Condizionale: i tempi e le coniugazioni

■ Come si coniuga il condizionale dei verbi regolari in -are? ■ Come si coniuga il condizionale dei verbi regolari in -ere? ■ Come si coniuga il condizionale dei verbi regolari in -ire? ■ Come si coniugano gli ausiliari essere e avere al condizionale? ■ Come si coniuga la forma passiva del condizionale dei verbi regolari? ■ Quanti sono i tempi del condizionale? ■ Come cambia la vocale tematica dei verbi regolari in -are al condizionale?

La coniugazione del condizionale ha solo due tempi:

● il presente (tempo semplice)
● e il passato (tempo composto dall’ausiliare essere/avere + il participio passato).

Per stabilire se un verbo vuole come ausiliare essere o avere bisogna sapere che tutti i verbi transitivi (quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”) si appoggiano all’ausiliare avere, mentre per i verbi intransitivi non c’è una regola fissa (andare, per es., si appoggia a essere: sarei andato, ma litigare vuole avere: avrei litigato) e dunque, in caso di dubbi non resta che consultare un dizionario.

Va poi ricordato che nel caso dell’ausiliare essere il participio si concorda nel numero e nel genere (per cui io sarei stato diventa noi saremmo stati al plurale, io sarei stata e noi saremmo state nel femminile), mentre con il verbo avere rimane invariato (noi avremmo avuto).

Il condizionale di essere e avere

presente passato presente passato
io sarei io sarei stato io avrei io avrei avuto
tu saresti tu saresti stato tu avresti tu avresti avuto
egli sarebbe egli sarebbe stato egli avrebbe egli avrebbe avuto
noi saremmo noi saremmo stati noi avremmo noi avremmo avuto
voi sareste voi sareste stati voi avreste voi avreste avuto
essi sarebbero essi sarebbero stati essi avrebbero essi avrebbero avuto

I verbi regolari in –are

Nella tabella seguente è possibile vedere come si coniugano i verbi regolari che terminano in –are (sul modello di lodare) nella forma attiva e passiva (quest’ultima è possibile solo per i verbi transitivi, quelli intransitivi hanno solo la forma attiva).

Il condizionale di lodare

presente attivopassato attivo presente
(al passivo)
passato
(al passivo)
io lod-erei io avrei lodato io sarei lodato io sarei stato lodato
tu lod-eresti tu avresti lodato tu saresti lodato tu saresti stato lodato
egli
lod-erebbe
egli avrebbe lodato egli sarebbe lodato egli sarebbe stato lodato
noi
lod-eremmo
noi avremmo lodato noi saremmo lodati noi saremmo stati lodati
voi lod-ereste voi avreste lodato voi sareste lodati voi sareste stati lodati
essi
lod-erebbero
essi avrebbero lodato essi sarebbero lodati essi sarebbero stati lodati

Come si può notare, nella coniugazione del condizionale dei verbi in –are la vocale tematica dell’infinito a si trasforma in e: lod-a-re, am-a-re e parl-a-re si trasformano in lod-e-rei, am-e-rei, parl-e-rei e così via (lod-e-resti, am-e-resti e parl-e-resti) senza particolari difficoltà.

Le uniche particolarità che vale la pena precisare sono che:

● i verbi che terminano in –ciare e –giare al condizionale mantengono il suono dolce, ma perdono la i, quindi: comin-ciare oman-giare si trasformano in comin-cerei e man-gerei (e non comincierei e mangierei), comin-ceresti, man-geresti e così via;
● i verbi che terminano in –care e –gare, invece, per mantenere il suono duro, al condizionale prendono la h: gio-care o pa-gare si trasformano in gio-cherei e pa-gherei (e non gio-cerei e pa-gerei), gio-cheresti, pa-gheresti e così via.

I verbi regolari in –ere

Nella tabella seguente è possibile vedere come si coniugano i verbi regolari che terminano in –ere (sul modello di temere) nella forma attiva e passiva (quest’ultima è possibile solo per i verbi transitivi, quelli intransitivi hanno solo la forma attiva).

Il condizionale di temere

presente attivopassato attivopresente
(al passivo)
passato
(al passivo)
io tem-erei io avrei temuto io sarei temuto io sarei stato temuto
tu tem-eresti tu avresti temuto tu saresti temuto tu saresti stato temuto
egli tem-erebbe egli avrebbe temuto egli sarebbe temuto egli sarebbe stato temuto
noi
tem-eremmo
noi avremmo temuto noi saremmo temuti noi saremmo stati temuti
voi tem-ereste voi avreste temuto voi sareste temuti voi sareste stati temuti
essi
tem-erebbero
essi avrebbero temuto essi sarebbero temuti essi sarebbero stati temuti

In sintesi, i verbi che terminano in –ere nella coniugazione al condizionale mantengono la vocale tematica e: corr-e-re si trasforma in corr-e-rei, corr-e-resti e così via.

