E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche

■ Cosa sono le “d eufoniche”? ■ Quando si usano le “d eufoniche”? ■ Meglio dire “e adesso” o “ed adesso”? ■ Meglio dire “e editoria” o “ed editoria”? ■ Meglio dire “per esempio” o “ad esempio”? ■ Meglio dire “a uno a uno” o “ad uno ad uno”? ■ Si può scrivere “ed” davanti a una vocale diversa dalla “e”? ■ Si può scrivere “ad” davanti a una vocale diversa dalla “a”? ■ Si può scrivere “od” davanti a una parola che comincia con “o”?

Le “d eufoniche” si appongono davanti alla preposizione “a” e alle congiunzioni “e” e “o” per evitare che l’incontro con una parola che comincia con vocale abbia una difficoltà di pronuncia e suoni male.

Un tempo erano molto diffuse davanti a qualunque vocale, ma oggi la forma “od” è praticamente decaduta (si tende a non usarla più nell’editoria) e nel caso di “ad” e “edsi usano solo ed esclusivamente davanti alla stessa vocale, dunque si scrive “ed era”, “foglie ed erba”, “ad avere”, “ad  amici”, ma mai “ed ovviamente”, “ed adesso”, “ad uno”…

Le norme editoriali di tutte le case editrici seguono questa regola (e i correttori bozze passano la vita a togliere le “d eufoniche”) dunque è bene seguire questa norma. Non sono grammaticalmente errate, sono però di cattivo gusto e sono il segno di uno scrivere non professionale.

In alcuni casi si possono evitare anche davanti alla stessa vocale, per esempio quando creano bisticci più fastidiosi dell’incontro con la stessa vocale: meglio scrivere “le regole grammaticali e editoriali” invece di “ed editoriali”.


L’unica eccezione a questa regola riguarda poche locuzioni ormai entrate nell’uso come frasi fatte: “ad esempio” che convive accanto alla forma equivalente “per esempio” (non si può scrivere “a esempio”), oppure “ad ogni modo” o “ad eccezione di”.

Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?

■ Meglio dire “sia… sia” o “sia… che”? ■ Meglio dire “a poco a poco” o “poco a poco”? ■ Meglio dire “a mano a mano” o “mano a mano”? ■ Meglio dire “a mano a mano” o “man mano”? ■ Meglio dire “a faccia a faccia” o “faccia a faccia”? ■ Meglio dire “a corpo a corpo” o “corpo a corpo”? ■ Perché è meglio dire “sia… sia” invece di usare come secondo elemento “che”?

Il costrutto “sia… che” (es. “è sia buono che bello”) è molto diffuso anche sui giornali, al punto che è ormai accettato e inarginabile. Tuttavia, nelle norme editoriali di molte case editrici, e soprattutto in un buon italiano non popolare, è da evitare.

La forma più corretta è “sia… sia” (“è sia buono sia bello”), perché si tratta della ripetizione della stessa congiunzione correlativa, che non ha ragione di essere sostituita da “che” nel secondo elemento.

Il consiglio di stile è perciò di evitare sempre “sia… che”.

L’origine di questo costrutto è da ricercarsi nel congiuntivo di comando del verbo essere: sia così e sia in altro modo.

In linea di massima, anche negli altri costrutti correlativi come a mano a mano, a poco a poco, a uno a uno, sono sempre da evitare le forme abbreviate come poco a poco o mano a mano (si può invece dire correttamente man mano, se si vuole essere più sintetici). Anche a corpo a corpo o a faccia a faccia sono consigliabili rispetto alle locuzioni corpo a corpo o faccia a faccia, ma sono così diffuse, che è sempre più difficile ricorrere ai costrutti più corretti, e in televisione dominano ormai i “faccia a faccia” senza alternative.

Le norme editoriali

■ Cos’è l’ortografia. ■ Cosa sono le norme editoriali. ■ Cos’è il lessico.

Le norme editoriali, quelle che servono per scrivere professionalmente, coincidono solo in parte con l’ortografia, e cioè la scrittura in un italiano corretto, e abbracciano altri temi che sfiorano anche la tipografia e la grafica.

I caratteri della tastiera sono lo strumento di lavoro e bisogna sapere che sono ben di più di quelli dell’alfabeto. Includono segni come il cancelletto (#) o la chiocciola (@) che si affiancano a quelli più tradizionali come per esempio il simbolo del paragrafo (§) o le losanghe (♦). È importante conoscere il significato anche di molti altri caratteri non presenti sulla tastiera a cominciare da simboli come il copyright (©) per finire con le lettere di alfabeti stranieri a cui talvolta si deve ricorrere con precisione (ñ, α, ü…).
Sono poi necessarie molte cognizioni che riguardano l’uso del corsivo o del neretto, le norme per le citazioni bibliografiche, la giustificazione di un testo, la scelta dei caratteri di volta in volta più adatti (con le grazie come il Times New Roman o il Garamond, e senza grazie come l’Arial e il Verdana) e del loro corpo…
Bisogna saper padroneggiare a fondo per esempio l’associazione della virgola con le le virgolette all’interno di una citazione (quando si mette prima della chiusura delle virgolette e quando dopo?) o con le parentesi (quando occorre, meglio mettere la virgola prima o dopo le parentesi?). E ancora, dopo il punto interrogativo quando si può procedere con la minuscola? Come si scrivono le sigle (maiuscole, minuscole, con i punti di abbreviazione o senza)?

In altri casi entrano in gioco anche altri fattori qualitativi, non basta conoscere le regole ortografiche della punteggiatura, bisogna anche saper usare le virgole e i punti con maestria.

Di seguito un indice degli articoli più significativi su questi temi che riassumono le più importanti norme dell’editoria.


L’alfabeto e il falso mito delle lettere straniere
Le regole per combinare le lettere nella formazione delle parole
Divisione in sillabe
Gli accenti grafici
Apostrofo: elisione e troncamento
Apostrofo e accento sono segni diversi da non confondere
→ La punteggiatura
Il punto fermo
La virgola
Il punto e virgola
I due punti
Il punto di domanda
Il punto esclamativo
I puntini di sospensione
Le virgolette
Il trattino (o lineetta) corto e lungo
Le parentesi
La sbarretta (in inglese slash)
L’asterisco
Maiuscole e minuscole
I caratteri della tastiera
Caratteri speciali, simboli e faccine
E/ed, a/ad, o/od: quando usare le D eufoniche
Sia… sia O sia… che? A mano a mano O mano a mano?
La giustificazione di un testo
La fonte (font) e il corpo di un testo
Lo stile di un testo e l’uso del corsivo
→ Sigle e acronimi

Sigle e acronimi

■ Le sigle si scrivono tutte in maiuscolo? ■ Le sigle si scrivono con i punti di abbreviazione tra le lettere o meglio ometterli? ■ Quando scrivere le sigle solo con l’iniziale maiuscola? ■ Le sigle si possono scrivere tutte in minuscolo? ■ Che differenza c’è tra sigle e acronimi?  ■ Come si pronunciano le sigle? ■ Ci sono delle regole per stabilire se una sigla è di genere maschile o femminile? ■ Le abbreviazioni di avanti e dopo Cristo, si scrivono attaccate (a.C. e d.C.) o con lo spazio? ■ Cosa significano Ndr, Ndt e Nda?

Un tempo si tendeva a scrivere le sigle non solo tutte in maiuscolo, ma addirittura con i punti di abbreviazione per ogni lettera, ma questa consuetudine è caduta in disuso: una parola in maiuscolo all’interno di un testo spicca sul resto in modo pesante, se poi fosse spaziata e infarcita di punti, apparirebbe davvero mostruosa “bucando” la pagina al primo sguardo (es. S.M.S.). Dunque attualmente non bisogna usare il punto che si usa per le abbreviazioni, per esempio a.C e d.C. (cioè avanti Cristo e dopo Cristo, che si scrivono senza gli spazi).

Il genere delle sigle: maschili o femminili?

Le sigle o acronimi, sono formati dalle iniziali di più parole: la SIAE, (Società Italiana Autori ed Editori) che si riporta al femminile sottintendendo il significato esteso, così come si dice l’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) e gli USA (in italiano Stati Uniti d’America, ma l’acronimo deriva dall’inglese United States of America). Tuttavia, altre volte il loro genere, maschile o femminile, non segue questa regola e per esempio si parla di Aids al maschile anche se sarebbe la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita. In altri casi si assiste a delle oscillazioni, per esempio il (o la) Tav (lett. Treno ad Alta Velocità, dunque al maschile logicamente, ma sentito spesso come equivalente di linea ad alta velocità).

La pronuncia delle sigle

Alcune volte si possono pronunciare senza problemi, così come si scrivono, per esempio l’Avis (Associazione Volontari Italiani del Sangue), mentre altre volte si devono scandire lettera per lettera, e in questi casi si tendono ad apostrofare anche se iniziano per conosonante perché si segue la loro pronuncia, per esempio l’Fbi o l’Html.

Sigle o acronimi?

La sottile differenza tra sigle e acronimi, secondo alcuni, sta nel fatto che le prime sono formate dalle semplici iniziali delle parole, e non è detto che si possano sempre leggere come una parola, a volte si scandiscono lettera per lettera perché sarebbero impronunciabili, come nel caso di CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), mentre gli acronimi costituiscono di solito una parola pronunciabile come si scrive (es. RAI) e possono anche essere parole formate da elementi diversi dalle semplici iniziali, per esempio radar (dall’inglese RAdio Detection And Ranging). Tuttavia in linguistica questa distinzione non viene fatta.

Tutte in maiuscolo o solo l’iniziale?

Rimane aperto il problema di come scrivere le sigle, tutte in maiuscolo o solo con l’iniziale?

Secondo una normativa (UNI 7413, Acronimi, grafia e impiego, 1975) andrebbero scritte in maiuscolo, senza spazi tra le lettere e punti di abbreviazione. Ma questa prescrizione è un po’ datata e questa tendenza è sempre più in disuso.

Il consiglio che riportano tutti i manuali e le norme editoriali dei principali editori è di trattare le sigle più diffuse ed entrate nel linguaggio corrente come parole normali che si possono scrivere solo con l’iniziale maiuscola, per esempio Unesco, Fiat, Rai e via dicendo, o anche completamente minuscole nel caso di sigle entrate nel linguaggio comune come cd, sms, tv, pc o ufo e laser, così diffuse che si è perso l’etimo della sigla (rispettivamente Unidentified Flying Object e Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation). E proprio tra le sigle editoriali capita di trovarle con la prima maiuscola (es. Ndr = nota del redattore), tutte in minuscolo (nda = nota dell’autore) e anche con i punti (N.d.T. = nota del traduttore).

Comunque, la scelta di scriverle tutte in maiuscolo è possibile (dunque si trovano esempi di HTML, Html e html a proposito del famoso codice delle pagine web) ed consigliabile per le sigle tecniche o di settore che non sono note a tutti, e in questi casi è buona norma affiancarle, tra parentesi, con la dicitura completa, per essere più chiari.

Lo stile di un testo e l’uso del corsivo

■ Cos’è il “rotondo” in tipografia? ■ Che differenza c’è grassetto e neretto? ■ Per evidenziare una parola è meglio il grassetto o il corsivo? ■ Quando è obbligatorio l’uso del corsivo? ■ Per citare il capitolo di un libro o un articolo di giornale si usa il corsivo? ■ Per le citazioni meglio usare il corsivo o le virgolette? ■ Si può usare il sottolineato per evidenziare le parole? ■ Si può usare il corsivo e il neretto sulla stessa parola? ■ Che differenza c’è tra maiuscolo e maiuscoletto?

A proposito di caratteri e fonti, lo stile di un testo non si riferisce al modo di scrivere in senso figurato (stile giornalistico, poetico…), ma al modo di scrivere in senso tipografico. Ogni tipologia di carattere presenta diversi stili possibili e cioè delle diverse forme per la stessa fonte: il carattere normale, detto rotondo, può diventare corsivo o grassetto (detto anche neretto).

Esiste anche il sottolineato, ma non è molto elegante e nei libri non si utilizza: per evidenziare le parole si usano solo il neretto o il corsivo.

A loro volta questi stili possiedono il maiuscolo, oltre al minuscolo, ma scrivere in maiuscolo per evidenziare una parola in una pagina non si usa mai nei libri (“buca” il testo in modo sgraziato), si tende ad evitarlo persino nelle sigle e addirittura nei titoli, dove si preferisce il minuscolo con un corpo grande in neretto.

