cong. pres. possa; cong. imperf. potessi; cond. potrei; imp. (mancante); part. potuto; ● sapere (ausil. avere) indicativo pres. so, sai, sa, sappiamo, sapete, sanno; fut. saprò; pass. rem. seppi, sapesti; cong. pres. sappia; cong. imperf. sapessi; cond. saprei; imp. sappi; part. saputo; ● scegliere (ausil. avere)indicativo pres. scelgo, scegli, sceglie, scegliamo, scegliete, scelgono; fut. sceglierò; pass. rem. scelsi, scegliesti; cong. pres. scelga, scelga, scelga, scegliamo, scegliate, scelgano; cong. imperf. scegliessi; cond. sceglierei; imp. scegli; part. scelto; (segue questo modello anche prescegliere); ● sedere (ausil. essere) indicativo pres. siedo o seggo (raro), siedi, siede, sediamo, sedete, siedono o seggono; fut. sederò o siederò; pass. rem. sedetti o sedei, sedesti; cong. pres. sieda o segga…, sediamo, sediate, siedano o seggano; cong. imperf. sedessi; cond. sederei o siederei; imp. siedi; part. seduto; (seguono questo modello anche: soprassedere e risiedere); ● spegnere (ausil. avere) indicativo pres. spengo, spegni, spegne, spegniamo, spegnete, spengono; fut. spegnerò; pass. rem. spensi, spegnesti; cong. pres. spenga, spenga, spenga, spegniamo, spegniate, spengano; cong. imperf. spegnessi; cond. spegnerei; imp. spegni; part. spento (a volte si mescola con la variante per lo più toscana spengere nelle seguenti forme: indicativo pres. tu spengi, egli spenge, noi spengiamo, voi spengete; fut. spengerò…; pass. rem. tu spengesti, noi spengemmo, voi spengeste; cong. pres. noi spengiamo, voi spengiate); ● tacere (ausil. avere) indicativo pres. taccio, taci, tace, taciamo, tacete, tacciono; fut. tacerò; pass. rem. tacqui, tacesti; cong. pres. taccia, taccia, taccia, tacciamo, taciate, tacciano; cong. imperf. tacesi; cond. tacerei; imp. taci; part. taciuto; ● tenere (ausil. avere) indicativo pres. tengo, tieni, tiene, teniamo, tenete, tengono; fut. terrò; pass. rem. tenni, tenesti; cong. pres. tenga, tenga, tenga, teniamo, teniate, tengano; cong. imperf. tenessi; cond. terrei; imp. tieni; part. tenuto; (seguono questo modello: appartenere, contenere, detenere, ottenere, ritenere, trattenere…); ● valere (ausil. essere) indicativo pres. valgo, vali, vale, valiamo, valete, valgono; fut. varrò; pass. rem. valsi, valesti; cong. pres. valga, valga, valga, valiamo, valiate, valgano; cong. imperf. valessi; cond. varrei; imp. vali; part. valso; (seguono questo modello: equivalere, prevalere, rivalere…); ● vedere (ausil. avere) indicativo pres. vedo o veggo (raro); fut. vedrò; pass. rem. vidi, vedesti; cong. pres. veda; cong. imperf. vedessi; cond. vedrei; imp. vedi; part. veduto o visto; (seguono questo modello alcuni composti come: avvedere, intravedere, rivedere…, tuttavia prevedere e provvedere a volte non si contraggono e mantengono anche le forme prevederò e provvederò, prevederei e provvederei; infine, il part. pass. di provvedere sviluppa due significati differenti a seconda della forma: provveduto e provvisto che significa “fornito”); ● vivere (ausil. essere) indicativo pres. vivo; fut. vivrò; pass. rem. vissi, vivesti; cong. pres. viva; cong. imperf. vivessi; cond. vivrei; imp. vivi; part. vissuto; (seguono questo modello: convivere e sopravvivere); ● volere (ausil. avere) indicativo pres. voglio, vuoi, vuole, vogliamo, volete, vogliono; fut. vorrò; pass. rem. volli, volesti; cong. pres. voglia; cong. imperf. volessi; cond. vorrei; imp. (vogli, disusato) vogliate; part. voluto.
■ Come si coniuga il verbo dare? ■ Perché al passato remoto “dare” diventa tu “desti” con la “e” invece della “a”? ■ Perché nel caso di dare si dice “io diedi” ma nel caso di circon-dare “circondai”? ■ I composti di dare si comportano come il verbo progenitore? ■ Quali sono i composti di “dare”?
Dare (come andare,fareestare) è uno dei pochi verbi irregolari che terminano in –are.
Tra le sue irregolarità c’è il cambio della vocale tematica che passa dalla a alla e in alcune forme con quelle del congiuntivo → desse.
Bisogna però precisare che la coniugazione dei suoi composti non segue il suo modello!
Circondare o estradare sono perciò verbi regolari che seguono il modello dei verbi come amare, e non si comportano come il verbo progenitore: si scrive circondai (e non “circondiedi”) ed estraderò (e non “estradarò”).
Di seguito la coniugazione di dare.
Indicativo
presente
imperfetto
passato remoto
io do
io davo
io diedi (o detti)
tu dai
tu davi
tu desti
egli dà
egli dava
egli diede (o dette)
noi diamo
noi davamo
noi demmo
voi date
voi davate
voi deste
essi danno
essi davano
essi diedero (o dettero)
passato prossimo
trapassato prossimo
trapassato remoto
io ho dato
io avevo dato
io ebbi dato
tu hai dato
tu avevi dato
tu avesti dato
egli ha dato
egli aveva dato
egli ebbe dato
noi abbiamo dato
noi avevamo dato
noi avemmo dato
voi avete dato
voi avevate dato
voi aveste dato
essi hanno dato
essi avevano dato
essi ebbero dato
futuro semplice
futuro anteriore
io darò
io avrò dato
tu darai
tu avrai dato
egli darà
egli avrà dato
noi daremo
noi avremo dato
voi darete
voi avrete dato
essi daranno
essi avranno dato
Congiuntivo
presente
passato
imperfetto
trapassato
che io dia
che io abbia dato
che io dessi
che io avessi dato
che tu dia
che tu abbia dato
che tu dessi
che tu avessi dato
che egli dia
che egli abbia dato
che egli desse
che egli avesse dato
che noi diamo
che noi abbiamo dato
che noi dessimo
che noi avessimo dato
che voi diate
che voi abbiate dato
che voi deste
che voi aveste dato
che essi diano
che essi abbiano dato
che essi dessero
che essi avessero dato
Condizionale
presente
passato
io darei
io avrei dato
tu daresti
tu avresti dato
egli darebbe
egli avrebbe dato
noi daremmo
noi avremmo dato
voi dareste
voi avreste dato
essi darebbero
essi avrebbero dato
Imperativo
(io) …
(tu) da’ (ma si trova anche dà, e la forma dai è diventata un’intercalare)
(egli) dia
(noi) diamo
(voi) diate
(essi) diano
Infinito presente: dare Infinito passato: avere dato Gerundio presente: dando Gerundio passato: avendo dato Participo presente: dante Participio passato: dato.