I verbi regolari in –ire

Nella tabella seguente è possibile vedere come si coniugano i verbi regolari che terminano in –ire (sul modello di sentire) nella forma attiva e passiva (quest’ultima è possibile solo per i verbi transitivi, quelli intransitivi hanno solo la forma attiva).

Il condizionale di sentire

presente attivo passato attivo presente
(al passivo)
passato
(al passivo)
io sent-irei io avrei sentito io sarei sentito io sarei stato sentito
tu sent-iresti tu avresti sentito tu saresti sentito tu saresti stato sentito
egli sent-irebbe egli avrebbe sentito egli sarebbe sentito egli sarebbe stato sentito
noi
sent-iremmo
noi avremmo sentito noi saremmo sentiti noi saremmo stati sentiti
voi sent-ireste voi avreste sentito voi sareste sentiti voi sareste stati sentiti
essi
sent-irebbero
essi avrebbero sentito essi sarebbero sentiti essi sarebbero stati sentiti

Riassumendo, i verbi che terminano in –ire nella coniugazione al condizionale mantengono la vocale tematica i: sal-i-re e fin-i-re si trasformano in sal-i-rei, sal-i-resti, fin-i-rei, fin-i-resti e così via.

Il modo condizionale: quando si usa

■ Cos’è il modo condizionale? ■ Quando si usa il modo condizionale? ■ Il condizionale si può usare da solo nelle frasi autonome? ■ Il condizionale si può usare nelle frasi subordinate? ■ Nei periodi ipotetici il condizionale forma la frase reggente o quella subordinata? ■ Ci sono casi in cui si può usare il condizionale al posto del congiuntivo?

Il modo condizionale si chiama così perché serve prevalentemente per esprimere qualcosa che può realizzarsi solo a certe condizioni, e i suoi tempi sono solo due, il presente e il passato:

● (in questo momento) non avrei fame se mangiassi un panino (condizione);
● (ieri) non avrei avuto fame se avessi mangiato un panino (condizione).

Il condizionale nelle frasi autonome e indipendenti

Molto spesso il condizionale si usa in frasi reggenti che richiedono un frase subordinata al congiuntivo (la condizione), cioè nel periodo ipotetico. Ma non è sempre così, il condizionale si può usare anche da solo, nelle proposizioni autonome, e in genere rappresenta il modo della gentilezza: invece di impartire un ordine con l’imperativo (un modo decisamente più prepotente), per esempio: passami il sale!, si può dire più educatamente: mi passeresti il sale?

Più precisamente, il condizionale usato autonomamente può di volta in volta esprimere:

● una richiesta di cortesia (mi diresti che ore sono?);
● un desiderio o un’intenzione (berrei una birra);
● un dubbio o un’opinione (dove potrei andare? Non avrei saputo cosa fare);
● un’affermazione attenuata o dubitativa (andrei a casa);
● una supposizione (l’assassino sarebbe il maggiordomo).

L’uso del condizionale nelle frasi principali e dipendenti

Oltre a questi usi autonomi, il condizionale si può trovare nel periodo sia all’interno di frasi principali sia all’interno di quelle subordinate o dipendenti, e si può alternare con l’indicativo oppure con il congiuntivo.

Nei periodi ipotetici può formare la frase reggente da cui dipende la subordinata al congiuntivo:

● volerei (principale) → se avessi le ali;
● sarei andato in vacanza → se avessi potuto;
● rimarrei in casa → qualora piovesse.

Altre volete si trova invece nelle frasi subordinate:

● mi domando (principale) → se verresti con me (interrogativa indiretta);
● ti telefono perché vorrei chiederti un favore (causale);
● il gatto che sarebbe sul tetto (relativa);

e in alcuni casi può alternarsi non solo all’indicativo, ma anche al congiuntivo:

● credo che sarebbe meglio riflettere (invece di credo sia meglio riflettere);
● pensavo che sarebbe stato sbagliato (invece di pensavo che fosse sbagliato).