Quando non si può fare a meno del maiuscolo è preferibile scegliere il maiuscoletto, che mantiene la differenza tra maiuscole e minuscole, ed è più aggraziato, se si vuole introdurre in qualche titolo.

Di solito il neretto si impiega per i titoli di paragrafi e sezioni, oppure all’interno del testo per evidenziare dei concetti o delle parole in modo forte e marcato. È questa la scelta più adatta.

Anche il corsivo – detto talvolta italico perché fu disegnato dal tipografo Aldo Manuzio – serve per dare risalto alle parole, ma in modo più discreto del neretto. Si può usare per esempio per riportare delle parole straniere, ma è una scelta dell’autore, non è obbligatorio, mentre si usa obbligatoriamente per indicare le parole e espressioni latine (es. l’incipit di un libro) a meno che non siano così diffuse da essere assimilate alla stregua delle parole italiane (dunque si può anche scrivere virus, referendum o album in rotondo, ma si scrive dulcis in fundo).

Talvolta il corsivo può essere usato, un po’ come le virgolette, per dare risalto a una parola o al suo suono più che al significato:

● la parola francese stage significa “tirocinio”;
● la lettera n non si impiega prima della b e viene spesso sostituita con la m (imbuto);
● nella Divina Commedia il termine Italia ricorre 11 volte.

Naturalmente il corsivo, il neretto, il maiuscolo… si possono incrociare tra loro. Se è da evitare il maiuscolo come scelta tipografica a maggior ragione è da evitare il maiuscolo + grassetto; quanto al corsivo + grassetto si usa quando non se ne può fare a meno (per esempio per marcare una parola all’interno di un testo tutto in corsivo), ma altrimenti si tende a evitare questo accostamento.

Il corsivo: quando è obbligatorio

Oltre alle citazioni latine (Deus ex machina), il corsivo si usa obbligatoriamente per indicare i titoli dei libri (I malavoglia di Verga), le testate come i periodici o i giornali (il New York Times), i titoli dei film (Amarcord di Fellini), le opere musicali (il Don Giovanni di Mozart), i titoli di dipinti o sculture (la Primavera di Botticelli, il David di Michelangelo). Per gli articoli delle riviste, le canzoni e le parti di un’opera qualunque, per es. il titolo di un capitolo di un libro, si usano invece le virgolette.

Talvolta si usa anche per le citazioni brevi all’interno di un testo al posto delle virgolette (Diceva sempre: Ricordati di me!), ma in questi casi è bene evitare di usare sia le virgolette sia il corsivo, si usa o l’uno o le altre (Diceva sempre: “Ricordati di me!“).

Oppure, quando le citazioni di un’opera altrui sono lunghe, e quindi non vengono riportate tra virgolette nel corpo del testo, ma staccate e fuori corpo, si possono trovare anche tutte in corsivo.

Quando si scrive un pezzo tutto in corsivo si inverte la prospettiva e tutto ciò che andrebbe in corsivo si trasforma in rotondo e viceversa: “Il film che il Time ha definito un capolavoro”.

Attenzione ai colori


Tra le tante opzioni, quando si scrive si possono impostare anche colori diversi dal nero predefinito (o intervenire cambiando lo sfondo bianco). Ma come nel caso della scelta del carattere il consiglio è di privilegiare la semplicità. La tentazione di usare colori o sfondi colorati rischia di creare arlecchinate di cattivo gusto, che confondono il lettore. La leggibilità di un testo è importante e, come si suol dire, “nero su bianco” è sempre la scelta più semplice e chiara. Se volete potete controllare e regolare l’intensità, per esempio utilizzare un grigio molto scuro al posto del nero può essere una scelta, se lo sapete fare. Oppure, se dovete realizzare delle scritte su sfondo scuro potete usare per il testo un colore chiaro che contrasti e sia leggibile, ma queste soluzioni richiedono un po’ di esperienza. Nello scrivere per la Rete potete impostare dei colori personalizzati per esempio per i collegamenti ipertestuali (ma che siano sempre uniformi), ma il consiglio, che vale solo per chi non è un grafico esperto, è di lasciare perdere queste scelte ardite.

La giustificazione di un testo

■ Cos’è la giustificazione di un testo? ■ Che differenza c’è tra la giustificazione a bandiera e a pacchetto? ■ Per scrivere un articolo è meglio utilizzare l’impaginazione a bandiera o a pacchetto? ■ Cos’è la gabbia editoriale? ■ Perché bisogna evitare i doppi spazi? ■ Perché è bene occuparsi della giustificazione di un testo solo dopo aver ultimato la stesura?

La giustificazione di un testo è il suo allineamento ai margini, cioè la sua impaginazione all’interno della gabbia editoriale (il formato del foglio o il layout, in inglese) o della pagina. Può essere “a bandiera”, quando il margine a destra è irregolare e le parole vanno a capo formando un bordo frastagliato; oppure può essere “a pacchetto”, cioè con il margine destro allineato come quello di sinistra.
Questa seconda modalità prevede “l’allargamento” degli spazi interni della riga in modo che le parole terminino tutte sulla stessa linea. Così l’impaginazione è decisamente più elegante per stampare un testo finito e ben presentabile, ma per evitare che alcune righe contengano spazi vuoti troppo ampi o, viceversa, siano troppo fitte, bisogna prevedere anche l’inserimento della divisione in sillabe delle parole.

Nella prima colonna una giustificazione a bandiera (adatta per i lavori da inviare a una redazione che si occuperò successivamente dell’impaginazione); nella seconda colonna una giustificazione a pacchetto automatica: come si vede lascia degli spazi biachi tra le parole poco eleganti; nella terza colonna la stessa giustificazione è stata lavorata inserendo gli a capo quando necessario (è la più elegante ma si può fare solo a testo concluso e nella fase di impaginazione finale).

In generale, è meglio evitare la giustificazione a pacchetto quando si prepara un documento da inviare a una redazione o che sarà impaginato da altri, sarebbe un lavoro inutile. L’impaginazione finale del testo, infatti, non sarà quella realizzata, ma sarà rifatta completamente dell’impaginatore che si occupa dell’adattamento dei contenuti nella gabbia prevista, probabilmente con un’altra fonte di caratteri e un altro corpo, e partire da un testo a bandiera e non trattato sarà per lui più semplice.

Se invece dovete stampare da soli il vostro documento, preoccupatevi della sua giustificazione solo alla fine del lavoro, quando non sono previste altre modifiche. Se inserite a mano la divisione delle sillabe che vanno a capo, il rischio è che poi si spostino lasciando i trattini che finiscono con il rimanere tra le parole che sono passate alla riga successiva. Basta cambiare una parola, a volte anche qualche virgola, per scombinare tutto l’impaginato.
Se invece il programma prevede la sillabazione automatica tutto è più elastico, ma in ogni caso è sempre meglio occuparsi degli aspetti formali solo dopo aver ultimato i contenuti, per evitare imprevisti.

Prima dell’impaginazione finale conviene cercare ed eliminare ogni doppio spazio: uno spazio (vedi → “I caratteri della tastiera“) è un carattere come gli altri, e i programmi automatici li conteggiano come tali, senza eliminarli, con il risultato di lasciare una spaziatura tra le parole irregolare.

Caratteri speciali, simboli e faccine

■ Cosa sono i caratteri speciali? ■ Quando si devono usare i caratteri speciali? ■ Si possono sostituire i caratteri non presenti sulla tastiera come il trattino disgiuntivo con quello congiuntivo che è presente? ■ Si può scrivere E’ invece di È che non è presente sulla tastiera? ■ Cosa significa il simbolo © del copyright? ■ Cosa significa il simbolo ® dei marchi registrati? ■ Che differenza c’è tra il copyright © e il marchio registrato ®? ■ Cosa sono le losanghe? ■ Che cosa significa il simbolo di paragrafo §? ■ Cos’è la cediglia francese? ■ Cos’è la dieresi? ■ Che differenza c’è tra dieresi e Umlaut? ■ Cos’è la tilde? ■ Würstel si scrive con la u e la dieresi o senza?

Oltre ai caratteri che si trovano sulla tastiera, può capitare che ne occorrano altri che non sono presenti (come il trattino lungo, le virgolette caporale…).

Nei programmi di videoscrittura questi ultimi si trovano di solito tra i caratteri speciali o i simboli, e includono per esempio molte lettere straniere che possono ricorrere quando si scrive, nel caso di nomi o citazioni da altre lingue.

Tra i più frequenti si possono ricordare:

● la cediglia francese (ç) che davanti alle vocali rende dolce la pronuncia della “c“, e non è elegante sostituirla con una normale c, dunque meglio citare correttamente l’Académie française e non (francaise);
● la n spagnola combinata con la tilde (ñ) che conferisce un suono equivalente al nostro gn (es. il fenomeno climatico El Niño);
● la dieresi (¨ ) che caratterizza alcune vocali per esempio del tedesco (in tedesco si chiama Umlaut) e che ricorre in varie parole, come Würstel. Anche se è consuetudine traslitterarle nel nostro sistema quando sono di uso comune (scriviamo più sbrigativamente wurstel e crauti) è meglio non farlo quando si fanno citazioni precise;
● ci sono poi lettere di altri alfabeti, come quelle dell’alfabeto greco che ricorrono per esempio in matematica, alfa (α), beta (β) e così via fino a omega (in maiuscolo Ω è simbolo dell’ohm), oppure l’alef (א), la prima lettera dell’alfabeto ebraico…

Tra i simboli che è bene conoscere si può citare la c cerchiata del copyright (©), letteralmente il diritto di replica, cioè di eseguire delle copie di un’opera d’ingegno, che grosso modo corrisponde al diritto d’autore. Si può scrivere anche utilizzando le parentesi, per esempio: (C) 2019 nome***, e deve essere sempre seguita dalla data in cui l’opera è stata composta (per tutelarne la paternità da quel momento) o pubblicata e dal nome di chi ne detiene i diritti: ha lo scopo di dichiarare la proprietà intellettuale di un autore oppure o di riproduzione di un’opera di ingegno da parte di una società che l’ha acquisita.

Nel caso dei brevetti industriali o dei marchi (che non sono opere di ingegno), la proprietà e i diritti esclusivi di utilizzo di ciò che è registrato si esprimono con ®, il marchio registrato o con , letteralmente trade mark, cioè un marchio depositato o in attesa di registrazione, che si possono indicare anche tra parentesi (R) e (TM).

Ci sono poi molti altri caratteri che si trovano nei libri, per esempio le losanghe (♦) cioè i rombi che si possono utilizzare come i pallini  (●) o a volte i quadratini (■) per marcare graficamente delle porzioni di testo o degli elenchi, oppure il simbolo § che, soprattutto in passato, indicava i paragrafi dei capitoli. E poi le frecce che si possono utilizzare per i rimandi (→), e ancora un gran numero di simboli matematici √, ≠, ±…
Di volta in volta, poiché non sono presenti direttamente sulla tastiera bisogna cercare questo tipo di segni tra i simboli e i caratteri speciali.

Tra i caratteri speciali ci sono anche il trattino disgiuntivo lungo, e la “È” che serve per il maiuscolo della voce del verbo essere “è“. Quando si scrive bisogna usare questo apposito carattere che non va sostituito con l’apostrofo (E’), una forma scorretta, perché apostrofo e accento sono due segni diversi.

Le faccine

Con i caratteri si possono anche creare dei disegni, e per esempio nel linguaggio della Rete si possono trovare le faccine, emoticone (emoticon in inglese) che si usano per dare un tono alle frasi, per esempio la faccina sorridente, in inglese smile 🙂, quella triste 🙁, l’occhiolino 😉, il bacio :-*… anche se ormai i programmi traducono automaticamente queste faccine fatte con i caratteri in simboli grafici colorati.
Esistono anche faccine che invece di essere espresse orizzontalmente sono composte come si guardano: =^.^= e queste composizioni si possono spingere oltre la scrittura fino a vere e proprie creazioni artistiche fatte con i caratteri ASCII (il codice standard americano per lo scambio delle informazioni). Esistono poi anche veri e propri disegni codificati, persino animati, che si possono inserire direttamente nei testi.

Ma tutte queste nuove espressioni comunicative vivono in Rete e non si possono importare nella scrittura formale. Inserire le faccine in un libro è assolutamente fuori luogo: non si usa ed è di cattivo gusto.

Tuttavia, agli inizi del Novecento, Luigi Pirandello, anticipando le faccine dell’era internettiana scriveva:

“Le mie sopracciglia parevano sugli occhi
due accenti circonflessi ^ ^.” (Uno, nessuno e centomila).