■ Perché “fare” viene considerato da molte grammatiche tra i verbi della seconda coniugazione? ■ Come si coniuga il verbo fare? ■ Come si comportano i composti di fare? ■ Si dice “io disfo” o “io disfaccio”? ■ Meglio dire “disfacevo” o “disfavo”? ■ Si dice “io soddisfarò” o “io soddisferò”?
Fare (come andare, daree stare) è uno dei pochi verbi irregolari che terminano in –are.
Molte grammatiche, ma non tutte, preferiscono includere fare nei verbi della seconda coniugazione che terminano in -ere, perché è una contrazione del latino facere e nelle sue flessioni si comporta in modo simile.
Al di là dei criteri di classificazione, di seguito è possibile vedere come si coniuga nei tempi semplici (quelli composti si formano regolarmente con l’ausiliare avere).
Seguono la coniugazione di fare anche i composti: assuefare, contraffare, liquefare, rifare, sopraffare…
Tuttavia, mentre si dice comunemente assuefaccio, contraffaccio… (le forme assuefò o contraffò non sono molto in uso), in alcuni casi soddisfare e disfare hanno sviluppato anche forme proprie, per esempio soddisfare al presente fa anche soddisfo, al futuro fa anche soddisferò, al congiuntivo anche soddisfi, al condizionale anche soddisferei. Allo stesso modo disfare all’indicativo presente fa disfo oltre a disfaccio e si sono diffuse forme come disferò, al futuro, o disferei al condizionale (invece di disfarò e disfarei), il che non significa che le forme disfaccio, disfarò e via dicendo siano sbagliate, ma circolano anche altre forme che tendono a distaccarsi dalla regola.
Benché alcune forme come disfavo invece che disfacevo o disfassi invece che disfacessi siano ormai diffuse nel parlato e non solo, non sono molto eleganti ed è meglio usare le forme che seguono la coniugazione di fare.
Coniugazione:
Fare (ausiliario: avere)
Indicativo
presente: io faccio (o fo, raro), tu fai, egli fa, noi facciamo, voi fate, essi fanno;
imperfetto: io facevo, tu facevi, egli faceva, noi facevamo, voi facevate, essi facevano;
passato remoto: io feci, tu facesti, egli fece, noi facemmo, voi faceste, essi fecero;
futuro: io farò, tu farai, egli farà, noi faremo, voi farete, essi faranno.
Congiuntivo
presente: che io faccia, che tu faccia, che egli faccia, che noi facciamo, che voi facciate, che essi facciano;
imperfetto: che io facessi, che tu facessi, che egli facesse, che noi facessimo, che voi faceste, che essi facessero.
Condizionale
presente: io farei, tu faresti, egli farebbe, noi faremmo, voi fareste, essi farebbero.
Imperativo
(io) … (tu) fa (o fa’ e fai), (egli) faccia, (voi) fate, (noi) facciamo, (essi) facciano.
Participiopresente: facente; participio passato: fatto. Gerundio: facendo; infinito: fare
■ Come si coniuga il verbo stare? ■ Perché si dice io “stetti” invece di seguire la radice “stare”? ■ Perché si dice io stetti ma nei composti come prestare si dice io “prestai”? ■ I composti di “stare” si comportano come il verbo progenitore? ■ Quali sono i composti del verbo “stare”?
Stare (come andare, dare efare)è uno dei pochi verbi irregolari che terminano in –are, e tra le sue peculiarità c’è il cambio della vocale tematica da a in e in alcune forme (per es. che egli stesse) .
Bisogna però fare attenzione ai suoi composti che non si comportano in modo irregolare come il verbo progenitore, diventano regolari!
Dunque verbi come prestare, restare, contrastare o sovrastare seguono il paradigma regolare di amare e si dice per esempio sovrastano (e non “sovrastanno”), prestai (e non “prestetti”) e contrasterò (e non “contrastarò”).
Di seguito la coniugazione di stare.
Indicativo
presente
imperfetto
passato remoto
io sto
io stavo
io stetti
tu stai
tu stavi
tu stesti
egli sta
egli stava
egli stette
noi stiamo
noi stavamo
noi stemmo
voi state
voi stavate
voi steste
essi stanno
essi stavano
essi stettero
passato prossimo
trapassato prossimo
trapassato remoto
io sono stato
io ero stato
io fui stato
tu sei stato
tu eri stato
tu fosti stato
egli è stato
egli era stato
egli fu stato
noi siamo stati
noi eravamo stati
noi fummo stati
voi siete stati
voi eravate stati
voi foste stati
essi sono stati
essi erano stati
essi furono stati
futuro semplice
futuro anteriore
io starò
io sarò stato
tu starai
tu sarai stato
egli starà
egli sarà stato
noi staremo
noi saremo stati
voi starete
voi sarete stati
essi staranno
essi saranno stati
Congiuntivo
presente
passato
imperfetto
trapassato
che io stia
che io sia stato
che io stessi
che io fossi stato
che tu stia
che tu sia stato
che tu stessi
che tu fossi stato
che egli stia
che egli sia stato
che egli stesse
che egli fosse stato
che noi stiamo
che noi siamo stati
che noi stessimo
che noi fossimo stati
che voi stiate
che voi siate stati
che voi steste
che voi foste stati
che essi stiano
che essi siano stati
che essi stessero
che essi fossero stati
Condizionale
presente
passato
io starei
io sarei stato
tu staresti
tu saresti stato
egli starebbe
egli sarebbe stato
noi staremmo
noi saremmo stati
voi stareste
voi sareste stati
essi starebbero
essi sarebbero stati
Imperativo
(io) …
(tu) sta (si trovano anche sta’ e stai)
(egli) stia
(noi) stiamo
(voi) state
(essi) stiano
Infinito presente: stare Infinito passato: essere stato Gerundio presente: stando Gerundio passato: essendo stato Participo presente: stante Participio passato: stato.
■ Come si coniuga il verbo andare? ■ La radice di andare è “vad” o “and”? ■ Qual è la tabella con la coniugazione di “andare”?
Andare (come dare, fareestare) è uno dei pochi verbi irregolari che terminano in –are.
La sua irregolarità sta nell’oscillare tra due diverse radici, quella che caratterizza l’infinito (and + are) e quella che si ritrova per esempio nel presente che diventa vado (vad+o, e non ando).
■ Come si
coniugano i verbi regolari in -ire? ■ Perché si dice “io servo”, ma “io finisco”
con l’aggiunta di ISC? ■ Si dice “io inghiotto” o “inghiottisco”? ■ Perché si
dice “obbediente” (con la “i”) ma “apparente” senza “i”? Si dice “dormente” o “dormiente”?
■ Perché patire e sentire diventano paziente e senziente?