Congiuntivi irregolari in -are: la coniugazione di andare, dare, fare e stare

■ In che cosa è irregolare il congiuntivo di andare, dare, fare e stare? ■ Come cambia la radice tematica di dare e stare nel congiuntivo? ■ I composti di dare e stare al congiuntivo si coniugano come i verbi progenitori? ■ I composti di dare e stare al congiuntivo si coniugano come i verbi progenitori? ■ Come si coniugano al congiuntivo andare, dare, fare e stare?

Il congiuntivo presente dei verbi regolari in –are si forma con la vocale tematica “i” (lod-areche io lod-i), mentre verbi in ere e ire prendono la vocale tematica “a”: temere → che io tem-a e non temi e servire → che io serv-a e non servi.

Però: i verbi andare, dare, fare e stare, sono irregolari, e si comportano come se fossero verbi –ere/ire, cioè sono eccezioni che vogliono la vocale tematica –a (e mai la –i!): che io vada, dia, faccia e stia.

Inoltre, al congiuntivo imperfetto, dare e stare cambiano la vocale tematica che da a si trasforma in e: che io dessi e stessi.

Queste sono le irregolartà da ricordare, insieme a un’altra precisazione importante.

I composti di dare e stare non si comportano come il verbo progenitore, e diventano regolari:

circondare, restare o estradare diventano che io circondi, che io resti, che io estradi e che io circondassi/restassi/estradassi (e non circondessi, restessi ed estradessi);
● nel caso di prestare si dice che io presti e che io prestassi (e non prestia o prestessi) e lo stesso vale per restare, contrastare o sovrastare.

I composti di fare, al contrario, si coniugano come il verbo progenitore per cui si dice:
che io disfaccia e disfacessi
che io soddisfaccia e soddisfacessi

anche se le forme disfi, disfassi, soddisfi e soddisfassi si sono ormai affermate, ma non sono eleganti, ed è meglio evitarle. A parte questi casi, per tutti gli altri composti questi distaccamenti dal paradigma del verbo originario non sono tollerabili, per cui si dice:

assuefaccia e assuefacessi
contraffaccia e contraffacessi
liquefaccia e liquefacessi
rifaccia e rifacessi
sopraffaccia e sopraffacessi.

Di seguito le tabelle con le coniugazioni di tutte le forme.

Congiuntivo di andare

presente passato imperfetto trapassato
che io vada che io sia andato che io andassi che io fossi andato
che tu vada che tu sia andato che tu andassi che tu fossi andato
che egli vada che egli sia andato che egli andasse che egli fosse andato
che noi andiamo che noi siamo andati che noi andassimo che noi fossimo andati
che voi andiate che voi siate andati che voi andaste che voi foste andati
che essi vadano che essi siano andati che essi andassero che essi fossero andati

Congiuntivo di dare

presente passato imperfetto trapassato
che io dia che io abbia dato che io dessi che io avessi dato
che tu dia che tu abbia dato che tu dessi che tu avessi dato
che egli dia che egli abbia dato che egli desse che egli avesse dato
che noi diamo che noi abbiamo dato che noi dessimo che noi avessimo dato
che voi diate che voi abbiate dato che voi deste che voi aveste dato
che essi diano che essi abbiano dato che essi dessero che essi avessero dato

Congiuntivo di fare

presente passato imperfetto trapassato
che io faccia che io abbia fatto che io facessi che io avessi fatto
che tu faccia che tu abbia fatto che tu facessi che tu avessi fatto
che egli faccia che egli abbia fatto che egli facesse che egli avesse fatto
che noi facciamo che noi abbiamo fatto che noi facessimo che noi avessimo fatto
che voi facciate che voi abbiate fatto che voi faceste che voi aveste fatto
che essi facciano che essi abbiano fatto che essi facessero che essi avessero fatto

Congiuntivo di stare

presente passato imperfetto trapassato
che io stia che io sia stato che io stessi che io fossi stato
che tu stia che tu sia stato che tu stessi che tu fossi stato
che egli stia che egli sia stato che egli stesse che egli fosse stato
che noi stiamo che noi siamo stati che noi stessimo che noi fossimo stati
che voi stiate che voi siate stati che voi steste che voi foste stati
che essi stiano che essi siano stati che essi stessero che essi fossero stati

 

Congiuntivo: come evitare la “sindrome di Fantozzi”

■ Da dove nascono gli errori “fantozziani” sul congiuntivo che spingono a dire “facci” o “batti” al posto di “faccia” e “batta”? ■ Qual è la vocale tematica che prendono i verbi regolari in -are al congiuntivo? ■ Qual è la vocale tematica che prendono i verbi irregolari andare, dare, fare e stare al congiuntivo? ■ Qual è la vocale tematica che prendono i verbi regolari in -ere e -ire al congiuntivo? ■ Qual è la vocale tematica che prendono i verbi regolari in -are ■ Al congiuntivo imperfetto i verbi dare e stare mantengono la stessa radice in A o la cambiano in E? ■ Al congiuntivo i dice “stassi” e “dassi” o “stessi” e “dessi”?