L’asterisco

■ Quando si usa l’asterisco? ■ Si può usare l’asterisco per le note a piè di pagina? ■ Si possono usare più asterischi insieme? ■ Perché nei libri si possono trovare tre asterischi separati da spazio in una riga morta? ■ Come si usa l’asterisco per indicare un’omissione di un nome? ■ Perché gli asterischi sono inclusi nella punteggiatura?

L’asterisco viene di solito incluso tra i segni d’interpunzione perché si può trovare:

● apposto a fine parola, senza spazi, per indicare una nota a piè di pagina, per esempio: parola* (se non si usa la numerazione progressiva di solito espressa con il numero in apice: es. parola1 o in altri casi con la numerazione romana in minuscolo); quando nella stessa pagina sono presenti più note l’asterisco si moltiplica, per esempio così**;
● per indicare un’omissione, e in questo caso se ne mettono tre, per esempio: il signor ***;
● talvolta se ne mettono tre, di solito separati dallo spazio (* * *) e in una riga morta che serve per separare dei blocchi di testo all’interno di uno stesso paragrafo, creando in questo modo una separazione grafica che indica una pausa fortissima, superiore a quella del capoverso, ma inferiore a quello di un nuovo capitolo che richiede la sa titolazione. Serve per esempio per marcare un salto temporale nella narrazione o un salto a un altro argomento completamente slegato dal testo precedente.

La sbarretta (in inglese slash)

■ Quando si usa la sbarretta? ■ Che differenza c’è tra la sbarretta o barretta e lo slash? ■ Si può usare la sbarretta per separare i numeri delle date scritte in cifre (4/3/43)? ■ Che differenza c’è tra la sbarretta o barretta, e la sbrarretta rovesciata detta anche backslash?

La sbarretta (/) o barretta (spesso detta anche immotivatamente in inglese: slash) di solito sulle tastiere è posta sullo stesso tasto del numero 7, e non va confusa con la sbarretta o barretta rovesciata, inversa o retroversa (in inglese backslash) di uso informatico (\).

Nella scrittura si impiega di solito per indicare l’alternativa tra due possibilità (la verdura e/o la frutta) e si usa per scrivere le date in cifre (15/09/2019).

Accanto a questo uso storico, fuori dalla punteggiatura, nel nuovo Millennio si usa moltissimo soprattutto per gli indirizzi internet, e di solito separa, raddoppiata, l’http: dal www di un indirizzo Internet, per esempio:

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com.

In informatica è molto usata anche come segno separatore dei percorsi delle liste dei documenti (in inglese le directory dei file) che indicano la gerarchia di cartelle e sottocartelle di archiviazione, per esempio:

www.repubblica.it/cronaca/titoloarticolo.html.

In matematica si usa per le frazioni (2/3), ma nei discorsi è meglio evitare il simbolo e scrivere l’espressione in lettere (i due terzi).

Le parentesi

■ Quando si usano le parentesi? ■ Quando si fa un’omissione in una citazione si usano le parentesi tonde o quadre? ■ Che differenza c’è tra le parentesi tonde e quelle quadre? ■ Quando si usano le parentesi quadre? ■ Se una frase tra parentesi chiude la frase, il punto si mette dentro o fuori? ■ La virgola precede o segue un inciso tra parentesi? ■ Le parentesi quadre si possono usare all’interno di quelle tonde?

Le parentesi tonde si usano per gli incisi (come il trattino lungo o le virgole), ma hanno un “potere di separazione” più marcato e si preferiscono quando l’inciso è una spiegazione che spezza la linearità del discorso.


Si possono usare per esempio:

per indicare un autore dopo una citazione: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” (Dante);
per altre indicazioni da aggiungere senza appesantire la frase: “Italo Calvino (1923-1985)”;
per rimandi interni a un testo: (vedi paragrafo X);
per segnalare un’omissione all’interno di una citazione con i puntini di sospensione (…), altre volte riportate invece con le parentesi quadre […].

Quando si aprono vanno sempre chiuse, tranne nel caso degli elenchi numerati, e in questi casi sono sempre precedute dai numeri o dalle lettere dell’alfabeto: 1) 2)… oppure a) b)…

A volte le parentesi si usano anche per scrivere il copyright (C) o i marchi registrati come (R) e (TM), che più elegantemente si sotituiscono con i simboli che si trovano tra i → Caratteri speciali della tastiera: ©, ® e .

La punteggiatura associata alle parentesi

Prima delle parentesi di apertura e chiusura non si usa la punteggiatura (e non si lasciano mai spazi bianchi all’interno tra le parentesi e le parole), e la virgola, se necessaria, è da porre dopo la parentesi di chiusura e non prima di quella di apertura:

● Sono stanco (ho corso tutto il giorno), mi merito un po’ di riposo;
e non:
Sono stanco, (ho corso tutto il giorno) mi merito un po’ di riposo”.

Analogamente, bisogna sempre evitare la punteggiatura prima della parentesi di chiusura tranne quando la frase è un inciso compiuto e indipendente:

Sapevo che stava per suonare il campanello. (Lo avevo visto arrivare dalla finestra.)

Oppure quando si vuole inserire un punto interrogativo o esclamativo che si riferisce al testo interno:

Si dice (sarà vero?) che sia un brigante (incredibile!).

Le parentesi quadre

Le parentesi quadre, al contrario di quanto avviene in matematica, si possono usare all’interno delle parentesi tonde se servono ulteriori parentesi:

(là [avverbio] si scrive sempre con l’accento.)

Ma è meglio evitarlo e non abusarne, la scrittura non è algebra.

Si usano anche come parentesi editoriali, per esempio:

● per aggiungere una parola mancante in una citazione: “Pur di stare con lui [il signor Mario] avrebbe fatto di tutto”;
● per indicare che in una citazione c’è una lacuna che si riporta così com’è; oppure un refuso che si trascrive come nell’originale (e si scrive in questo caso sic, cioè “così” in latino): “Il zafferano [sic] è una spezia”;
● a volte si possono usare per indicare delle omissioni di parte di una citazione […], ma altre volte si trovano anche le parentesi tonde con questa stessa funzione (…);
● talvolta racchiudono le sigle NdR, NdT e NdA che rispettivamente indicano, di solito come note a piè pagina, le note del redattore, del traduttore o dell’autore.

Il trattino (o lineetta) corto e lungo

■ Che differenza c’è tra il trattino lungo o disgiuntivo e quello breve o congiuntivo? ■ Quando si usa il trattino corto? ■ Quando si usa il trattino lungo? ■ Negli incisi è meglio usare il trattino disgiuntivo, le virgole o le parenesi? ■ Nei dialoghi si usa il trattino breve o quello corto? ■ Dove si trova il trattino lungo sulla tastiera? ■ Quali altri trattini ci sono oltre a quello congiuntivo e disgiuntivo? ■ Come si dice underscore in italiano? ■ Dopo il trattino congiuntivo ci vuole lo spazio? ■ Dopo il trattino disgiuntivo ci vuole lo spazio? ■ Le norme editoriali italiani prevedono l’uso della “lineetta emme” (—) come in alcuni testi americani?

Ci sono vari tipi di trattini (o lineette), con dimensioni diverse, ma quelli che si usano nello scrivere sono solo due: quello corto e quello lungo.


Il trattino corto, detto anche di unione o congiuntivo, non prevede di inserire spazi prima e dopo e si usa:

per indicare periodi di valori: periodo marzo-settembre; durata 3-6 mesi;
per unire due parole: il treno Roma-Milano;
per le parole composte: il linguaggio tecnico-scientifico;
per la sillabazione delle parole (a-ba-co) che si utilizza per andare a capo.

Il trattino lungo o disgiuntivo () si utilizza invece per indicare un inciso o anche uno stacco del discorso, più elegante e meno netto delle parentesi tonde, ma più marcato di quanto non si fa con la semplice virgola. E in questo caso richiede sempre uno spazio prima e dopo:

I tre grandi poeti del Trecento – Dante, Petrarca e Boccaccio – erano detti le corone fiorentine.

Talvolta si usa per un inciso esplicativo all’interno di una citazione:

Vieni – disse l’uomo – e non avere paura”.

Si usa infine anche nei dialoghi per separare le battute:

– Ciao!
– Ciao a te!

In qualche caso, dialoghi come questo che introducono il discorso diretto vengono riportati di seguito all’interno di un testo senza andare a capo (Mi disse – Entra!).

Il trattino lungo non è presente sulla tastiera (si trova tra i caratteri speciali o tra i simboli) e per questo motivo quando si scrive spesso si utilizza (in modo non preciso) il trattino di unione, perché è più facile. Ma quando si scrive professionalmente è meglio essere precisi e cercarlo con un po’ di fatica tra i simboli.

Tra i trattini e lineette ce ne sono altri che non fanno parte della punteggiatura. Per esempio il trattino basso _ (spesso chiamato immotivatamente in inglese underscore), che si trova soprattutto negli indirizzi internet o nei nomi dei documenti informatici (ai tempi della macchina per scrivere si utilizzava per sottolineare le parole).

C’è poi il segno meno che si utilizza in matematica (3 − 1 = 2) che per essere precisi è di dimensioni leggermente diverse da quello lungo o da quello corto che di solito si impiegano per comodità nello scrivere.

Circola infine un altro tipo di trattino di dimensioni maggiori di quello lungo (—), detto lineetta emme, perché le sue dimensioni sono quelle dei due caratteri “em”, ma in italiano non si usa! Si trova invece nell’editoria statunitense spesso usato al posto dei due punti, ma nelle norme editoriali italiane non è contemplato e dunque in caso di traduzioni va sostituito con i segni della nostra punteggiatura.

Le virgolette

■ Che differenza c’è tra le virgolette alte e basse? ■ Quando si usano le virgolette? ■ I titoli dei libri si scrivono con le virgolette o in corsivo? ■ Che differenza c’è tra le virgolette doppie e quelle singole? ■ Come si fa una citazione dentro la citazione? ■ Si possono usare i simboli di maggiore e minore invece delle virgolette? ■ Quando si fa una citazione virgolettata il punto si mette dentro o fuori dalle virgolette? ■ Si possono fare citazioni senza usare le virgolette?

Le virgolette si usano nel discorso diretto, per citare parole o brani di testo di altri autori, e ce ne sono di due tipi, quelle alte (“”) dette anche all’italiana, e quelle basse («») dette anche caporale, sergente (perché ricordano il simbolo dei gradi militari).
La differenza è solo grafica, non c’è un regola per preferire le une alle altre, basta rispettare l’uniformità e non usarle entrambe all’interno di uno stesso scritto. Ricorrere alle virgolette basse o alte è dunque una scelta editoriale, non grammaticale.

Nel caso di citazioni lunghe di interi brani, nell’editoria si preferisce di solito andare a capo e riportare la citazione con un altro carattere o con un altro corpo del testo, invece di usare le virgolette, per esempio:

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In altri casi, quando la citazione è breve o di poche parole e inserita all’interno del testo, può capitare di trovare esempi d’uso in cui si usa il corsivo al posto delle virgolette (sono scelte editoriali). Bisogna però evitare di associare le virgolette al corsivo, in questi casi, si mette o l’uno o l’altro (mi chiese: Come stai? ma non ascoltò la mia risposta, e non mi chiese: “Come stai?” ma non ascoltò la mia risposta).

Le virgolette si usano anche:

● per citare una sola parola (es. la scritta “Benvenuto”);
● per indicare il significato di una parola (es. mouse letteralmente significa “topo”), ma a volte si usa anche il corsivo;
● per specificare un uso improprio di una parola o per sottolineare un senso figurato o ironico da cui si prendono le distanze (es. quel “furbo” non si è accorto di nulla; quella scuola è un “lager”), ma è meglio non abusarne;

● nelle indicazioni bibliografiche per le citazioni di articoli di giornale e periodici o di capitoli di libri: mentre il titolo di una rivista, giornale o libro si indica in corsivo, le sue parti si riportano tra virgolette (es. Giovanni Boccaccio, “Chichibio e la gru”,  Decameron).

Poiché le virgolette basse non sono presenti direttamente sulla tastiera , a volte si sostituiscono con il doppio simbolo di minore e maggiore (<<>>) ma non è una scelta molto elegante. Lo stesso vale per le cosiddette virgolette singole “all’inglese” o apici (’): talvolta si usa marcare una parola anche con l’apice (es. quella ‘maestrina’), ma è una scelta meno diffusa e diventa indispensabile solo quando c’è una citazione nella citazione, per evitare confusioni: “Disse: ‘Certo!’ Ma non sembrava contento”.