I verbi regolari si coniugano tutti allo stesso modo e non presentano difficoltà: cambia la radice di ognuno, ma le desinenze sono le stesse e basta applicarle alla radice in modo “matematico”.
Dunque, i verbi regolari che terminano in –ire, si comportano tutti come il verbo serv-ire che è stato qui scelto come modello (essendo transitivo nei tempi composti vuole l’ausiliare avere, ma se fosse intransitivo potrebbe anche appoggiarsi a essere, es. io sono partito).
Tuttavia, bisogna prestare attenzione a poche considerazioni importanti.
Molti verbi in –ire, anche se per gli altri aspetti sono regolari, rispetto alla coniugazione in tabella inseriscono l’infisso –isc tra la radice e la desinenza nella prima e seconda persona singolare, e nella terza persona singolare e plurale del presente (per esempio sancire, pulire o finire: io finisco, tu finisci, egli finisce, essi finiscono) e dell’imperativo (finisci, finisca, finiscano). Altri conservano entrambe le forme, per esempio inghiotto e inghiottisco, aborro e aborrisco, o mento e mentisco (quest’ultima poco usata, però).
Riparto e ripartisco hanno invece significati diversi, rispettivamente: parto di nuovo e suddivido.
Anche nei participisi può trovare una doppia forma che si alterna, in -iente (per esempio obbediente), ma anche in -ente (apparente). Nel caso di dormire sono consentite entrambe le forme, dormente e dormiente.
In alcuni casi, quando c’è la t a fine radice, si assiste a una trasformazione in z per motivi eufonici, per esempio da consentire e patire derivano consenziente o paziente.
I verbi in –cire, –gire e –scire tendono a mantenere la pronuncia dura davanti ad a, o e u, che si addolcisce con la e e la i (sgualcire: tu sgualcisci, egli sgualcisce, che egli sgualcisca; fuggire: fuggo, fuggi; uscire: esco, esci). Però cucire si coniuga dolce: io cucio, che io cucia.
Di seguito la tabella con la coniugazione dei verbi regolari in –ire.
■ Come si coniugano i verbi regolari in -ere? ■ Al passato remoto si dice io temei ed egli temé o io temetti ed egli temette? ■ Perché si dice io cuocio, ma io giaccio e taccio con due C?
I verbi regolari si coniugano tutti allo stesso modo e non presentano difficoltà: cambia la radice di ognuno, ma le desinenze sono le stesse e basta applicarle alla radice in modo “matematico”.
Dunque, i verbi regolari che terminano in –ere, si comportano tutti come il verbo tem-ere che è stato qui scelto come modello (essendo transitivo nei tempi composti vuole l’ausiliare avere, ma se fosse intransitivo potrebbe anche appoggiarsi a essere).
Tuttavia, bisogna prestare attenzione a poche considerazioni importanti.
Molti verbi della seconda coniugazione, anche regolari, al passato remoto presentano una doppia forma: per esempio io temei, ma anche io temetti, o egli temé, ma anche temette. In caso di dubbi su un verbo preciso, è meglio consultare un dizionario, perché non c’è una regola valida sempre, e nel caso di battere, per esempio, si dice solo io battei (e non “battetti”).
C’è poi il problema dei suoni dolci o duri delle radici dei verbi in –cere, –gere e –scere: mantengono il suono dolce davanti a e e i, che diventa invece duro davanti ad a, o e u; vincere si coniuga dunque in io vinco (suono duro) e tu vinci (suono dolce) e nel caso di vinceranno la i non ci vuole. Lo stesso vale per dirigo e dirigi; conosco, conosci, conosce e conosciamo.
Cuocere e nuocere, e anche i verbi con l’accento sulla desinenza dell’infinito (-cére: tacere, piacere, giacere…) mantengono sempre la c dolce e quindi aggiungono la i davanti alle vocali a, o e u: cuocio, cuociamo, cuoceva. Inoltre, in genere raddoppiano la c davanti alla i, per esempio diventano taccio, nuoccio, piaccio (ma non nel caso di cuocio). Ma stiamo entrando nell’ambito delle forme irregolari che non seguono questo schema regolare di temere.
Di seguito la tabella con la coniugazione dei verbi regolari in –ere.
■ Come si coniugano i verbi regolari in -are? ■ Cosa succede quando un verbo che ha la radice che termina con la “i” incontra le desinenze in “i” come nel caso di “mangi-iare”? ■ Cosa succede quando un verbo che ha la radice che termina con “gn” incontra le desinenze in “i” come nel caso di “sogn-iamo”? ■ Cosa succede quando un verbo che ha la radice che termina con “c” e “g” incontra le desinenze in “i” come nel caso di “rec-h-iamo” e “preg-h-iamo”? ■ Perché si dice tu avvi con due “i” ma tu studi con una sola? ■ Cosa succede quando un verbo che ha la radice che termina con “gli” incontra le desinenze in “i” come nel caso di “pigli-(i)”? ■ I composti dei verbi irregolari “dare” e “stare” si coniugano come il verbo da cui derivano o diventano regolari?
I verbi regolari si coniugano tutti allo stesso modo e non presentano difficoltà: cambia la radice di ognuno, ma le desinenze sono le stesse e basta applicarle alla radice in modo “matematico”.
Dunque, i verbi regolari che terminano in –are, si comportano tutti come il verbo am-are che è stato qui scelto come modello.
L’unica differenza riguarda la formazione dei tempi composti: amare è transitivo e come tutti i transitivi si appoggia all’ausiliario avere(ho amato), ma nel caso dei verbi intransitivi è possibile che si appoggi all’ausiliario essere, per esempio crollare (è crollato).
A parte andare, dare, faree stare, i verbi in –are seguono questo paradigma, con poche eccezioni. Le uniche “irregolarità” che si possono riscontrare riguardano i casi in cui è in gioco la lettera i.
Pregare e recare, per esempio, le cui radici sono preg- e rec-, hanno un suono duro, e per mantenerlo, quando incontrano la desinenza che inizia con la lettera i, necessitano dell’aggiunta di un’acca dopo la c e la g, dunque si dice tu preghi e tu rechi (e non “pregi” e“reci”).
Analogamente, i verbi che hanno una i prima della desinenza -are, come mangi-are, lanci-are o strisci-are, quando incontrano desinenze come -iamo, hanno il problema della doppia i, per cui, per ragioni eufoniche, la doppia i di mangi-iamo si contrae in una sola: mangiamo (lanciamo e strisciamo). Viceversa (ma per lo stesso motivo eufonico) io mangerò e noi mangeremo perdono la i, che diventa superflua (quindi è errato scrivere “mangierò” e “mangieremo”) e lo stesso vale per lancerò, lanceremo, striscerò, striscerete e via dicendo.