“Ma mi facci il piacere” diceva Totò al posto di “faccia”, ironizzando su uno degli errori più diffusi in fatto di congiuntivo. Anche il personaggio di Fantozzi incarna la caricatura dell’uomo medio che sbaglia sistematicamente tutti i congiuntivi (“venghi” invece di venga) e una delle scenette più celebri è quella della partita a tennis nella nebbia con il ragionier Filini, il cui dialogo suona pressappoco così:

                          – Batti!
                          – Ma… mi dà del tu?
                          – No, batti lei!
                          – Ah, congiuntivo!

Questi congiuntivi maccheronici ed errati dipendono dall’andare a orecchio nel modo sbagliato. Ma chi soffre della “sindrome di Fantozzi”, un caso diffuso di “congiuntivite”, la può correggere in modo semplice.

Da dove nascono questi errori? Dal semplice fatto di non ricordare 4 semplici eccezioni.

Il congiuntivo presente dei verbi regolari in –are si forma con la vocale tematica “i” (mangiareche io mang-i), mentre verbi in ere e in –ire prendono la vocale tematica “a” (temere → che io tem-a e non temi e servire → che io serv-a e non servi.

Fantozzi, invece, coniuga tutti i verbi al congiuntivo in modo sistematico solo con la vocale –i, sul modello di lodare (che io lod-i).

In particolare, i verbi andare, dare, fare e stare, anche se terminano in –are, non sono regolari, e si comportano come se fossero verbi in –ere/ire, cioè sono eccezioni che vogliono la vocale tematica –a (e mai la –i!).

Dunque si dice:

                          vada e vadano (e non vadi e vadino)
                          dia e diano (e non dii e diino)
                          faccia e facciano (e non facci e faccino)
                          stia e stiano (e non stii e stiino).

Inoltre, passando dal congiuntivo presente al congiuntivo imperfetto, dare e stare cambiano la vocale tematica (dalla a passano alla e), e si trasformano in

dessi e dessero (e non dassi e dassero)
                          stessi e stessero (e non stassi e stassero).

Basta ricordarsi queste poche regole, e il rischio di fare figure “fantozziane” è scongiurato.


Questo articolo è tratto da:
Antonio Zoppetti,
Sos congiuntivo for dummies,
Hoepli, Milano 2016.

La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ire

■ Come si coniuga il congiuntivo dei verbi regolari in -ire? ■ Perché i verbi come finire o pulire al congiuntivo fanno che io finisca e pulisca (con ISC), mentre servire fa che io serva? ■ Come si coniuga il congiuntivo passivo dei verbi regolari in -ire?

Di seguito la coniugazione regolare da seguire per tutti i verbi regolari che terminano in –ire, sul modello di servire.

Attenzione: molti verbi che terminano in –ire nella loro coniugazione non si comportano esattamente come servire, ma inseriscono l’infisso -isc- tra la radice e la desinenza di alcune persone.

Questa particolarità non riguarda solo il congiuntivo, ma anche l’indicativo, dunque finire o pulire si trasformano in finisco e pulisco e al congiuntivo analogamente la desinenza regolare va aggiunta a questo cambiamento della radice: che io (tu, egli) finisca e che io pulisca (si perde invece nel caso di noi puliamo e voi pulite che al conguntivo diventano che noi puliamo e che voi puliate, e ritorna nella terza persona plurale: che essi puliscano).

Congiuntivo di servire

presente passato imperfetto trapassato
che io serv-a che io abbia servito che io serv-issi che io avessi servito
che tu serv-a che tu abbia servito che tu serv-issi che tu avessi servito
che egli serv-a che egli abbia servito che egli serv-isse che egli avesse servito
che noi serv-iamo che noi abbiamo servito che noi serv-issimo che noi avessimo servito
che voi serv-iate che voi abbiate servito che voi serv-iste che voi aveste servito
che essi serv-ano che essi abbiano servito che essi serv-issero che essi avessero servito

Poiché i verbi transitivi (quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”) possiedono anche la forma passiva, ecco di seguito il congiuntivo coniugato anche al passivo.