Per essere precisi gli apici sono segni che possono differire dall’apostrofo e quando occorre distinguerli sono dritti invece che curvi. Ma non tutte le fonti di caratteri permettono questa distinzione, oppure molti programmi di scrittura li convertono direttamemte, anche se distinguerli può essere invece fondamentale da un punto di vista tipografico.

La punteggiatura associata alle virgolette

La punteggiatura associata alle virgolette si trova sia all’interno sia all’esterno, dipende dai casi e anche dalle norme editoriali delle case editrici.

In linea di massima, quando si cita una parola o una frase la punteggiatura è posta all’esterno, per esempio:

● Grazie a quella specie di “barca”, i naufraghi si misero in salvo.

Oppure:

● “Fatta l’Italia, restano da fare gli italiani”, diceva Massimo D’Azeglio.

Tuttavia, davanti a segni d’interpunzione che riguardano l’intonazione, come il punto di domanda o quello esclamativo, si inseriscono all’interno:

Mi disse: “Davvero?”.

E in tal caso è bene aggiungere il punto fermo dopo le virgolette, perché il punto interrogativo che fa parte della citazione, seguito dalle virgolette, perde la sua forza di chiusura.

Quando invece la citazione include un periodo completo, indipendente e finito, si tende a lasciare la punteggiatura di chiusura all’interno delle virgolette, e non bisogna mettere un ulteriore punto successivamente:

“Chi la fa l’aspetti.” Non c’è altro da aggiungere.

I puntini di sospensione

■ Quando si usano i puntini di sospensione? ■ Se i puntini di sospensione chiudono la frase è necessario aggiungere il punto fermo? ■ Si possono scrivere in numero superiore a tre per rafforzare il senso di continuità? ■ Si possono usare solo due puntini di sospensione invece di tre? ■ Dopo i puntini di sospensione si procede con la maiuscola? ■ Si possono associare i puntini di sospensione a ecc. o eccetera? ■ Meglio scrivere ecc. o etc.?

I puntini di sospensione si usano:

● per indicare che un elenco di esempi può continuare: il mio equipaggiamento comprende zaino, piccozza, corda, ramponi…
● per lasciare il discorso in sospeso: non ricordo…
● a volte per marcare un’allusione che non viene esposta: con il mestiere che fa… (lascia intendere all’interlocutore di che mestiere si tratti);
● in alcuni casi per indicare tra parentesi un’omissione di una parte di un testo citato: “Quel ramo del lago di Como (…) vien (…) a ristringersi” (talvolta si usano indifferentemente anche le parentesi quadre).

Quando i puntini di sospensione chiudono una frase è necessario iniziare la successiva con la lettera maiuscola, perché costituiscono una pausa forte come quella del punto fermo. Se invece si utilizzano all’interno di un discorso senza chiudere il periodo… si prosegue normalmente con la minuscola.

Tra gli errori più frequenti nell’uso dei puntini di sospensione si registrano:

● metterne solo due (..), o più di tre (…..): i tre puntini di sospensione, come i tre porcellini, sono sempre e solo tre;
● quando chiudono il discorso non bisogna aggiungere il punto fermo e farli diventare quattro;
● davanti a un elenco che termina con i puntini di sospensione non si deve associare la parola eccetera (né prima …eccetera, né dopo eccetera…): hanno il medesimo significato e sarebbe ridondante, quindi o si mettono i puntini o si mette ecc., e mai ecc… (quanto a etc. è un’abbreviazione che scomoda inutilmente il latino et cetera che è sempre meglio evitare in buon italiano, è tipica dei registri burocratici; vedi anche → Meglio scrivere “eccetera”, “ecc.” o “etc.”?);
● quando chiudono un elenco non si deve inserire la e prima dell’ultima parola (zaino, piccozza, corda e ramponi): la e finale serve per introdurre l’ultimo elemento, ma nel caso in cui ci sono i puntini l’ultimo elemento è lasciato in sospeso;
● l’abuso dei puntini di sospensione, e il loro prevalere sulla punteggiatura normale, come avviene soprattutto in Rete (es. sono andato al mare… c’era un sacco di gente… non si riusciva a trovare posto… ed è stato uno strazio…). Vanno usati con moderazione e solo se indispensabili, altrimenti si conferisce al discorso un tono da fumetto e sgrammaticato.

Il punto esclamativo

■ Dopo il punto esclamativo ci vuole sempre la maiuscola? ■ Dopo il punto esclamativo si può mettere il punto fermo? ■ Si può raddoppiare o triplicare il punto esclamativo per rafforzare lo stupore? ■ Si può usare il punto interrogativo associato a quello interrogativo? ■ Se il punto di domanda è associato a quello esclamativo si mette prima (!?) o dopo (?!)? ■ Quali sono esempi di frasi in cui dopo il punto esclamativo si può procedere con la minuscola?

Il punto esclamativo serve per conferire un’intonazione rafforzativa (magari fossi ricco!), e si usa spesso con gli imperativi (esci!) o con le interiezioni (Ah!).
Chiude una frase con la forza di un punto fermo e dunque successivamente il discorso procede con l’iniziale maiuscola:

Sono sicuro! Esclamò.

Tuttavia in alcuni casi sporadici in cui l’esclamazione venga integrata all’interno di una frase, quando il  discorso continua è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola, una consuetudine diffusissima in passato e anche fino a pochi decenni fa, che oggi è invece più rara:

● “Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto!” (I promessi sposi)

Talvolta si trova associato al punto di domanda per conferire allo stesso tempo un tono di stupore e di interrogazione (e si può trovare collocato prima !? o dopo ?!), ma questo tipo di rafforzamento è tipico dei registri da fumetto, o pubblicitari e non è frequente in quelli formali, dunque va utilizzato con molta cautela. Anche l’abuso del punto esclamativo da solo è sconsigliabile nello scrivere; si trova frequentemente nei dialoghi, per conferire l’intonazione (Ecco! No!), ma altrimenti è meglio usarlo con moderazione, solo quando è indispensabile.

Tra gli errori più diffusi da evitare ci sono:

● il raddoppio o la moltiplicazione del segno: “Accidenti!!”, “Caspita!!!” (accettabile solo nei fumetti);
● l’aggiunta di un punto fermo o altri segni di interpunzione: “Certo!.” (il punto di domanda è già un segno di chiusura).

Nella lingua spagnola lo si mette anche all’inizio della frase, rovesciato (¡), in modo che l’intonazione sia chiara sin da subito, ma in italiano questa consuetudine non esiste.

Il punto di domanda

■ Dopo il punto di domanda ci vuole sempre la maiuscola? ■ Dopo il punto di domanda si può mettere il punto fermo? ■ Si può raddoppiare il punto di domanda per rafforzare l’interrogazione? ■ Si può usare il punto interrogativo nelle domande indirette? ■ Quali sono esempi di frasi in cui dopo il punto di domanda si prosegue con la minuscola?

Il punto interrogativo o di domanda serve per conferire la giusta intonazione nelle domande dirette e chiude la frase con la forza di un punto fermo, per cui richiede che dopo si usi la maiuscola, per esempio:

Vuoi venire al cinema? Gli domandai.

Tuttavia in alcuni casi sporadici in cui la domanda venga integrata all’interno di una frase, quando il  discorso continua è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola:

Certo che sei invitata – e perché mai non dovrei invitarti? – alla mia festa!
Si dice (sarà vero?) che le piante sentano.

Naturalmente, in alcuni casi, stabilire quando un discorso continua e quando no ha margini di soggettività e può essere una scelta dell’autore, per esempio: “Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?” (I promessi sposi). Fino a qualche decennio fa questa consuetudine di continuare il discorso senza la maiuscola era molto diffusa, oggi si trova più di rado.

Talvolta il punto interrogativo viene associato a quello esclamativo per conferire allo stesso tempo un’intonazione di domanda e di sorpresa (e si può trovare collocato prima ?! o dopo !?), tuttavia questo tipo di rafforzamento è tipico dei registri spiritosi o pubblicitari/fumettistici più che letterari, e va utilizzato con molta cautela.

Tra gli errori più diffusi da evitare ci sono:

● il raddoppio o la moltiplicazione del carattere: “Perché??”, “Cosa???” (un uso accettabile solo nei fumetti);
● l’aggiunta di un punto fermo o altri segni di interpunzione: “Davvero?.” (il punto di domanda è già un segno di chiusura);
● il suo impiego  nelle interrogative indirette: non si scrive mai: “Mi chiedo che cosa pensi?”, esistono esempi del genere che appartengono al passato, ma nell’uso dell’italiano moderno non è accettabile.

Poiché il punto di domanda, che serve per dare la giusta intonazione, compare solo alla fine della frase, il consiglio è quello di non scrivere mai frasi interrogative troppo lunghe: il rischio è che chi legge si accorga troppo tardi che si tratti di una domanda.

Per ovviare al problema, nella lingua spagnola lo si mette anche all’inizio della frase, ma rovesciato (¿), in modo che l’intonazione sia chiara da subito, ma in italiano questa consuetudine non esiste.

Il punto fermo

■ Dopo il punto si deve sempre usare la maiuscola? ■ Le unità di misura abbreviate come cm o cl richiedono il punto finale? ■ 2.014 si scrive con il punto o senza?  ■ Bisogna mettere il punto alla fine di un titolo di capitolo? ■ Che differenza c’è tra punto e punto fermo? ■ Il punto si usa sempre nelle abbreviazioni? ■ Quando un’abbreviazione chiude la frase il punto va raddoppiato?

Il punto (detto anche punto fermo) ha la funzione di chiudere il periodo con un distacco forte, che viene ulteriormente ampliato se dopo si va a capo, iniziando un nuovo capoverso. Lasciare una riga bianca dopo il capoverso precedente conferisce uno stacco ancora maggiore.

Dopo il punto fermo bisogna utilizzare la maiuscola, al contrario di quanto avviene nel caso di virgola, punto e virgola e due punti. Ma il punto si usa anche per le abbreviazioni (sig. = signore, dott. = dottore) e solo in tal caso dopo la maiuscola non si utilizza: “Socrate nacque nel 469 a.C. ad Atene”.

Attenzione, però, a non mettere il punto dopo le abbreviazioni delle misure: km (chilometri), m (metri), cl (centilitri) e così via, non lo richiedono.
Inoltre, non si mettono i punti di abbreviazione nel caso delle sigle (vedi → “Sigle e acronimi“)

A proposito delle date: si scrivono sempre senza il punto delle migliaia, che invece è sempre consigliabile per i numeri (si mette ogni tre cifre: 100.000.000) per renderli più leggibili; perciò il 2014 (anno), ma 2.014 euro.

Quando un’abbreviazione chiude il periodo, il punto non va mai raddoppiato, se ne lascia uno solo: ho comprato pasta, riso ecc. Allo stesso modo non si aggiunge dopo i puntini di sospensione.

Infine, non bisogna mai mettere il punto alla fine dei titoli di un capitolo o paragrafo, non ce n’è bisogno, sarebbe ridondante e graficamente poco elegante.

Il punto e virgola

■ Quando si usa il punto e virgola? ■ Scegliere il punto e virgola o la virgola è sempre soggettivo ed equivalente? ■ Che differenza c’è tra punto e virgola e punto fermo? ■ Dopo il punto e virgola si usa la maiuscola? ■ Quando si usa il punto e virgola negli elenchi?

Il punto e virgola si impiega per conferire una separazione maggiore di quella della virgola, ma non forte come nel caso del punto. Dopo questo segno di interpunzione si procede con la minuscola.

Anche se di solito è usato di rado, rispetto alla virgola è indispensabile quando nella frase c’è un cambio di soggetto. Per esempio:


la gatta si sistemò su una pila di libri; questa cominciò a barcollare per il peso.

In questo caso la virgola sarebbe insufficiente. In alternativa si può mettere il punto.

È consigliabile usare il punto e virgola anche quando ci sono degli elenchi che includono sottoinsiemi, per esempio:


la redazione è composta da Marco, il redattore; Sara, la grafica; e Maurizio, il direttore.

Usare la virgola sarebbe meno elegante e farebbe apparire la frase meno chiara: si potrebbe pensare che “Marco” e “il redattore” siano persone diverse.

Anche negli “elenchi punto” si usa preferibilmente il punto e virgola per separare ogni voce, tranne l’ultima che richiede il punto fermo; per esempio:

ingredienti per la torta:

● burro;
● uova;
● farina.

La virgola

■ Esistono delle regole che prescrivono quando la virgola è obbligatoria? ■ Esistono delle regole che prescrivono quando la virgola non si può mettere? ■ Quali sono le differenze tra virgola e punto e virgola? ■ Quando le incidentali richiedono la virgola invece delle parentesi? ■ Quali sono gli esempi di frasi in cui la virgola cambia il significato?