La regola si può allora esprimere dicendo che la i della radice si perde davanti a un’altra i, ma anche davanti alla e, ma come sempre ci sono le eccezioni. Per esempio quando c’è il problema dell’accento sulla i: nel caso del verbo avviare, perciò, per mantenere l’accento si dice io avvio e tu avvii (pronuncia: avvìo e avvìi), al contrario di io studio e tu studi. Analogamente, nel caso del verbo pigli-are, per mantenere il fonema gli, la e non cade nelle forme piglierò o piglierai, e si mantiene, mentre cade normalmente nel caso di tu pigli.
I verbi in -gnare, inoltre, conservano la i nella forma -iamo del presente indicativo (noi sogniamo) e nel caso del congiuntivo anche delle forme in -iate (che noi sogniamo e che voi sogniate). Tuttavia, alcune grammatiche ammettono sempre più anche le forme senza i come sognate (ma perlopiù solo nel caso dell’indicativo) che si sono diffuse anche perché di solito la i viene evitata dopo il –gn (anche se c’è chi non concorda e le bolla come errate o poco eleganti).
ATTENZIONE I composti di stare (per esempio prestare, restare, contrastare o sovrastare) non si comportano in modo irregolare come il verbo progenitore, diventano regolari e perciò si dice per esempio sovrastano (e non “sovrastanno”), prestai (e non “prestetti”) e contrasterò (e non “contrastarò”). Lo stesso avviene per i composti di dare, come circondare o estradare: sono regolari e non si comportano come il verbo (irregolare) da cui derivano: si scrive circondai (e non “circondiedi”) ed estraderò (e non “estradarò”).
Di seguito la tabella con la coniugazione dei verbi regolari in –are.
■ Le coniugazioni dei
verbi sono 3? ■ Si possono dividere i verbi in 4 coniugazioni?
■ Che differenza c’è nel classificare i verbi in 3 oppure 4 coniugazioni?
Tradizionalmente i verbi (a parte gli ausiliari essere e avere) si dividono in tre coniugazioni a seconda della desinenza dell’infinito: la prima coniugazione comprende i verbi che terminano in -are (amare), la seconda in -ere (temere), e la terza in –ire (servire) e possono essere regolari (come i paradigmi di questi tre) o presentare delle irregolarità.
Ma va detto
che questo è solo un modo di classificarli, e non è il solo.
Un altro criterio può essere quello di dividerli in quattro tipologie: quelli che terminano in -are (es. amare), quelli in -ere (temere), quelli in –ire (servire) e quelli che terminano in altro modo, per esempio trarre, comporre, tradurre…
A seconda del criterio impiegato si può dire per esempio che dire e fare, che derivano dal latino dicere e facere, appartengono alla seconda coniugazione, come porre, tradurre e simili. Oppure si può dire che questi ultimi si raggruppano a parte, e che fare appartiene alla prima coniugazione (finisce in –are) e si comporta irregolarmente, esattamente come dire che viene classificato nella terza (in –ire).
Insomma: le coniugazioni (che siano 3 o 4) non esistono nella realtà, sono solo degli schemi pratici per classificare e inquadrare le flessioni dei verbi. Alcuni sono regolari: mantengono sempre la stessa radice e le desinenze che si applicano sono sempre le stesse; ma molto spesso sono irregolari, seguono degli schemi diversi, cambiano la radice (and-are→ vad-o), la vocale tematica (d-a-re diventa d-e-sse al congiuntivo) o assumono desinenze non applicabili al modo in cui terminano.
Per semplicità, tratteremo i verbi a seconda delle desinenze dividendoli in quattro categorie, ma la cosa importante non è quella di etichettarli, ma di saperli coniugare correttamente anche quando si comportano irregolarmente.
■ Perché il verbo
avere è un ausiliare? ■ Il verbo avere vive anche autonomamente
o si usa solo per i tempi composti? ■ Quali sono le forme del verbo avere che
prendono l’H? ■ Come si coniuga il verbo avere? ■ Solo i verbi transitivi si
appoggiano all’ausiliario avere? ■ Si dice ho corso o sono corso? ■ Si dice ha piovuto
o è piovuto?
Il verbo avere (insieme al verbo essere) si dice ausiliare perché aiuta (dal latino auxiliaris, “che aiuta”) a comporre i tempi composti di altri verbi.
Però può vivere anche autonomamente:
● ho (= “possiedo”) una casa; ● ho (= “ho preso”) il maglione…
Come ausiliare si unisce a tutti i verbi transitivi (quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”) nel formare i verbi composti delle forme attive, ma può reggere anche vari verbi intransitivi (ho congiurato, ho litigato), e altri che possono avere il doppio ausiliare. Tra questi ci sono quelli che indicano fenomeni atmosferici (piovere, nevicare, grandinare, tuonare, lampeggiare, albeggiare…) per cui si può dire sia ha nevicato sia è nevicato, e altri che si possono usare sia transitivamente sia intransitivamente: ho corso per tutto il tempo e sono corso a casa, ha prevalso e è prevalso, ho vissuto e sono vissuto…
La coniugazione
La coniugazione di avere è irregolare perché cambia la radice e av-ere diventa per esempio ab-bia, e rafforza quattro forme aggiungendo l’acca (ho, ha, hai, hanno).
Di seguito la coniugazione in tutti suoi modi e tempi, fondamentale anche per la formazione dei tempi composti di tutti i verbi che vogliono avere come ausiliare.
Indicativo
presente
imperfetto
passato remoto
io ho
io avevo
io ebbi
tu hai
tu avevi
tu avesti
egli ha
egli aveva
egli ebbe
noi abbiamo
noi avevamo
noi avemmo
voi avete
voi avevate
voi aveste
essi hanno
essi avevano
essi ebbero
passato prossimo
trapassato prossimo
trapassato remoto
io ho avuto
io avevo avuto
io ebbi avuto
tu hai avuto
tu avevi avuto
tu avesti avuto
egli ha avuto
egli aveva avuto
egli ebbe avuto
noi abbiamo avuto
noi avevamo avuto
noi avemmo avuto
voi avete avuto
voi avevate avuto
voi aveste avuto
essi hanno avuto
essi avevano avuto
essi ebbero avuto
futurosemplice
futuroanteriore
io avrò
io avrò avuto
tu avrai
tu avrai avuto
egli avrà
egli avrà avuto
noi avremo
noi avremo avuto
voi avrete
voi avrete avuto
essi avranno
essi avranno avuto
Congiuntivo
presente
passato
imperfetto
trapassato
che io abbia
che io abbia avuto
che io avessi
che io avessi avuto
che tu abbia
che tu abbia avuto
che tu avessi
che tu avessi avuto
che egli abbia
che egli abbia avuto
che egli avesse
che egli avesse avuto
che noi abbiamo
che noi abbiamo avuto
che noi avessimo
che noi avessimo avuto
che voi abbiate
che voi abbiate avuto
che voi aveste
che voi aveste avuto
che essi abbiano
che essi abbiano avuto
che essi avessero
che essi avessero avuto
Condizionale
presente
passato
io avrei
io avrei avuto
tu avresti
tu avresti avuto
egli avrebbe
egli avrebbe avuto
noi avremmo
noi avremmo avuto
voi avreste
voi avreste avuto
essi avrebbero
essi avrebbero avuto
Imperativo
(io) …
(tu) abbi
(egli) abbia
(noi) abbiamo
(voi) abbiate
(essi) abbiano
Infinito presente: avere Infinito passato: avere avuto Gerundio presente: avendo Gerundio passato: avendo avuto Participo presente: avente Participio passato: avuto.