Congiuntivo di servire (forma passiva)

presente passato imperfetto trapassato
che io sia servito che io sia stato servito che io fossi servito che io fossi stato servito
che tu sia servito che tu sia stato servito che tu fossi servito che tu fossi stato servito
che egli sia servito che egli sia stato servito che egli fosse servito che egli fosse stato servito
che noi siamo serviti che noi siamo stati serviti che noi fossimo serviti che noi fossimo stati serviti
che voi siate serviti che voi siate stati amati che voi foste serviti che voi foste stati serviti
che essi siano serviti che essi siano stati serviti che essi fossero serviti che essi fossero stati serviti

La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ere

■ Come si coniuga il congiuntivo dei verbi regolari in -ere? ■ Perché i verbi come vincere o scorgere al congiuntivo fanno che voi vinciate (con la C dolce), ma che io vinca (con la C dura)? ■ Come si coniuga il congiuntivo passivo dei verbi regolari in -ere?

Di seguito la coniugazione regolare da seguire per tutti i verbi regolari che terminano in –ere, sul modello di temere.

Attenzione: le uniche eccezioni si hanno con i verbi che terminano in cere, gere e scere che mantengono il suono dolce davanti a e e i, che diventa invece duro davanti ad a, o e u: vincere diventa dunque che io vinc-a e che noi vinc-iamo.

Congiuntivo di temere

presente passato imperfetto trapassato
che io tem-a che io abbia temuto che io tem-essi che io avessi temuto
che tu tem-a che tu abbia temuto che tu tem-essi che tu avessi temuto
che egli tem-a che egli abbia temuto che egli tem-esse che egli avesse temuto
che noi tem-iamo che noi abbiamo temuto che noi tem-essimo che noi avessimo temuto
che voi tem-iate che voi abbiate temuto che voi tem-este che voi aveste temuto
che essi tem-ano che essi abbiano temuto che essi tem-essero che essi avessero temuto

Poiché i verbi transitivi (quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”) possiedono anche la forma passiva, ecco di seguito il congiuntivo coniugato anche al passivo.

Congiuntivo di temere (forma passiva)

presente passato imperfetto trapassato
che io sia temuto che io sia stato temuto che io fossi temuto che io fossi stato temuto
che tu sia temuto che tu sia stato temuto che tu fossi temuto che tu fossi stato temuto
che egli sia temuto che egli sia stato temuto che egli fosse temuto che egli fosse stato temuto
che noi siamo temuti che noi siamo stati temuti che noi fossimo temuti che noi fossimo stati temuti
che voi siate temuti che voi siate stati temuti che voi foste temuti che voi foste stati temuti
che essi siano temuti che essi siano stati temuti che essi fossero temuti che essi fossero stati temuti

La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -are

■ Come si coniuga il congiuntivo dei verbi regolari in -are? ■ I verbi con il GN, come sognare, al congiuntivo fanno che voi sogniate (con la i) o che voi sognate?  ■ I verbi in -iare, come mangiare, al congiuntivo fanno che io mangii o che io mangi? ■ Come si coniuga il congiuntivo passivo dei verbi regolari in -are?

I verbi che terminano in –are sono quasi tutti regolari, e a parte andare, dare, fare e stare (per es. si dice faccia e non “facci“) seguono tutti questo paradigma.

Gli unici dubbi che si possono segnalare sui verbi regolari in –are, riguardano i casi in cui è in gioco la lettera i.

Pregare e recare, per esempio, le cui radici sono preg- e rec-, hanno un suono duro, e per mantenerlo, quando incontrano la desinenza che inizia con la lettera i, necessitano dell’aggiunta della h dopo la c e la g, dunque si dice che io preghi e che io rechi (e non pregi e reci).

Analogamente, i verbi che hanno una i prima della desinenza are, come mangi-are, lanci-are o strisci-are, hanno invece il problema della doppia i, per cui, per ragioni eufoniche, la doppia i di che io mangi-i si contrae in una sola: che io mangi (lanci e strisci).

I verbi in gnare, inoltre, quando incontrano la i delle forme -iamo e -iate del congiuntivo, la conservano anche se il digramma gn di solito non la richiederebbe (vedi → “Le regole per combinare le lettere nella formazione delle parole“), dunque si scrive: che noi sogniamo e che voi sogniate, perché la i fa parte della desinenza del congiuntivo.

Di seguito la coniugazione del verbo amare, scelto come paradigma dei verbi regolare in –are.