La virgola ha la funzione di separare un concetto o una frase, ma senza staccarli completamente, perché continuano, e dunque conferisce una separazione debole, rispetto al punto fermo. Si usa per esempio in un inciso (o incidentale), e in questo caso bisogna sempre chiuderlo con un’altra virgola (il telefono, inventato nell’Ottocento, oggi si è molto evoluto). L’inciso può racchiudere a volte anche una sola parola e non sempre un frase, per esempio nel caso di appellativi rivolti a qualcuno: correte, donne, è arrivato l’arrotino!

Nello scrivere è bene evitare di usare troppe incidentali, appesantiscono il periodo, ma quando capita o c’è un’incidentale nell’incidentale è possibile ricorrere alle parentesi o al trattino lungo disgiuntivo, invece della virgola, per essere più chiari; per esempio:

Nello scrivere è bene evitare di usare troppe incidentali (appesantiscono il periodo), ma quando capita o c’è un’incidentale nell’incidentale è possibile ricorrere alle parentesi o al trattino lungo disgiuntivo invece della virgola per essere più chiari.

La virgola si usa quasi sempre (ma non obbligatoriamente) prima di ma (vedi → “Si può dire ma però? E altri dubbi su ma“), però, tuttavia, sebbene, se, o quindi (es. mangio la mela, ma scarto la buccia).
È obbligatoria negli elenchi per separare gli elementi (ho messo in valigia pantofole, calze, maglia e pigiama) e nell’ultimo elemento si sostituisce spesso con la e (che invece si tende a omettere quando l’elenco non si conclude e termina con ecc. e non può precedere i puntini di sospensione…).

Nel caso della “virgola seriale” che separa gli elenchi, non è obbligatorio sostituire l’ultima virgola con la e, talvolta possono convivere. Per esempio: “Mi hanno servito antipasto, spaghetti al pomodoro, seppie, e patate” può specificare che il contorno di patate era un piatto separato e non un piatto unico composto di “seppie e patate”. Dunque, anche fuori dagli elenchi, non è necessariamente vero, come si sente dire spesso, che la congiunzione e sia sempre sostitutiva della virgola (vedi → “E o virgola? O entrambe?“), talvolta si possono usare insieme (sono stanco, e non mi vergogno ad ammetterlo). Come avviene nel parlare, anche nello scrivere tutto dipende dalla volontà dell’autore di sottolineare una pausa, e non solo di separare, ma può succedere che la volontà dell’autore di fare una pausa non corrisponda poi all’intonazione del lettore che interpreta. Anche nel caso di un elenco di due parole si può scegliere di usare la virgola oppure la congiunzione e: sono stanco, sfinito oppure sono stanco e sfinito.

In molti casi una semplice virgola può dare diverse valenze a una frase e il suo uso non è più soggettivo. Per esempio nelle relative, quando c’è che:

gli uomini che erano accaldati si fecero una doccia

indica che, tra tutti, solo chi era accaldato si fece una doccia, mentre:

● gli uomini, che erano accaldati, si fecero una doccia

indica che tutti gli uomini in questione erano accaldati e si fecero una doccia.

Allo stesso modo dire:

quando il gatto mangia, il topo è contento

è diverso rispetto a:

quando il gatto mangia  il topo, è contento.

Nel secondo caso il soggetto della frase cambia, e con esso il senso.

Se non è possibile prescrivere quando si deve mettere la virgola, viceversa ci sono casi in cui metterla è sicuramente sbagliato, per esempio quando c’è una continuazione logica che non consente una separazione (come tra l’articolo e il nome). Gli errori più comuni da evitare sono di metterla:


tra soggetto e predicato (Mario andava per la città e mai: Mario, andava per la città);
tra predicato e complemento (mangio un panino e mai: mangio, un panino);
tra il nome e l’aggettivo (ho comprato una maglia rossa e non: ho comprato una maglia, rossa).

La punteggiatura

■ Quali sono i segni d’interpunzione? ■ Quali sono i segni d’interpunzione che esprimono l’intonazione? ■ Quali sono le regole che regolano la punteggiatura? ■ Quando ci vogliono gli spazi con i segni d’interpunzione? ■ Quali segni d’interpunzione richiedono di proseguire con la maiuscola?

Quando parliamo facciamo delle pause tra le parole e tra le frasi, e diamo anche un’intonazione.
Nello scrivere utilizziamo la punteggiatura per esprimere le stesse cose.

Ci sono segni che esprimono le intonazioni, per esempio il punto di domanda o quello esclamativo, e altri che hanno una funzione più logica, cioè fanno sentire le pause per separare i concetti all’interno di una frase e anche per separare le frasi all’interno del periodo, come le virgole o i punti.

Questo secondo aspetto è molto soggettivo, e come nel parlare possiamo interpretare in vari modi uno stesso discorso con pause e toni differenti, allo stesso modo nello scrivere non ci sono sempre delle regole ferree, tutto dipende dallo stile e dagli intenti di chi scrive.

L’interpunzione, perciò, non può essere codificata in modo rigido, è un’arte delicata, soggettiva, che richiede orecchio, e una buona punteggiatura può migliorare un testo e renderlo più chiaro o semplicemente più “bello”. Un punto esclamativo alla fine della frase ha la funzione di conferire enfasi all’intonazione; un punto fermo invece di una virgola ha la funzione di separare maggiormente i concetti, e per dire le stesse cose si può scegliere di costruire un periodo lungo con tante virgole (per esempio in contesti esplicativi e razionali) oppure preferire tante frasi brevi con uno stile completamente diverso (per esempio nella narrativa).

In questa soggettività, tuttavia, dei punti fermi ci sono, ed esistono degli errori oggettivi da evitare e delle prescrizioni logiche da seguire.

La prima regola riguarda gli spazi: i segni di interpunzione si attaccano alle parole di solito alla fine (ma nel caso dell’apertura delle virgolette o delle parentesi anche subito prima) e ne diventano parte integrante, dunque non richiedono spaziazioni per esempio:

disse: e non disse : (una consuetudine che si ritrova nel francese, ma non in italiano);
«esempio» e non « esempio » ;
Addio! e non Addio !

Quanto agli altri usi obbligatori, bisogna tenere presente che la punteggiatura può cambiare il senso di una frase:

il maestro dice: Pierino è un somaro

è molto diverso da:

il maestro, dice Pierino, è un somaro.

In linea di massima, dopo i segni d’interpunzione di chiusura come il punto, il punto di domanda e quello esclamativo si procede con l’iniziale maiuscola, mentre dopo quelli deboli come virgola, punto e virgola e due punti il discorso prosegue con l’iniziale minuscola, ma ci sono casi in cui le cose vanno diversamente.

Per scoprire le regole, gli errori da evitare e i consigli per un buon utilizzo della punteggiatura è bene andare a fondo vedendo come comportarsi caso per caso davanti a:

● il punto;
● la virgola;
● il punto e virgola;
● i due punti;
● il punto di domanda;
● il punto esclamativo;
● i puntini di sospensione;
● le virgolette;
● i trattini congiuntivo e disgiuntivo;
● le parentesi;
● la sbarretta (/);
● l’asterisco.

Questi articoli includono anche le norme per esempio dell’associazione delle virgole o dei punti alle virgolette (si mettono fuori o dentro?) o alle parentesi.

Bisogna poi tenere presente che oltre ai segni d’interpunzione ci sono anche altri caratteri della tastiera che è bene sapere padroneggiare, a cominciare dall’apostrofo, dagli accenti o dallo spazio (che è a tutti gli effetti un carattere da sapere usare nel giusto modo) per finire con una serie di caratteri speciali come le losanghe (♦) e tutti gli altri caratteri meno frequenti (per esempio: § che nell’editoria serve talvolta per marcare i paragrafi).

Divisione in sillabe

■ Come si va a capo? ■ Nell’andare a capo si può dividere una sillaba? ■ Quali sono le regole per andare a capo? ■ Il CQ si può spezzare in due sillabe o appartiene a una sola? ■ Si può andare a capo lasciando l’apostrofo da solo sull’ultima riga? ■ Come si va a capo con le parole con la S seguita da consonante come pesca? ■ Le regole di sillabazione dell’italiano valgono anche per le lingue straniere? ■ Quali sono esempi di parole monosillabe? ■ Quali sono esempi di parole bisillabe? ■ Quali sono esempi di parole trisillabe? ■ Quali sono esempi di parole polisillabe?

Le regole di divisione in sillabe della nostra lingua (quelle che servono per andare a capo nel giusto modo) sono state fissate nel 1969 (norma UNI 6461-97) dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione che disciplina le norme di tutti i settori industriali. Ma sono così complicate da ricordare e imparare che è meglio consultare un dizionario in caso di incertezze.

Perciò le linee guida per la divisione in sillabe riassunte di seguito non fugheranno ogni dubbio, ma permettono perlomeno di orientarsi.

Quando si va a capo non si può mai dividere una sillaba, e le parole si possono dividere in:

● monosillabi (è, voi, );
● bisillabi (ca-ne, gat-to);
● trisillabi (mac-chi-na, cer-biat-to);
e polisillabi che hanno quattro o più sillabe (ma-sti-ca-re, con-si-de-re-vol-men-te).

Una consonante semplice seguita da vocale, dittongo o trittongo costituisce un’unica sillaba (se-ra), così come una vocale iniziale seguita da una sola consonate è una sillaba (o-do).

In caso di vocali consecutive, se non siete sicuri di trovarvi di fronte a uno iato (incontro di due vocali divisibili perché di solito rappresentano due emissioni di fiato differenti: poe-ta) o a un dittongo e trittongo (indivisibili: voi, miei) andate sempre a capo con una consonante e mai con una vocale (pie-no e mai pi-eno), eviterete di sbagliare.

Tenete poi presente che le consonanti doppie si dividono sempre in sillabe diverse (dop-pio) e che il cq è come fosse una doppia consonante (ac-qua).

Non si deve mai dividere un gruppo di consonanti che cominciano per s (pe-sca) e di solito quando una sillaba contiene la lettera s, questa va sempre a capo (perciò: pa-sta e mai pas-ta).

Anche i digrammi (es. ch, sc) e i trigrammi (es. sci, gli) non si dividono mai e di solito formano una sillaba insieme alla vocale che li segue (chie-sa, fi-glio).

Evitate di andare a capo con l’apostrofo, è davvero brutto, almeno quanto eliminare l’elisione e aggiungere una vocale (lo apostrofo) per far tornare i conti come si insegnava un tempo.

Un’ultima avvertenza: attenzione alle parole straniere! Non sempre seguono le regole della divisione in sillabe della nostra lingua. E poiché ormai ci sono programmi di scrittura che fanno la sillabazione automatica, se li avete installati e li utilizzate fate sempre attenzione a impostare la lingua italiana, e non per esempio quella inglese!

La fonte (font) e il corpo di un testo

■ Cos’è la fonte o il font di un testo? ■ Che differenza c’è i caratteri con le grazie e senza grazie? ■ È consigliabile usare il Comic? ■ Meglio usare i caratteri di sistema come il Times e l’Arial o quelli speciali? ■ La scelta di carattere dipende anche dallo scrivere per la carta o per il Web? ■ Cos’è il corpo di un testo? ■ Qual è il carattere più utilizzato nei libri?

Per scrivere un testo con un programma di videoscrittura esiste una vasta gamma di caratteri di stampa o fonti (in inglese font) che a loro volta possiedono un corpo (cioè una dimensione), uno stile (normale, corsivo, grassetto…) e altre caratteristiche come il colore.

Il testo è poi impaginato con una sua giustificazione.

La fonte è il tipo di carattere che si può decidere di utilizzare. Ci sono quelle con le grazie (i tratti terminali che marcano i caratteri ben visibili per esempio sulla T o sulla N), per esempio il Times New Roman, il Garamond, il Georgia o il Courier che imita i caratteri delle macchine per scrivere che si utilizzavano prima della rivoluzione digitale; altre fonti sono invece senza grazie e più arrotondate come l’Arial o il Verdana, e poi c’è il Comic, adatto agli scritti per bambini (di pessimo gusto e controproducente per la scrittura professionale). Molti altri caratteri sono adatti per realizzare scritte di impatto grafico più che per la scrittura dei testi.