■ Perché il verbo
essere è un ausiliare? ■ Il verbo essere vive anche autonomamente
o si usa solo per i tempi composti? ■ “Sono stato” è una forma del verbo essere
o del verbo stare? ■ Come si coniuga il verbo essere? ■ Solo i verbi
intransitivi si appoggiano all’ausiliario essere? ■ Si dice è prevalso o ha
prevalso? ■ Si dice ha nevicato o è nevicato?
Il verbo essere (insieme al verbo avere) è definito ausiliare perché aiuta (dal latino auxiliaris = “che aiuta”) a comporre i tempi composti di altri verbi.
Però può vivere anche autonomamente con vari significati come esistere, stare(verbo da cui ha preso il participio passato: stato) e altri ancora. Per esempio:
● il cane è (= sta) sul divano; ● la bottiglia è (= è fatta di) di vetro; ● c’è (= esiste) una montagna davanti a noi…
Come verbo ausiliare si usa sempre nella forma passiva possibile solo con i verbi transitivi (la mela èmangiata da Biancaneve) e spesso, ma non sempre, è l’ausiliare di molti verbi intransitivi (quelli che non rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”), per esempio sono andato.
Talvolta, ci sono verbi che possono reggere entrambi gli ausiliari (sono vissuto e ho vissuto, ho corso per tutto il tempo e sono corso a casa, è prevalso e ha prevalso). I verbi che indicano fenomeni atmosferici, per esempio, hanno sempre la particolarità di possedere il doppio ausiliare, per cui è possibile dire è piovuto e ha piovuto, e lo stesso vale per nevicare, grandinare, tuonare, lampeggiare, albeggiare.
La coniugazione
Il verbo essere si può considerare come un verbo irregolare, perché nella sua coniugazione la radice non è sempre la stessa: ess-ere al presente diventa io sono e alla terza persona diventa è rafforzato con l’accento, e per di più nel participio passato diventa stato (si appoggia al verbo stare, dunque e le forme come “sono stato” coincidono). Di seguito la coniugazione in tutti suoi modi e tempi, fondamentale anche per la formazione dei tempi composti di tutti i verbi che vogliono essere come ausiliare.
Indicativo
presente
imperfetto
passato remoto
io sono
io ero
io fui
tu sei
tu eri
tu fosti
egli è
egli era
egli fu
noi siamo
noi eravamo
noi fummo
voi siete
voi eravate
voi foste
essi sono
essi erano
essi furono
passato prossimo
trapassato prossimo
trapassato remoto
io sono stato
io ero stato
io fui stato
tu sei stato
tu eri stato
tu fosti stato
egli è stato
egli era stato
egli fu stato
noi siamo stati
noi eravamo stati
noi fummo stati
voi siete stati
voi eravate stati
voi foste stati
essi sono stati
essi erano stati
essi furono stati
futuro semplice
futuro anteriore
io sarò
io sarò stato
tu sarai
tu sarai stato
egli sarà
egli sarà stato
noi saremo
noi saremo stati
voi sarete
voi sarete stati
essi saranno
essi saranno stati
Congiuntivo
presente
passato
imperfetto
trapassato
che io sia
che io sia stato
che io fossi
che io fossi stato
che tu sia
che tu sia stato
che tu fossi
che tu fossi stato
che egli sia
che egli sia stato
che egli fosse
che egli fosse stato
che noi siamo
che noi siamo stati
che noi fossimo
che noi fossimo stati
che voi siate
che voi siate stati
che voi foste
che voi foste stati
che essi siano
che essi siano stati
che essi fossero
che essi fossero
stati
Condizionale
presente
passato
io sarei
io sarei stato
tu saresti
tu saresti stato
egli sarebbe
egli sarebbe stato
noi saremmo
noi saremmo stati
voi sareste
voi sareste stati
essi sarebbero
essi sarebbero stati
Imperativo
Imperativo
(io) …
(tu) sii
(egli) sia
(noi) siamo
(voi) siate
(essi) siano
Infinito presente: essere Infinito passato: essere stato Gerundio presente: essendo Gerundio passato: essendo stato Participo presente: essente/ente (disusati) Participio passato: stato.
■ Perché si dice che il gerundio è un modo indefinito? ■ Quali sono i tempi del gerundio? ■ “Laureandi” è un gerundio o un sostantivo? ■ Come si può meglio esplicitare una frase come “sbagliando si impara”? ■ Come si concorda il gerundio con il soggetto? ■ Qual è l’errore più diffuso nell’utilizzo del gerundio? ■ Quando si usa il gerundio? ■ Quali sono esempi di frasi con il gerundio? ■ Meglio dire “essendo notte ho dormito” o “poiché era notte ho dormito”?
Il gerundio è un modo indefinito o indeterminato (come l’infinito e il participio), perché non si coniuga con le persone dei verbi (io, tu..).
Ha due tempi: il presente (es. mangiando) che esprime contemporaneità con la principale (mangio/mangiavo/mangerò sedendo a tavola = mentre sono seduto) e il passato (avendo mangiato) che esprime invece anteriorità (mi sento/mi sentivo/mi sentirò sazio, avendo mangiato = dopo aver mangiato).
Talvolta il gerundio presente assume il valore di aggettivo o di sostantivo, per esempio: i laureandi (coloro che si devono laureare), mentre come forma verbale si usa molto spesso davanti al verbo stare, per esempio in locuzioni come: sto arrivando (sto per arrivare) o sto mangiando (in questo momento mangio).
Come forma verbale può esprimere un significato di causa, di
mezzo, di tempo o anche un’ipotesi:
● mangiando in fretta (= poiché mangiava in fretta, casua) si è strozzato; ● sbagliando (= per mezzo degli errori) si impara; ● passeggiando per Roma (= mentre passeggiavo, tempo) ho fatto acquisti; ● progettando il viaggio (= se si progetta, ipotesi) si possono ottimizzare i tempi.
Passando alle questioni di stile, va detto che si tende a evitare il gerundio nella scrittura, perché spesso non è molto elegante ed è preferibile esplicitare il suo significato con locuzioni più chiare e lineari: “Essendo notte, siamo andati a dormire” è un costrutto grammaticalmente corretto, ma è più elegante rendere questa espressione esplicita, per esempio con: “Poiché era notte siamo andati a dormire”.