Ha come ausiliare il verbo avere, ma se dovete coniugare un verbo che regge l’ausiliare essere la sola differenza è di usarlo correttamente nei tempi composti: crollare, per esempio diventerà: che io sia/fossi crollato.

Congiuntivo di amare

presente passato imperfetto trapassato
che io am-i che io abbia amato che io am-assi che io avessi amato
che tu am-i che tu abbia amato che tu am-assi che tu avessi amato
che egli am-i che egli abbia amato che egli am-asse che egli avesse amato
che noi am-iamo che noi abbiamo amato che noi am-assimo che noi avessimo amato
che voi am-iate che voi abbiate amato che voi am-aste che voi aveste amato
che essi am-ino che essi abbiano amato che essi am-assero che essi avessero amato

Poiché i verbi transitivi (quelli che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?”) possiedono anche la forma passiva, ecco di seguito il congiuntivo coniugato anche al passivo.

Congiuntivo di amare (forma passiva)

presente passato imperfetto trapassato
che io sia amato che io sia stato amato che io fossi amato che io fossi stato amato
che tu sia amato che tu sia stato amato che tu fossi amato che tu fossi stato amato
che egli sia amato che egli sia stato amato che egli fosse amato che egli fosse stato amato
che noi siamo amati che noi siamo stati amati che noi fossimo amati che noi fossimo stati amati
che voi siate amati che voi siate stati amati che voi foste amati che voi foste stati amati
che essi siano amati che essi siano stati amati che essi fossero amati che essi fossero stati amati

Coniugazione del congiuntivo: essere e avere

■ Come si coniuga l’ausiliare avere al congiuntivo? ■ Come si coniuga l’ausiliare essere al congiuntivo? ■ Perché si dice “noi siamo stati” (concordato al plurale) ma “noi abbiamo mangiato” (non concordato)?

Gli ausiliari essere e avere sono fondamentali perché, nei tempi presente e imperfetto, servono per formare i tempi composti di tutti gli altri verbi, uniti al participio passato.

Per capire se un verbo si appoggi a essere o avere, bisogna sapere che avere è l’ausiliare di tutti i verbi transitivi (quelli che reggono il complemento oggetto e dunque rispondono alle domande: “Chi?” “Che cosa?”). Un verbo come fare, perciò (si può fare qualcosa) richiede l’ausiliare avere: io ho fatto, che io abbia fatto.

Per i verbi intransitivi, invece, non c’è una regola per sapere a quale ausiliare si appoggiano: andare (non è transitivo e non si può “andare qualcosa o qualcuno”) si appoggia a essere: sono andato, che io sia andato, ma litigare (non si può “litigare qualcuno” ma si litiga con qualcuno) si appoggia ad avere: ho litigato, che io abbia litigato.
In caso di dubbi, perciò, se non si sa a quale ausiliare si appoggia un verbo non resta che consultare il dizionario, che riporta queste informazioni.

Ecco come si coniugano i quattro tempi del congiuntivo del verbo essere:

presente passato imperfetto trapassato
che io sia che io sia stato che io fossi che io fossi stato
che tu sia che tu sia stato che tu fossi che tu fossi stato
che egli sia che egli sia stato che egli fosse che egli fosse stato
che noi siamo che noi siamo stati che noi fossimo che noi fossimo stati
che voi siate che voi siate stati che voi foste che voi foste stati
che essi siano che essi siano stati che essi fossero che essi fossero stati

Di seguito la coniugazione del congiuntivo del verbo avere:

presente passato imperfetto trapassato
che io abbia che io abbia avuto che io avessi che io avessi avuto
che tu abbia che tu abbia avuto che tu avessi che tu avessi avuto
che egli abbia che egli abbia avuto che egli avesse che egli avesse avuto
che noi abbiamo che noi abbiamo avuto che noi avessimo che noi avessimo avuto
che voi abbiate che voi abbiate avuto che voi aveste che voi aveste avuto
che essi abbiano che essi abbiano avuto che essi avessero che essi avessero avuto

Attenzione: nel caso del verbo avere, il participio passato dei tempi composti rimane sempre invariato (per esempio: io ho avuto e noi abbiamo avuto). Invece, quando l’ausiliare è essere il participio si concorda sempre nel numero e nel genere (io sono stato, noi siamo stati, esse sono state…).