Quando si scrive un testo che sarà impaginato e trattato da altri, per esempio una redazione, la cosa migliore è non preoccuparsi della fonte. Solitamente le case editrici richiedono testi in Times New Roman (quello spesso predefinito) con giustificazione a bandiera (l’impaginazione è infatti a loro cura).
Se invece dovete produrre un testo che stamperete da soli, da pubblicare in Rete o da far circolare sulla carta, dovrete cercare di dargli anche una forma piacevole e impaginarlo da soli.

La scelta del carattere non dipende solo dal gusto personale, ma anche dall’obiettivo del testo, dal destinatario e dal supporto su cui sarà letto.

In linea di massima meglio usare i caratteri più comuni e diffusi; il Times New Roman non è considerato molto elegante sulle pagine Web, e può essere più adatto il Verdana o l’Arial (senza grazie) oppure il Garamond o il Georgia (con le grazie), che sono molto chiari e utilizzati anche per la carta. Il Garamond è di solito il carattere più utilizzato nei libri. Comunque esiste una vastissima gamma di altre possibilità; spesso le differenze rispetto a questi caratteri principali sono leggere e ognuno può scegliere quella che preferisce a seconda dei gusti e degli scopi, con un po’ di buon senso: usare il Comic, adatto ai bambini, per un lavoro professionale è controproducente.

Quando si scrive per la Rete è bene non utilizzare caratteri speciali, ma ricorrere a quelli di sistema più diffusi. Se utilizzate una fonte particolare che possedete solo voi, è possibile che la pagina che leggerà un altro utente in Rete carichi un altro tipo di carattere, e non quello che visualizzate voi e che sta solo sul vostro sistema.

Dopo avere scelto il tipo di carattere, potete impostare il corpo del testo, cioè la dimensione dei caratteri. Quello di sistema è di solito il Times a 12, e questa dimensione è quella comunemente più utilizzata anche per gli altri caratteri, ma per i titoli, per esempio, potete aumentarlo a 14 o anche a 16, dipende dal testo e dagli intenti.

Maiuscole e minuscole

■ Quando una parola deve essere scritta con l’iniziale maiuscola e quando minuscola? ■ Dopo i due punti si può usare la maiuscola? ■ Dopo il punto interrogativo si può evitare la maiuscola? ■ Dopo i puntini di sospensione è sempre obbligatoria la maiuscola? ■ Perché “Monte” Rosa si scrive maiuscolo, ma il “monte” Gran Sasso in minuscolo? ■ Perché il “fiume” Tevere si scrive minuscolo ma il “Lago” Maggiore tutto maiuscolo? ■ Gli eventi storici come la “Rivoluzione” francese si scrivono con la maiuscola? ■ I movimenti artistici o culturali come il “Futurismo” si scrivono con la maiuscola? ■ I periodi storici come il “Rinascimento” si scrivono con la maiuscola? ■ I movimenti artistici o culturali come il “Futurismo” si scrivono con la maiuscola? ■ Le epoche come il “Novecento” o i periodi come gli anni “Settanta” si scrivono con la maiuscola? ■ Quando nord, sud, est e ovest si scrivono con la maiuscola? ■ I nomi degli ordini biologici come i “Mammiferi” si scrivono con la maiuscola? ■ “Luna” che è il nome proprio del nostro satellite si scrive con la maiuscola? ■ I numeri romani si scrivono sempre con la maiuscola? ■ “Dio” si scrive con la maiuscola? ■ Meglio scrivere “I promessi sposi” o “I Promessi Sposi” con le maiuscole? ■ La Divina Commedia si scrive con entrambe le iniziali maiuscole? ■ “Papa” o “re” si scrivono in maiuscolo? ■ Meglio scrivere “I promessi sposi” o “I Promessi Sposi” con le maiuscole? ■ Meglio scrivere “paese” in minuscolo o maiuscolo? ■ I nomi dei popoli si scrivono in maiuscolo? ■ La “Borsa” di Milano si scrive in maiuscolo? ■ I giorni e i mesi si scrivono con l’iniziale maiuscola? ■ Le sigle si scrivono in maiuscolo? ■ Si può usare il maiuscolo per evidenziare un concetto o una parola in un testo? ■ Che cos’è il maiuscoletto?

L’iniziale maiuscola si usa quando si inizia un periodo o nei nomi propri, e più precisamente in questi casi:

● dopo il punto, il punto esclamativo, interrogativo e i puntini di sospensione, se la frase si conclude; anche dopo i due punti seguiti dalle virgolette che si usano nelle citazioni è buona norma usare la maiuscola, per esempio: disse: “Ciao”;
● nei nomi propri di persona (Laura) o animale (Fido), nei soprannomi e appellativi (il Savonarola e il Canaletto);
● nei nomi geografici e topografici (il Monte Rosa, il Lago Maggiore, Palazzo Marino, via del Campo, piazza Tricolore, la Cappella Sistina, ma anche il Nuovo Mondo e l’Estremo Oriente); tuttavia, nei casi in cui il doppio nome non sia parte integrante della denominazione, solo il nome proprio va in maiuscolo, per cui si scrive il Monte Rosa ma il monte Gran Sasso (monte in questo caso non fa parte del nome proprio, è nome comune), così come il Lago Maggiore ma il fiume Tevere;
● nei nomi commerciali di aziende e marchi registrati (la moto Guzzi, i gialli Mondadori);
● nei nomi di enti e istituzioni (per lo più solo la prima parola, il Ministero dei beni culturali, il Movimento cinque stelle, ma non sempre e necessariamente, per esempio la Croce Rossa) e in quelle di associazioni (Avis), squadre sportive (Juventus) o gruppi artistici (i Beatles, i Gufi);
● per alcuni eventi storici significativi (la Rivoluzione francese o la Prima guerra mondiale o anche Prima Guerra Mondiale);
● nel caso delle epoche (il Medioevo, il Risorgimento) e nei nomi di decenni e secoli (gli anni Settanta, l’Ottocento, l’anno Mille) e delle correnti culturali (l’Espressionismo, il Futurismo);
● nei titoli delle opere letterarie, musicali, giornali, riviste o nei documenti ufficiali (lo Zibaldone, la Traviata, l’Espresso, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo);
● nei punti cardinali quando indicano una particolare regione: il Nord America, il Sud Africa (quando invece indicano una direzione si usa il minuscolo: andare a sud, pochi chilometri a nord di Berlino);
● nei nomi delle festività (Natale, Pasqua);
● nei numeri romani (I, II…), tranne quando sono apposti in un testo come apice per indicare le note editoriali, es. xxxiv;
● nelle classificazioni biologiche del regno animale e vegetale quando indicano ordini, classi e famiglie (i Mammiferi, i Lepidotteri, le Conifere) che diventano invece tutti minuscoli quando sono usati in senso comune, così come in senso scientifico si scrive la Luna (il nome proprio del satellite) ma diventa la luna nel linguaggio comune.

Dio, stando al dizionario, per rispetto si scrive maiuscolo quando indica l’essere supremo delle grandi religioni monoteistiche, mentre diventa un dio quando si riferisce alle altre divinità, “al tempo degli dei falsi e bugiardi” per dirla con Dante (Divina Commedia, Inf., I, 72).

Quando si scrive in maiuscolo una lettera accentata è sempre evitare di usare l’apostrofo invece dell’accento, ed è consigliabile cercare il simbolo apposito tra i caratteri speciali, visto che non è presente sula tastiera. In particolare bisogna fare attenzione alla voce del verbo essere “è”, che sia in minuscolo sia in maiuscolo, va scritta con il suo accento grave (“è” e “È” e non e’ e E’): accento e apostrofo sono infatti due segni diversi.

Maiuscole o minuscole?

Se un tempo si tendeva a utilizzare il più possibile le iniziali maiuscole, oggi la tendenza è quella di evitarle, quando non sono indispensabili. Vanno scomparendo e attenuandosi sempre maggiormente le forme reverenziali, un tempo preferibilmente maiuscole. Ormai nessuno (o quasi) si fa chiamare “dottore” per ostentare la laurea, per cui scrivere Dottore addirittura in maiuscolo risulta sempre più fuori luogo. Come anche presidente, ministro, re e papa si possono tranquillamente scrivere in minuscolo, quasi obbligatoriamente quando sono apposizioni di nomi (re Umberto II, papa Francesco, il presidente della Repubblica, il marchese del Grillo), mentre da soli, il Papa e il Re, si possono tollerare, ma stanno cadendo in disuso. Anche nelle lettere formali o commerciali, sono ormai in regressione e suonano un po’ obsolete le formule referenziali di una volta che prevedono l’uso delle maiuscole per i pronomi che riguardano il destinatario come: “PorgendoLe i miei migliori auguri La saluto cordialmente”.

E così, anche se paese (minuscolo) indica un agglomerato urbano e Paese indica una nazione, ormai questa distinzione si trova sempre meno, nei libri e sui giornali, e non è più obbligatoria, come anche i nomi dei popoli (gli Italiani, i Cinesi) tendono a comparire sempre più in minuscolo, senza più fare distinzioni tra il loro uso come nome (gli Inglesi), e quello come aggettivo (i costumi inglesi) obbligatoriamente in minuscolo, in questo secondo caso. Sono ancora diffusi e quasi obligatori, invece, nel caso delle popolazioni antiche: gli Egizi, gli Etruschi.

Le distinzioni tra maiuscole e minuscole continuano ad avere un senso in certi contesti per esempio per differenziare il significato di alcune parole: una chiesa e la Chiesa (come istituzione), la borsa e la Borsa (degli affari), un consiglio e il Consiglio (dei ministri o di amministrazione), la facoltà di parola e la Facoltà di Filosofia… Altre volte si può scrivere per esempio Web o Internet con le iniziali maiuscole, ma nel vocabolario sono riportati minuscoli e di fatto non c’è una regola per preferire una forma all’altra, soprattutto quando questi termini penetrano nel nostro linguaggio in modo profondo e sempre più diffuso.

Non c’è alcuna ragione per scrivere con l’iniziale maiuscola, come spesso si vede, per esempio i nomi dei mesi, o i giorni della settimana: non sono nomi propri di mesi e giorni, sono nomi comuni: lunedì 3 gennaio.

Ciò vale anche, dopo la prima parola, per i titoli dei libri, dei film e simili, che spesso sono scritti per vezzi grafici con le iniziali maiuscole, all’americana, per cui si trova I promessi sposi, ortograficamente corretto e preferibile (a mio gusto), ma anche I Promessi Sposi. Fate un po’ come volete, in questi casi, è una questione di stile (ma Divina Commedia si scrive per convenzione sempre con la doppia maiuscola).

Un discorso a parte va fatto per le sigle e gli acronomi che un tempo si scrivevano preferibilmente in maiuscolo (ENEL, AIDS), ma oggi la tendenza è di riportare almeno quelle più conosciute solo con l’iniziale maiuscola (Unesco, Fiat) o addirtura completamente in minuscolo per quelle entrate nell’uso comune (tv, cd). Per approfondire l’uso delle maiuscole in questi casi e anche il loro genere e la loro pronuncia, vedi → “Sigle e acronimi“.

Per lo stesso motivo di carattere grafico e di buon gusto, nell’editoria non si usa mai il maiuscolo per evidenziare parole o concetti a cui dare risalto all’interno di un testo. Si tende a evitare il corpo tutto maiuscolo persino nei titoli, perché appesantisce, a maggior ragione nel testo è meglio farne a meno. Per dare risalto a delle parole meglio usare il grassetto o il corsivo (vedi → “Lo stile di un testo e l’uso del corsivo“).

Quando non si può fare a meno del maiuscolo è preferibile scegliere il maiuscoletto, che mantiene la differenza tra maiuscole e minuscole, ed è più aggraziato, se si vuole introdurre in qualche titolo.

I due punti

■ Quando si usano i due punti? ■ Dopo i due punti si può usare la maiuscola? ■ Sono indispensabili i due punti prima degli elenchi? ■ Come si abbinano i due punti con le virgolette nel discorso diretto? ■ È giusto scrivere ho mangiato: un panino? ■ Si possono usare i due punti nello scrivere l’ora seguita da minuti e secondi? ■ Si possono usare i due punti nel discorso indiretto?

I due punti servono a specificare e chiarire qualcosa che segue, e hanno la funzione di precisare; per esempio:

a quel punto ho capito tutto: l’assassino era il maggiordomo.

Però non si possono usare per specificare per esempio l’oggetto di un verbo, dunque si dice ho mangiato un panino (e non ho mangiato: un panino).

Si usano anche per introdurre il discorso diretto (mai quello indiretto), e sono in questo caso di solito seguiti dalle virgolette; per esempio:

le domandai: “E tu che fai?” (e mai per il discorso indiretto: “le domandai: che cosa facesse”).