ATTENZIONE In altri casi il ricorso al gerundio viene fatto spesso in modo errato: uno degli errori più diffusi è quello della mancata concordanza con il soggetto, per esempio:
Maria è arrivata e, scendendo dal treno, ho notato che
aveva una grossa valigia
è un’espressione infelice e da evitare. Cosa significa questa frase? Se il soggetto del gerundio non è espresso, si riferisce automaticamente a quello della principale (io ho notato), dunque scendendo dal treno grammaticalmente si riferisce a me (il soggetto) e non a Maria. Rendendo la frase con una forma esplicita è tutto più chiaro: Maria è arrivata e, mentre scendeva dal treno, ho notato che aveva una grossa valigia. Perciò, se a scendere dal treno non sono io, ma Maria, bisogna usare la forma esplicita, oppure specificare il soggetto più chiaramente: Maria è arrivata e, scendendo lei dal treno, ho notato che aveva una grossa valigia. Ma questa seconda forma non è molto elegante, rispetto a quella esplicita più lineare e discorsiva.
■ Perché si dice “mi hai portato la cartella”, ma “me l’hai portata (femminile), la cartella”? ■ Meglio dire l’urlo ci ha spaventato o ci ha spaventati? ■ Perché si dice la gatta è andata (femminile) ma la gatta ha mangiato? ■ Quali sono esempi di frasi con il participio passato concordato con il nome di riferimento?
Di solito, quando il participio passato è usato come attributo (aggettivo) o predicato (verbo) con l’ausiliario essere concorda con il nome a cui si riferisce per genere e numero (è andata, siamo andati); rimane invece invariato in presenza di avere (ho mangiato, abbiamomangiato).
Ma non è sempre così, e in alcuni contesti questa tendenza non viene necessariamente rispettata.
Bisogna fare attenzione quando ci sono alcune particelle pronominali e anche al costrutto della frase (la posizione del participio può cambiare le cose).
Per
esempio diciamo:
●
mi hai consegnato la cartella? (senza concordanza di genere)
ma davanti alla particella me si usa dire:
● me l’hai portata la cartella? (concordato al femminile).
Inoltre, il participio si concorda con il complemento oggetto quando precede il verbo, per cui diciamo:
● hai comprato le caramelle? (il participio è prima del complemento oggetto e non si concorda) ● certo, le ho comprate e le ho mangiate! (il participio è dopo il complemento oggetto e si concorda)
In altri casi, quando il participio si può concordare logicamente sia con il soggetto sia con l’oggetto, si può dire in due modi:
● l’urlo ci ha spaventati (concordato con l’oggetto = noi) ma anche: ● l’urlo ci ha spaventato (concordato con il soggetto = l’urlo), anche se questa seconda forma è meno usata.
In sintesi, per le concordanze del participio non esistono delle regole rigide, e la questione si può riassumere con un prospetto che però non va inteso come una serie di regole da imparare a memoria (sarebbe complicato), ma come una serie di esempi e di paradigmi che servono poi per andare a orecchio e a istinto.
Il participio passato non si accorda con il soggetto ma rimane invariato (al maschile singolare):
● con i verbi transitivi nella forma attiva: la gatta (o il gatto) ha mangiato; le gatte (o i gatti) hanno mangiato; ● con i verbi transitivi se l’ausiliare è avere: la gatta (o il gatto) ha dormito; le gatte (o i gatti) hanno dormito.
Si accorda con il soggetto:
● con i verbi intransitivi se l’ausiliario è essere: il cane è arrivato; la gatta è arrivata; i cani sono arrivati; le gatte sono arrivate; ● con i verbi riflessivi: il gatto si è lavato; la gatta si è lavata; i gatti si sono lavati; le gatte si sono lavate; ● con i verbi al passivo: il gatto è pettinato; la gatta è pettinata; i gatti sono pettinati; le gatte sono pettinate.
Non si accorda con l’oggetto e rimane di solito invariato:
● quando c’è un complemento oggetto, se il participio precede il verbo: ho letto un libro/i libri/una rivista/le riviste; ● se il participio segue il verbo con il pronome relativo: il giornale/i giornali/la rivista/le riviste che ho letto (ma in questo caso si può dire anche le riviste che ho lette, la rivista che ho letta e i giornali che ho letti, anche se non è molto in uso).
Si accorda con l’oggetto:
● quando il complemento oggetto precede il verbo: quel gatto l’ho visto ieri; quei gatti li ho visti ieri; quelle gatte le ho viste ieri; quella gatta l’ho vista ieri; ● in presenza di alcune particelle pronominali (mi, ti, ci, si, vi, ma anche lo, la, li, le): l’urlo mi ha spaventato (dice Marco), l’urlo mi ha spaventata (dice Laura); l’urlo ci ha spaventate (dicono Laura e Silvia); l’urlo ci ha spaventati (dicono Marco e Claudio); ma in questo caso tutti possono anche dire senza sbagliare: “Ci ha spaventato”.
■ Perché il
participio è un modo indeterminato? ■ Quali sono i tempi del participio? ■
Perché si dice i bambinisono andati (participio plurale) ma i bambini hanno mangiato (participio
singolare)? ■ Il participio è solo una forma verbale? ■ Amante è un sostantivo o un participio presente?
Il participio è un modo indefinito o indeterminato (come l’infinito e il gerundio) perché non ha una persona di riferimento, anche se nel passato si può concordare nel genere e nel numero in alcuni casi.
Ha due tempi:
● il presente, per esempio amante, cioè “colui che ama”, ● e il passato, per esempio amato, che si usa nei tempi composti dei verbi appoggiandosi agli ausiliari avere o essere: ho mangiato, sono andato.
Quando il participio passato forma i tempi composti con l’ausiliare essere, di solito concorda con il nome a cui si riferisce per genere e numero, per esempio:
● il bambino è andato dalla mamma; ● la bambina è andata; ● i bambini sono andati; ● le bambine sono andate.
Ciò vale anche per le forme passive: ● il melone è mangiato; ● i meloni sono mangiati; ● la mela è mangiata; ● le mele sono mangiate.
Con l’ausiliare avere rimane invece invariato:
● il cane ha mangiato; ● i cani hanno mangiato; ● la gatta ha mangiato; ● le gatte hanno mangiato.
Un participio, preso da solo, non è solo un verbo, diventa anche nome o aggettivo: passante (cioè “colui che passa”) è anche una persona che transita, oppure un passante ferroviario, così come un colorante (ciò che colora) può essere una vernice. Lo stesso vale per il participio passato: il passato è ciò che è già trascorso, e colorato è anche un aggettivo.
■ Perché l’infinito è un modo indeterminato? ■ Quali sono i tempi dell’infinito? ■ Quando si può usare l’infinito al posto dell’imperativo? ■ Quali sono esempi di frasi con l’infinito negativo al posto dell’imperativo? ■ Quali sono esempi di frasi con l’infinito presente? ■ Quali sono esempi di frasi con l’infinito passato?
L’infinito è un modo indefinito o indeterminato (come il participio e il gerundio), e cioè non ha una persona di riferimento.