Vedi anche → “L’urlo ci ha spaventato o ci ha spaventati? Come concordare il participio passato

Il congiuntivo nelle subordinate

■ Quando si usa il congiuntivo nelle frasi dipendenti? ■ Cosa sono i periodi ipotetici? ■ Che differenza c’è tra i periodi ipotetici della certezza, della possibilità e dell’impossibilità? ■ Quali sono le parole o le espressioni che richiedono il congiuntivo? ■ Quali sono i verbi che richiedono il congiuntivo? ■ Ci sono casi in cui si può usare sia il congiuntivo sia l’indicativo? ■ Quando il congiuntivo si usa associato al condizionale? ■ Si può dire “sono sicuro” che sia o si dice solo “sono sicuro che è”? ■ Quali sono esempi di frasi che richiedono il congiuntivo? ■ Perché si dice “prima che sia”, ma “dopo che è”?

Anche se si può usare nelle frasi dipendenti in modo autonomo, il congiuntivo è il modo che si usa soprattutto nelle frasi dipendenti (da una frase principale) e si ritrova per esempio in alcuni tipi di subordinate come le finali, oppure (più facilmente anche senza saper riconoscere il tipo di frase) dopo alcune parole ed espressioni.

Di seguito un elenco di casi utili per comprendere quando il congiuntivo è obbligatorio:

● nelle condizioni (i periodi ipotetici, associato al condizionale) e nelle azioni, opinioni o pensieri non certi, ma solo possibili (si abbronzerebbese andasse al mare). Dunque anche in presenza di parole come se, qualora, ammesso che, purché:
verrò da te → qualora facesse, bel tempo;
ti raggiungerò → purché ti faccia piacere;
ti perdonerò → ammesso che tu mi porga le tue scuse.

Quanto a se, bisogna fare attenzione: quando i periodi ipotetici esprimono una certezza o una realtà non richiedono il congiuntivo (se non annaffi i fiori avvizziscono = certezza), mentre quando esprimono una possibilità o una impossibilità è obbligatorio:

se tu non bagnassi i fiori (è possibile che ti dimentichi = possibilità) si avvizzirebbero;
se tu ieri non avessi bagnato i fiori (impossibilità: so che li hai bagnati) si sarebbero avvizziti;

● per esprimere avvenimenti impossibili, per esempio quelli che non si sono verificati (sarebbe rimasto in città se non fosse al mare) o che non si possono verificare (se la luna fosse di formaggio sarebbe il paradiso dei topi);
● nelle frasi dipendenti con valore finale: te lo dico perché (= affinché) tu lo sappia;
● nelle frasi concessive (benché, sebbene, nonostante…): non ha molta cultura → benché sia intelligente;
● davanti a chiunque, ovunque, dovunque:
sarà un successo comunque → vada;
starà bene → ovunque vada (ma con valore futuro è possibile usare anche l’indicativo futuro: ovunque andrà, comunque andrà);
● davanti a prima che: te lo dico → prima che sia tardi (a parte questa espressione nei casi della frasi temporali si usa l’indicativo, es.: vado via → dopo che ho mangiato, mentre è partito → prima che mangiasse);
● davanti a fuorché, a meno che, tranne che (frasi eccettuative): verrò → a meno che non piova;
● davanti a senza che (frasi esclusive): è scappato → senza che nessuno se ne accorgesse;
● davanti a come se o quasi che che esprimono un modo: si lanciò sul nemico → come (se) fosse un leone; mi guardò → quasi che sapesse cosa stavo per fare;
● davanti a anziché o piuttosto che (comparative): preferisco mangiarlo → anziché si butti.

Il congiuntivo nelle frasi dipendenti si usa anche in presenza di molti verbi come:

● i verbi di volontà, preferenza e desiderio: voglio (preferisco, desidero) → che sia;
● i verbi di comando o permesso: chiedo (proibisco, ordino, prego, mi raccomando) → che sia;
● i verbi di dubbio, possibilità, impossibilità: dubito (suppongo, immagino, è possibile, è impossibile) → che sia;
● i verbi di aspettativa: mi aspetto (temo, spero, ho paura, sono ansioso) → che sia;
● i verbi di finzione: fingiamo (immaginiamo, supponiamo, facciamo finta) → che sia;
● i verbi che esprimono uno stato d’animo: mi rallegro (sono felice, mi dispiace) → che sia;
● i verbi di opinione o convinzione personale: credo (sono del parere, mi pare, penso, ho il sospetto) → che sia.