Dopo i due punti si procede con la minuscola, tranne quando sono seguiti dalle virgolette, in tal caso è buona norma cominciare con la maiuscola (mi disse: “Aspettami!”).

Si impiegano di solito (anche se non sempre e obbligatoriamente) prima degli elenchi (es. ingredienti: uova, farina, latte); quando gli elenchi sono numerati o “elenchi punto” diventano indispensabili ed è consigliabile anche andare a capo subito dopo. Per esempio:

lista della spesa:

● detersivo;
● vino;
● insalata.

Si trovano anche per indicare le ore in modo puntuale con la separazione di minuti e secondi, per esempio: sono le 15:34:05. E poi si possono trovare in matematica come segno di divisione (8 : 2 = 4).

I caratteri della tastiera e lo spazio

■ Quando si usa lo spazio bianco? ■ Perché bisogna evitare i doppi spazi? ■ Quando si usa la e commerciale (&)? ■ Perché il cancelletto (#) è impropriamente detto hastag? ■ Per scrivere 1° si usa lo stesso carattere dei gradi centigradi (°)?

Quando si scrive non si ha a che fare solo con le lettere dell’alfabeto, ci sono anche i caratteri accentati (é, è), i segni che servono per la punteggiatura, l’apostrofo e moltissimi altri caratteri.

Anche lo spazio bianco è un carattere: la barra spaziatrice serve per separare le parole. In generale non va mai messo prima della punteggiatura, e non si mette mai per separare le parentesi o le virgolette dalla parola che racchiudono.

Quando si scrive è bene evitare di usare i doppi spazi all’interno del testo: essendo a tutti gli effetti caratteri, scombinano l’impaginazione o creano una separazione tra le parole eccessiva. Anche il carattere della tabulazione (talvolta indicato sulla tastiera con tab, o con il simbolo della freccia) è da evitare nei testi che devono poi essere giustificati e impaginati, perché introduce una serie di spazi fissi che rimaneggiando il testo possono creare spaziazioni errate.

Tra i caratteri non alfabetici più frequenti presenti sulla tastiera ci sono i simboli delle monete (, £, $), il percento (%) o la “e commerciale” (&) che è sempre meglio evitare quando si scrive in italiano: se non fa parte di un nome proprio (es. il gruppo musicale Kim & The Cadillacs) si sostituisce con la “e” normale (mentre in inglese equivale a “and”). Il simbolo ° si usa per indicare per esempio i gradi centigradi (10 °C), anche se spesso si usa per semplicità anche come indicatore dei numeri ordinali (1°, 2°… al femminile sostituito da una “a” in apice, 1ª = prima); per essere pignoli sarebbero due caratteri leggermente differenti (se le fonti scelte e i programmi di scrittura li supportano), e “primo” corrisponderebbe a una piccola o, più ovale.

Ci sono poi altri caratteri che nell’era di Internet sono diventati imprescindibili, per esempio la chiocciola (@) che si impiega negli indirizzi di posta elettronica o il cancelletto (#), impropriamente detto anche hastag (ma in inglese si chiama hash, e hashtag è un composto con tag = etichetta) che, posto prima di una parola, serve per creare una categoria o un’etichetta che si può inserire e rintracciare su varie piattaforme sociali.

Infine, bisogna tenere presente che possono servire moltissimi altri caratteri che non sono presenti sulla tastiera e che all’occorrenza vanno individuati e inseriti cercandoli tra i simboli e i caratteri speciali.

Apostrofo: elisione e troncamento

■ Cos’è l’elisione? ■ Cos’è un troncamento? ■ Cos’è l’aferesi? ■ Che differenza c’è tra elisione e troncamento? ■ Che differenza c’è tra apostrofo e accento? ■ I troncamenti richiedono l’apostrofo? ■ Quando l’apostrofo è obbligatorio? ■ Davanti a vocale l’apostrofo è sempre obbligatorio? ■ Scrivere questa azienda è errato? ■ Si può dire c’è e c’ha? ■ Qual è e tal altro si possono scrivere con l’apostrofo? ■ Si può scrivere qual’erano? ■ Quali sono i troncamenti che richiedono l’apostrofo? ■ Perché non si può scrivere “la penna d’Antonio” ma si scrive “d’altro canto”? ■ Per ché “l’isola” si apostrofa ma la iella non si può apostrofare? ■ Si può apostrofare una parola che inizia per consonante? ■ Si può scrivere l’Fbi o l’8 marzo? ■ Tra e fra si possono apostrofare?

L’apostrofo (che non bisogna mai confondere con l’accento) si mette al posto di una vocale che cade e viene omessa, e si chiama anche elisione (da elidere). Sta al posto dell’ultima vocale di una parola, che si sostituisce con l’apposito segno () e si attacca alla parola successiva. Il motivo di queste elisioni è quello di far suonare meglio e in modo più naturale e semplice la pronuncia.

L’apostrofo prende il posto dello spazio che dividerebbe le parole, dunque le parole apostrofate si scrivono attaccate e senza spazio, come fossero una sola (mai scrivere “l’ amico“).

Proprio per questa ragione eufonica, l’uso dell’apostrofo è spesso una questione di stile e di orecchio: non ci sono delle regole rigide, e si può scrivere correttamente sia “una ipotesi” sia “un’ipotesi”, oppure “questa azienda” e “quest’azienda” (ma anche se non è grammaticamente scorretto la forma apostrofata è preferita e molto più frequente). Per sapere di più sull’uso con gli articoli vedi → articoli determinativi e → indeterminativi.

Più precisamente, l’uso dell’apostrofo davanti a vocale è facoltativo con:

questo e questa (solo al singolare): questo uomo o quest’uomo;
● la preposizione di: di interesse o d’interesse, di intesa e d’intesa;
● le particelle pronominali mi, ti, si e vi (nel caso di ci è obbligatorio con il verbo essere, c’è e c’era, ma errato con le parole che iniziano con altra vocale e il verbo avere, c’aveva, c’ho): mi illumino e m’illumino, ti amo e t’amo
anche seguito dai pronomi personali: anche io o anch’io, anche egli o, anch’egli (ma solo in questi casi, non si può dire anch’Elena);
come, dove, quando e quanto seguiti dal verbo essere: come è o com’è, dove è o dov’è… (ma non si usa dire quand’andiamo o quant’armonia).

L’elisione è invece diventata obbligatoria davanti a vocale:

● con gli articoli lo e la (e le preposizioni articolate da loro formate): l’anima, l’apostrofo, dell’uomo, sull’albero, nell’acqua;
● con quello e bello (solo al singolare): bell’armadio, bell’uomo, quell’altro;
● con ci seguito dalle forme del verbo essere che iniziano con è: c’è, c’era, c’erano;
● con santo seguito da una parola che inizia con vocale: sant’Antonio, sant’Anna;
● in varie frasi fatte come mezz’ora, d’altra parte, d’ora in poi, d’altronde, buon’anima, senz’altro

Viceversa, l’elisione non si fa mai:

● con da: andiamo da Antonio, vengo da Ancona, da anni (tranne in alcune locuzioni fatte come: d’altro canto, d’altra parte, d’ora innanzi, d’ora in poi, d’altronde…);
● con le, gli e i loro derivati e composti: le elezioni (e mai l’elezioni), delle erbe, degli altri, gli elefanti (solo davanti alla i è in teoria possibile apostrofare gli, per esempio gl’istrici, ma è meglio evitarlo, non è molto usato);
● con su, tra e fra: tra amici, fra alunni;
● davanti alle i con valore di semiconsonante (cioè che fungono da consonanti perché sono seguite da vocale): la iella (e mai l’iella), la Juventus, la iuta
● Con questi, queste, quelle, quegli, belle, belli, begli…: che begli occhi (meglio non scrivere begl’occhi).

Talvolta, si usa l’apostrofo anche quando una parola si pronuncia come se iniziasse per vocale, e per esempio si può scrivere l’Fbi, perché anche se si scrive con la f è pronunciato come se iniziasse per e (sulla pronuncia delle sigle vedi “Sigle e acronimi“); lo stesso vale nel caso di l’8 marzo (perché è considerato come se iniziasse con la o). Dunque in questi casi si può trovare l’apostrofo anche per parole che iniziano con consonante o con numeri.

Il troncamento

Il troncamento si distingue dall’apostrofo perché anche se in qualche caso si usa il medesimo segno per indicare la caduta di un sillaba (po’ per poco, a mo’ per a modo), non si lega alla parola successiva, e fa parte della parola troncata.

Quando po’ è vicino ad altre parole mantiene lo spazio di separazione: “un po’ a me” è ben diverso da “l’amico” che si scrive tutto attaccato. Nel primo caso l’apostrofo è parte integrante della parola che ha perso una sillaba e che vive da sola, nel secondo caso lo stesso segno indica che è avvenuta la caduta di una vocale per l’elisione (l’ non è una parola che vive da sola).

Negli altri casi, però, i troncamenti non richiedono l’apostrofo e utilizzarlo nelle forme tronche sarebbe un errore grave: buon uomo non si apostrofa mai, e il fatto che la parola che segue buon inizi per vocale o consonante è indifferente, si scrive “un buon amico” esattamente come “buon pasto”, “buon libro” o “buon giorno”.

Gli errori più comuni e diffusi in proposito riguardano tale e quale: si scrive “qual è”, “qual era”, “tal uomo”, “tal altro” sempre senza apostrofo, come a “tal punto”, perché tal e qual sono parole che vivono da sole e sono già tronche, non necessitano perciò dell’elisione: “Qual’è” è uno degli errori/orrori più diffusi da evitare!
L’uso di qual e tal tronchi o per esteso è facoltativo, si può dire qual buon vento ma anche quale buon vento, così come si può dire “chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto” (I promessi sposi), e in qual maniera, la qual cosa, qual si voglia, chissà in qual ordine

Invece al plurale quali si può elidere (la forma tronca qual significa quale, non quali), dunque è corretto scrivere qual’erano oltre a quali erano.

Dunque, quando esiste una parola tronca che vive da sola, come qual, tal, buon, alcun… non bisogna mai usare la parola senza troncamenti e apostrofarla!
Lo stesso vale nel caso degli articoli indeterminativi un e uno: al maschile uno non si apostrofa mai, si usa la forma tronca un; solo al femminile, visto che esiste solo la forma una, la si apostrofa davanti a vocale: un’amica (ma mai un’amico).
Allo stesso modo non si mette l’apostrofo in casi come signor Antonio (signor al posto di signore vive da solo: per es. signor Marco), nessun amico e nessun soldo (nessuno segue le regole di uno da cui è composto).

I troncamenti che richiedono l’apostrofo

Tra i pochi casi di troncamento che richiedono l’apostrofo oltre a po’ (troncamento di poco, che non bisogna mai scrivere con l’accento: “” è un errore) e mo’ (nel significato di a modo: a mo’ d’esempio) c’è anche to’ (prendi), ca’ (nel senso di casa: ca’ Foscari).
Spesso si trova l’apostrofo anche negli imperativi tronchi: fa’ (= fai), da’ (= dai), sta’ (= stai), va’ (= vai), ma non obbligatoriamente (queste forme verbali si trovano anche per esteso, a parte di’ = dimmi).
Oppure si usa l’apostrofo nelle date troncate: il ’68 (cade la prima parte sottintesa di 1968).

L’unico caso in cui si usa l’accento invece dell’apostrofo per indicare un troncamento è piè al posto di piede (Achille piè veloce, a piè di pagina, piè fermo), e poi alcuni dizionari riportano anche l’imperativo del verbo dare da’ affiancato anche dalla variante accentata (decisamente meno corretta ed elegante).

L’elisione nell’aferesi

L’elisione, infine, può comparire anche quando la caduta di una sillaba è all’inizio di parola (in questo caso il “troncamento” iniziale si chiama aferesi) per esempio nelle forme di registro popolare come ‘sto e ‘sta (meglio evitarle fuori dai registri popolari) al posto di questo o questa, in quelle poetiche come ‘l per il (S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo), o in quelle gergali non ufficializzate nei dizionari come ‘notte per buonanotte.

Vedi anche
→ “Apostrofo e accento sono segni diversi da non confondere
→ “Uno, un e una: gli articoli indeterminativi e quando si apostrofano
→ “L’apostrofo degli articoli: non si usa nel caso di gli e le” (paragrafo interno al collegamento)
→ “Le preposizioni articolate” (contiene le prescrizioni sull’apostrofo)

Apostrofo e accento sono segni diversi da non confondere

■ Che differenza c’è tra apostrofo e accento? ■ Perché po’ si scrive con l’apostrofo e però con l’accento? ■ Si può scrivere “pò”? ■ Si può scrivere E’ al posto di È? ■ Il troncamento di piede è piè o pie’?