I suoi tempi sono due: il presente (es. mangiare), che è la forma del verbo che rappresenta il lemma o la voce riportata nei dizionari come paradigma, e il passato (avere mangiato) che è composto dall’ausiliare (essere o avere) e dal participio passato.
Nelle frasi dipendenti questi tempi si concordano con quelli
della principale a seconda della contemporaneità o posteriorità dell’azione, e
l’infinito presente si trova in
espressioni come:
● credo di mangiare sano (contemporaneità nel presente); ● credevo di mangiare sano (contemporaneità nel passato); ● spero di arrivare puntuale (posteriorità rispetto al presente); ● speravo di arrivare puntuale (posteriorità rispetto al passato).
L’infinito passato si trova invece in espressioni come:
● credo (adesso) di aver mangiato sano (prima); ● spero di essere arrivato puntuale (poco fa).
Nelle frasi negative l’infinito presente viene usato come imperativo: non fumare, e può avere lo stesso valore anche in locuzioni indeterminate come lasciare libero il passaggio, rifare la camera.
■ Cos’è il modo imperativo? ■ Come si coniuga l’imperativo? ■ Perché non c’è la prima persona del modo imperativo? ■ Si può usare l’indicativo futuro al posto dell’imperativo? ■ Che differenza c’è tra “vada” congiuntivo e “vada” imperativo? ■ Nelle frasi negative si può usare l’infinito al posto dell’imperativo (es. non fare!)? ■ Nei verbi come andare, fare, stare, dare e dire l’imperativo si scrive con l’apostrofo (da’, fa’, sta’…)? ■ Perché nei composti di dire si dice per esempio benediceva, ma all’imperativo diventa “benedici” invece di “benedi’”? ■ Quali sono esempi di frasi con l’imperativo?
Il modoimperativo si usa per esprimere ordini o per esortare (seguimi!), e ha solo un tempo: il presente (avrebbe poco senso impartire degli ordini che riguardano il passato).
Poiché un comando può riguardare non solo un’azione immediata (alzati subito) ma può riferirsi a qualcosa che si dovrà svolgere in futuro (parti domani!), è possibile utilizzare con lo stesso valore anche l’indicativo futuro (partiraidomani! che si può alternare a parti domani!).
La coniugazione dell’imperativo presenta alcune anomalie. Per prima cosa non possiede la prima persona singolare: ha poco senso anche ordinare qualcosa a sé stessi e quando lo si fa di solito si usa la seconda persona, es.: “Corri! Ripeteva a sé stesso” (dunque ci si può esortare da soli dicendo: mangia!, ma non: “mangio!”). Negli ordini rivolti alla prima persona plurale (noi) e anche alla terza persona singolare e plurale (egli, essi) coincide con il congiuntivo presente: partiamo! (noi); esca! (egli); vadano (essi).
Infine, per esprimere un comando al negativo, nella seconda persona singolare (tu) l’imperativo si forma usando non seguito dal verbo all’infinito: non mangiare! (tu).
Nella tabella che segue: la coniugazione dell’imperativo degli ausiliari essere e avere e il paradigma dei verbi regolari in –are, –ere e –ire.
essere
avere
amare
temere
servire
(io) …
(io) …
(io) …
(io) …
(io) …
(tu) sii
(tu) abbi
(tu) am-a
(tu) tem-i
(tu) serv-i
(egli) sia
(egli) abbia
(egli) am-i
(egli) tem-a
(egli) serv-a
(noi) siamo
(noi) abbiano
(noi) am-iamo
(noi) tem-iamo
(noi) serv-iamo
(voi) siate
(voi) abbiate
(voi) am-ate
(voi) tem-ete
(voi) serv-ite
(essi) siano
(essi) abbiano
(essi) am-ino
(essi) tem-ano
(essi) serv-ano
Nel caso dei verbi come andare,dare, fare e stare la seconda persona dell’imperativo è di solito tronca (cade la i finale) e dunque si scrive con l’apostrofova’, da’ (ma circola anche dà), fa’ esta’ (e non vai, fai, stai, mentre dai è diventato un’intercalare esortativo quando si dà del tu):
esempio: va’ di là, fa’ presto, da’ qui, sta’ fermo.
Anche l’imperativo di dire è tronco: di’, ma mentre i suoi composti seguono sempre la coniugazione del verbo progenitore (e benediceva è la forma più corretta rispetto a benediva, perché segue il modello “diceva”) l’unica eccezione è che all’imperativo non vale, e nel caso di benedire si dice benedici senza troncamento (e non benedi’), così come si dice: contraddici, disdici, maledici, predici, ridici…
■ Perché si dice “voglio che sia” ma “vorrei che fosse”? ■ Si può dire “desidererei che sia”? ■ Meglio dire “mi piacerebbe che sia”
o “mi piacerebbe che fosse”?
Quando si usa il congiuntivo, per esprimere la contemporaneità nel presente con la principale si usa di solito il congiuntivo presente, per esempio:
● immagino che tu sappia ● voglio che sia.
Ma quando nella principale c’è un condizionale (e non un indicativo) di un verbo di volontà o desiderio, per esprimere la contemporaneità nel presente non si usa il congiuntivo presente, ma il congiuntivo imperfetto.
Dunque si dice:
vorrei che tu fossi
e non:
vorrei che tu sia.
Riassumendo: si dice voglio che sia, ma vorrei che fosse, come cantava Mina.
■ Perché si dice “so che è” ma “non so se sia””? ■ Perché si dice “sono sicuro che è” ma “non sono sicuro che sia”? ■ Meglio dire “non ti ho raccontato perché ha fatto tardi” o “non ti ho raccontato perché abbia fatto tardi”?
L’indicativo si usa per esprimere certezze e il congiuntivo è invece più adatto per esprimere il mondo della possibilità, dunque davanti a verbi come dire, affermare, constatare, dichiarare, vedere, sentire, accorgersi, scoprire, spiegare… seguiti da che si usa sempre l’indicativo:
● ho visto e sentito che Marco ha fatto un tuffo ●ti ho detto che ho preso il tram ●si è accorto che era in ritardo…
Tuttavia, in alcuni casi, si può usare il congiuntivo in presenza di una negazione che cambia le cose, per esempio:
so che ha (e mai abbia) un vestito
nuovo
al negativo si può esprimere preferibilmente con:
non sose abbia un vestito nuovo (è più corretto ed elegante di non so se ha un vestito nuovo).
In questo costrutto il che si trasforma in se, e il verbo sapere, al negativo, perde la sua oggettività e si trasforma in un verbo che esprime un’incertezza. Lo stesso vale per un’espressione come:
sono sicuro che ti sei sbagliato
che al negativo si può rendere meglio con:
non sono sicuroche ti sia sbagliato.
Ciò non vale solo per le frasi introdotte da che, ma anche da altre congiunzioni, per esempio:
●ti ho raccontato perché ho deciso di non andare al lavoro ●non ti ho raccontato perché avessi deciso/hodeciso di non andare al lavoro.
La scelta del congiuntivo in questi casi non è obbligatoria, ma più elegante.
■ Si dice “penso che è” o “penso che sia”? ■ Quando si usa il congiuntivo e quando l’indicativo? ■ Perché si dice “ho notato che è”
ma “dubito che sia? ■ Perché si dice “sono partito dopo che è arrivato” ma “sono partito prima che arrivasse? ■ Perché si dice “mi tira la palla perché sono vicino” ma “mi tira la palla perché
io faccia canestro?
Si può dire in tutti e due i modi. E poiché il congiuntivo è soprattutto il modo verbale indicato per l’incertezza, la possibilità e l’impossibilità, la prima frase esprime un dubbio (lascia intendere che potrei sbagliarmi e che potrebbe non essere così), mentre la seconda è perentoria e lascia intendere che è di scuro così come penso (penso = è vero, è senza dubbio così).
Per fugare un po’ di dubbi e incertezze su quando usare il congiuntivo e quando usare l’indicativo si possono prendere in considerazione le seguenti frasi:
ho notato → chesei furbo
dubito → che tu sia furbo
mangia → quando ha fame
mangia → primachepassi la fame
mi tira la palla → perché vuole giocare
mi tira → la palla perché io faccia gol
Anche se la struttura di queste frasi è molto simile, negli esempi a sinistra le frasi dipendenti dalla principale (quelle dopo la freccia) sono espresse obbligatoriamente con il modo indicativo, negli altri tre di destra è invece obbligatorio l’uso del congiuntivo.
La scelta del modo corretto a seconda dei casi, semplificando, dipende da almeno tre fattori:
● dal tipo di verbo della reggente che può esprimere oggettività o certezza (indicativo), oppure dubbio, possibilità o convinzione soggettiva (congiuntivo); ● daltipo di frase dipendente (causale, temporale, finale…); ● dallecongiunzioni che legano la dipendente con la principale (quando, perché…).
Poiché l’indicativo è il modo della certezza e dell’oggettività, e il congiuntivo della possibilità, dell’impossibilità e della soggettività (volontà, desiderio, sentimenti personali), si dice:
ho notato chesei bravo, ma dubito che tu sia bravo.
Anche il tipo di frase dipendente aiuta a capire quale modo usare, e le frasi temporali (quelle che rispondono alla domanda: “Quando?”) di solito vogliono l’indicativo (parti quando sei pronto) a meno che non siano introdotte dall’espressione “prima che” che vuole obbligatoriamente il congiuntivo: parto (quando?)primachesia tardi (dunque: “Sono partito dopo che è arrivato” ma “sono partito prima che arrivasse).
Nell’ultimo esempio del nostro elenco, infine, la scelta di indicativo o congiuntivo dipende dal significato di perché: nel primo caso esprime una causa e introduce una frase dipendente causale (mi tira la palla → perché vuole giocare) che vuole l’indicativo; nel secondo caso è sostituibile da affinché (= allo scopo di, al fine di) ed esprime una dipendente finale che vuole il congiuntivo: mi tira la palla → perché(= affinché) io faccia canestro.
■ È vero che non si può
MAI dire “se sarebbe”? ■ Nelle ipotesi si può dire “se sarebbe”? ■ Nelle interrogative indirette (mi domando se…) si può dire “se
sarebbe”? ■ Nelle frasi concessive introdotte da “anche
se…” si può dire “se sarebbe”?
Nelle ipotesi, cioè nei periodi ipotetici, non si può mai e poi mai usare il se + condizionale (se sarebbe), è uno degli errori più diffusi da evitare. Si dice:
se fosse vero (e mai se sarebbe vero) sarebbe bello; se potessi (e mai se potrei) lo farei; se venisse (e mai se verrebbe) vedrebbe con i suoi occhi.
In questi casi il condizionale si usa nella principale (sarebbe bello), mentre l’ipotesi si formula sempre con se + congiuntivo.
Tuttavia, fuori dai periodi ipotetici e dalle ipotesi, seseguito dal condizionale è corretto nelle frasi concessive perlopiù davanti all’espressione “anche se”, per esempio:
anche se sarebbe giusto fare una pausa, continuiamo! anche se potrebbe funzionare, meglio non perderci tempo. anche se avrebbe potuto evitare quell’errore, non ci ha pensato…
Si può usare anche nelle interrogative indirette:
mi chiedo se sarebbe giusto… non so se potrebbe andare bene… mi domando se sarebbe opportuno…
■ Cosa sono le frasi condizionali? ■ Cosa sono la protasi e l’apodosi? ■ Cosa sono i periodi ipotetici? ■ Cos’è il periodo ipotetico della realtà? ■ Cos’è il periodo ipotetico della possibilità? ■ Cos’è il periodo ipotetico dell’impossibilità? ■ Come si combina il condizionale con il congiuntivo nei periodi ipotetici? ■ Quali sono esempi di frasi con periodi ipotetici?
Il condizionale si impiega soprattutto nelle ipotesi, e il suo nome deriva proprio dal fatto che è un modo per esprimere una conseguenza che si verifica solo a certe condizioni:
volerei (conseguenza) → se (= a condizione che) fossi un gabbiano.
Il più delle volte la condizione è espressa da se, ma non necessariamente, a volte può essere espressa anche da che, qualora, laddove, caso mai, semmai, purché, nell’eventualità di, nell’ipotesi che, a patto che, a condizione che, ammesso che…
Per esempio: ● vorresti una casa che (= se) non avesse il balcone? ● Perdoneresti un amico qualora (= se) ti tradisse? ● Mangerei qualunque cosa purché (= se) non contenesse carne. ● Ti aiuterei laddove (= se) ci fosse la necessità.
Questo tipo di frasi si chiamano condizionali e sono formate da un’ipotesi (in grammatica si chiama protasi) e da una conseguenza (detta apodosi). Molto spesso la condizione introdotta da se (o dalle altre parole) precede l’ipotesi (se potessi → andrei in vacanza), ma non sempre (si può anche dire: andrei in vacanza → se potessi).
Queste frasi ipotetiche, che prendono il nome di periodi ipotetici, richiedono il condizionale (nella principale) associato al congiuntivo (nella subordonata) solo quando esprimono qualcosa di possibile o di impossibile, mentre quando l’ipotesi è certa si formulano con l’indicativo, per esempio:
● se metti la cravatta sei elegante (o se continua a piovere rimango a casa) esprime qualcosa dato come certo (periodo ipotetico della realtà → indicativo + indicativo);
● se mettessi la cravatta sarestielegante (o se continuasse a piovere rimarrei in casa) esprime invece qualcosa dato come possibile (potrebbe anche non accadere: periodo ipotetico della possibilità → condizionale + congiuntivo);
● se avessi messo la cravatta sarestielegante (o se avesse continuato a piovere sarei rimasto in casa) esprime infine qualcosa di impossibile (dato che non è accaduto: periodo ipotetico dell’impossibilità → condizionale + congiuntivo).
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