Anche se si assomigliano, non bisogna confondere mai l’accento grafico con l’apostrofo, detto anche elisione: sono due segni diversi.

Per ragioni eufoniche, quando una parola che termina con vocale (es. una) è seguita da un’altra che inizia con vocale (es. amaca), l’ultima vocale della prima parola si può omettere sostituendola con l’apostrofo (un’amaca).

Questo segno indica perciò che è avvenuta la caduta di una lettera, ma talvolta, e solo di rado, si pone anche per indicare che è avvenuto un troncamento, cioè la caduta di una sillaba finale di una parola. Per esempio è obbligatorio l’apostrofo con: po’ (= po-co), a mo’ di (= mo-do), ca’ Foscari (= ca-sa Foscari).

La confusione che talvolta si può generare con l’accento si verifica proprio in questi casi: quando l’apostrofo è posto a fine parola. Ma non bisogna mai scrivere po’ con l’accento (). In altri termini, non bisogna confondere le parole tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba, come maestà, perché o caffè, colibrì, però e Belzebù) con quelle “troncate”, cioè che hanno subito un troncamento, come po’.

L’unico caso in cui si usa l’accento per indicare un troncamento è piè invece di piede (Achille piè veloce, a piè di pagina), ma si può considerare “l’eccezione che conferma la regola” (anche se qualche dizionario annovera con l’accento accanto alla forma più corretta da’ per l’imperativo tronco di dare (al posto di dai).  

Per lo stesso motivo, non bisogna neanche mai usare l’apostrofo al posto dell’accento e scrivere per esempio realta’ o caffe’ invece di realtà e caffè, e questo vale anche nei casi in cui il carattere accentato non è presente sulla tastiera, come avviene per la è maiuscola (che si scrive È e non E’ così come nel caso del minuscolo si scrive è e non e’).

Gli accenti grafici

■ Quando l’accento grafico coincide con l’accento tonico? ■ Quali sono gli accenti grafici? ■ Quando si usa l’accento circonflesso? ■ È meglio scrivere l’accento per non confondere parole come àncora e ancòra? ■ Che differenza c’è tra accento grave e accento acuto? ■ Quando si usa l’accento nei monosillabi? ■ Perché su qui e qua l’accento non va? ■ Perché sugli avverbi e è obbligatorio l’accento? ■ Perché me e te si scrivno senza accento ma vule l’accento? ■ Perché sulle tastiere la E è presente con due tipi di accento mentre tutte le altre vocali ne hanno uno solo? ■ Perché nei monosillabi come giù, già o ciò si mette l’accento?

Non bisogna confondere l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere e riguarda l’ortografia, con quello tonico, che riguarda la pronuncia e dà l’intonazione: sono due cose diverse che solo in pochi casi possono coincidere.

Quando pronunciamo una parola facciamo sempre cadere l’accento tonico su una vocale che contraddistingue una sillaba, e le parole possono essere perciò piane (accentate sulla penultima sillaba, per es. càne), sdrucciole (accentate sulla terz’ultima, per es. càvolo), tronche (accentate sull’ultima, per es. maestà) e così via (vedi → “La pronuncia delle parole”).

Solo in quest’ultimo caso l’accento tonico (che si pronuncia ma non si scrive) coincide con l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere. Questo accento si usa solo sulle vocali alla fine delle parole per indicare quando sono tronche, cioè accentate sull’ultima sillaba (papà, però, virtù).

Gli accenti grafici sono due, quello acuto (es. perché, pronuncia stretta) e quello grave (es. è, pronuncia aperta) e si mettono solo sulle vocali. Si può immaginare questo segno come un rubinetto che apre o chiude la pronuncia spostando la lineetta da sinistra a destra: , caffè (pronuncia aperta) e , (pronuncia chiusa e stretta). Per saperne di più → “E e O aperte o chiuse? La pronuncia cambia il senso“.

Un tempo nei libri si poteva trovare anche l’accento circonflesso, che si usava per indicare un’originaria doppia i, poi caduta, per esempio in parole come principî o dominî (contrazione dei plurali principii e dominii) proprio per fare capire la giusta pronuncia e non far confusione con “i prìncipi” e “tu dòmini”, ma nell’italiano corrente questa consuetudine sta sempre di più scomparendo e l’accento circonflesso è ormai caduto in disuso: nell’editoria si tende a non utilizzarlo più.

Anche la consuetudine di indicare gli accenti tonici in caso di confusione possibile (àncora e ancòra) è poco seguita, si capisce dal contesto e indicarla forzatamente costituisce uno strappo alle regole che si può fare se proprio è necessario, ma non è affatto obbligatorio né necessariamente elegante.

Nel caso di à, ì e ù, non è importante distinguere l’accento: la pronuncia è una sola, e di solito si usa l’unica lettera accentata presente sulla tastiera, con l’accento grave. Anche nel caso della “o“, benché abbia due pronunce possibili, quando è accentata a fine parola si legge sempre aperta, e dunque si usa l’accento grave (però, menabò, Totò…).

La questione si complica per la lettera “e”, che può avere l’accento grave pronunciato aperto (è) o acuto che si pronuncia chiuso (é). Quindi si scrive sempre perché (e mai perchè o perche’ con l’apostrofo al posto dell’accento), esattamente come poiché, affinché, benché, cosicché, purché, , e tutti i composti di tre (ventitré, trentatré, centotré).

L’accento acuto si usa di solito anche nelle terze persone singolari del passato remoto di verbi come poté, batté, ripeté, mentre nel caso del verbo essere si scrive e pronuncia aperto: è.

In genere nei monosillabi l’accento non si usa: qui e qua (“su cui l’accento non va”, come recita la regola), sta, su, sto… e si aggiunge solo quando è necessario indicare una differenza rispetto a un altro monosillabo che possiede un diverso significato, per esempio: bevanda e te pronome (dico a te); pronome e se congiunzione; congiunzione negativa e ne particella; affermativo e si riflessivo (per il no invece non è necessario); nel senso di giorno e di preposizione (c’è anche di’ imperativo di dire, con l’apostrofo, non con l’accento); e avverbi di luogo e li pronome e la articolo; dal verbo dare e da preposizione.

Nel caso di fa e do (voci dei verbi fare e dare) non è necessario distinguerli dalle note musicali (che non sono mai accentate), si capisce dal contesto, come anche per le note re e si, che è difficile confondere con il titolo di re o il si riflessivo. Tuttavia si usa quasi sempre l’accento quando i monosillabi si fondono con altre parole: re diventa viceré, tre diventa ventitré, su diventa lassù… perché acquisendo altre sillabe si rende necessario rimarcare l’accento finale che quando sono monosillabi si dà per scontato. Analogamente si usa l’accento su parole come giù, ciò e già, perché pur essendo monosillabi hanno più di una vocale, e dunque presentano ambiguità di pronuncia e l’accento finale è indicato come nel caso dei polisillabi.

Bisogna fare attenzione a non confondere l’accento con l’apostrofo e scrivere per esempio “” (accentato) invece di po’, oppure e’ e E’ al posto di “è” e “È“.

Vedi anche
→ “Si scrive se stesso o sé stesso?
→ “Quando l’accento cambia il significato

L’alfabeto e il falso mito delle lettere straniere

■ Cosa distingue le vocali dalle consonanti? ■ Che differenza c’è tra vocali forti e deboli? ■ La J è una vocale o una consonante? ■ Perché alcune lettere sono considerate straniere? ■ Il numero dei fonemi è uguale a quello delle lettere dell’alfabeto? ■ Perché, per scrivere, i segni dell’alfabeto non bastano? ■ Nella scrittura si usano anche lettere di alfabeti diversi dal nostro?

L’alfabeto moderno è costituito da 26 segni o grafemi che seguono un ordine preciso, l’ordine alfabetico appunto, che permette di rintracciare facilmente ogni parola in un dizionario o in un indice analitico:


a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z.

Si possono dividere in vocali e consonanti.
Le prime (A, E, I, O, U ma anche y e j quando sono pronunciate come la i, se invece la j si pronuncia “g” come in jolly si comporta da consonante) si chiamano così perché derivano da voce: sono suoni sonori che si pronunciano con la voce e costituiscono la parte forte della sillaba.
Le consonanti si appoggiano alle vocali e si possono distinguere a seconda di come vengono articolate in labiali, linguali, dentali, palatali o gutturali. Ma queste distinzioni appartengono alla fonetica, non riguardano la scrittura (Per saperne di più → “Fonologia e fonetica“).

Vocali forti e deboli
A, E e O  sono chiamate vocali forti, e I e U deboli. Questa distinzione serve per comprendere meglio la differenza tra dittongo e iato. Due vocali che si pronunciano con un’unica emissione sono dittonghi e di solito sono costituiti da 2 vocali deboli (es. pie-no, chiu-so) oppure dalla combinazione di una forte e una debole all’interno della stessa sillaba (es. fio-re). Lo iato è invece l’incontro di due vocali che si pronunciano con suono separato (po-eta, le-one, pa-ese, be-ato). Questa distinzione è importante anche per comprendere meglio la → divisione in sillabe.

Non è vero, come si dice spesso, che a ogni lettera corrisponde un solo suono, questa è solo una semplificazione. La “c” e la “g“, per esempio, possono essere dolci o dure, la “s” e la “z” sorde o sonore, le vocali “e” e “o” possono essere aperte o chiuse. Dunque i fonemi pronunciabili sono di più, come insegna la fonologia (per saperne di più → “La pronuncia delle lettere“). Viceversa, alcuni caratteri associano a una lettera anche un accento, grave o acuto (é e è) che è necessario utilizzare.

Per scrivere, però, non basta conoscere le lettere del nostro alfabeto! Ci sono anche grafemi di altri alfabeti in cui si può imbattere, come quello greco, per esempio alfa (α), beta (β) e così via fino a omega (in maiuscolo Ω è simbolo dell’ohm), oppure l’alef (א), la prima lettera dell’alfabeto ebraico, che si usa in matematica… Nei programmi di scrittura questi caratteri si trovano tra quelli speciali o tra i simboli. Ma esistono moltissimi altri caratteri presenti sulla tastiera, a cominciare dall’apostrofo, dalle lettere accentate (è, é) e dai segni d’interpunzione per finire con altri caratteri speciali che si usano comunemente come il percento (%), la e commerciale (&) e molti altri simboli che bisogna conoscere e padroneggiare (, @, °…). Per saperne di più vedi anche → “Le norme editoriali“.

Le cosiddette lettere straniere

Solitamente, si dice che il nostro alfabeto sia costituito da 21 lettere più 5 straniere (j, k, w, x, y), ma non è propriamente vero. La “k“, per esempio, si trova nelle prime e più antiche testimonianze del volgare scritto (i Placiti cassinesi: “Sao ko kelle terre…”, cioè: so che quelle terre) ed era presente anche nei dialetti e nell’italiano arcaico. E lo stesso si può dire della “j lunga” (sempre più spesso pronunciata immotivatamente all’inglese, jay) molto diffusa fino al Settecento, ma sopravvissuta anche dopo (si trova in Pirandello che scriveva “jella”). Quanto alla “x”, a parte l’uso nei numeri romani, e l’esistenza di parole come xilofono, tra gli uomini che combatterono per l’unità d’Italia al seguito di Garibaldi non bisogna dimenticare che c’era anche Nino Bixio! La “y“, chiamata anche “i greca” era appunto presente nel greco, e solo la “w” ci è veramente estranea, anche se il suo uso come abbreviazione di “evviva” è attestato almeno dall’Ottocento.

Agricola di Tacito, ediz. del 1805: l’uso della i lunga era normale.

Tuttavia, l’uso di queste lettere appartiene all’italiano antico e storico, e nel corso dei secoli sono decadute, il lessico dell’italiano moderno le ha escluse, e perciò quasi tutte le voci che contengono queste cinque lettere sono straniere. Poiché però l’italiano evolve (ed è evoluto) anche per l’interferenza delle altre lingue, queste lettere si possono considerare assimilate. Sono presenti e utilizzate sulle tastiere con cui scriviamo, e sono necessarie, visto che i dizionari monovolume registrano circa 5.000 parole straniere crude (cioè non adattate e riportate più o meno come si scrivono nella lingua di provenienza), a cui si possono aggiungere tantissimi nomi propri (da Tokyo a New York e da William Shakespeare a Johnny Depp).

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