Poiché il congiuntivo esprime un dubbio, talvolta i verbi come questi possono essere usati in modo perentorio (senza dubbi) e in tal caso non vogliono il congiuntivo. Per esempio, si può dire penso che è (si usa pensare in modo certo, come dire: sono sicuro, il pensiero non si può mettere in discussione) oppure penso che sia (si usa pensare per esprimere un dubbio, potrebbe anche non essere come si pensa); oppure si può dire sono sicuro/convinto che è (esprime certezza) ma anche sono sicuro/convinto che sia (esprime una certezza soggettiva, che può essere messa in discussione: non è detto che una cosa di cui si è sicuri sia vera, ci si può anche sbagliare). In questi casi, perciò, usare il congiuntivo stempera una certezza e la trasforma in qualcosa che ha margini di dubbio, è una scelta stilistica, mentre usare l’indicativo conferisce alla frase un tono più forte, come qualcosa che non si può mettere in discussione.

Vedi anche
Penso che è o penso che sia? Dubbi sul congiuntivo
Il condizionale nelle ipotesi (i periodi ipotetici)
Condizionale: si può dire se sarebbe?

Il congiuntivo nelle frasi autonome

■ Il congiuntivo si usa solo nelle frasi dipendenti? ■ Quali sono gli usi del congiuntivo nelle frasi autonome? ■ Quando si dà del lei a più interlocutori si deve dare del voi o del loro? ■ Cosa sono il congiuntivo permissivo o esortativo? ■ Il congiuntivo si può usare come un imperativo? ■ Cos’è il congiuntivo dubitativo? ■ Cos’è il congiuntivo concessivo?

Anche se molto spesso è un modo che si usa nelle frasi subordinate (cioè quelle che non si reggono da sole, ma dipendono da una frase principale, es. voglioche tu faccia presto), il congiuntivo si può usare anche nelle frasi autonome e indipendenti, cioè quelle che si reggono da sole. Per esempio lo usiamo quando diamo del lei al nostro interlocutore: entri.

Più nel dettaglio, l’uso autonomo del congiuntivo si ritrova:

● nel dare del lei a chi ci rivolgiamo (si sieda, venga) e al plurale del loro (si siedano, vengano), che si fa sempre alla terza persona: non si usa dire “tu venga” o “ti sieda”.

Quando gli interlocutori sono più di uno non si dovrebbe dire (voi) “venite” o “entrate”, in questo caso siamo di fronte al plurale di tu (seconda persona) e del verbo all’indicativo, mentre la forma reverenziale (di rispetto) prevede il lei e il loro (per saperne di più → “Dare del tu, del lei, del loro e del voi“);

● nelle esortazioni (congiuntivo esortativo); è molto simile all’uso del congiuntivo per dare del lei, perché esprime un’esortazione (per es. entri il prossimo, mi dica), e questo uso a volte può essere etichettato anche come congiuntivo permissivo quando è seguito da “pure”: mangi pure, entri pure;
● nel porre dei dubbi (non mi risponde, che a quest’ora dorma?), cioè il congiuntivo dubitativo;
● nel  formulare delle concessioni (che faccia pure quel che crede!; che dica pure quel che vuole!);
● talvolta nell’espressione di ordini: che vada subito a mettersi la cravatta!
● in certe esclamazioni: sapessiAveste visto (come era vestito)!
● nell’augurare qualcosa (congiuntivo di desiderio): magari potessi volare! Fosse vero! Che il Signore sia con te!

Il congiuntivo e i suoi tempi

■ Quando si usa il congiuntivo? ■ Quali sono i tempi del congiuntivo? ■ Quando si usa il congiuntivo presente? ■ Quando si usa il congiuntivo imperfetto? ■ Il congiuntivo imperfetto ha solo un valore passato? ■ Quando si usa il congiuntivo passato? ■ Quando si usa il congiuntivo trapassato? ■ Quali sono esempi di frasi con il congiuntivo imperfetto? ■ Quali sono esempi di frasi con il congiuntivo trapassato? ■ Quali sono esempi di frasi con il congiuntivo passato? ■ Che differenza c’è tra il congiuntivo e l’indicativo? ■ Che differenza c’è tra il congiuntivo e il condizionale? ■ Quanti tempi possiede il congiuntivo? ■ Quali sono i tempi composti del congiuntivo?

Il congiuntivo è uno dei modi più complessi, tra le forme verbali, e spesso si sbaglia, si confonde con il condizionale o genera mille dubbi, paure e insicurezze.

In linea di massima, si può dire che mentre il modo indicativo si usa per esprimere cose certe e vere (il mondo della certezza), il congiuntivo è il modo della possibilità: si usa per esprimere i dubbi e le azioni che sono possibili o impossibili.

I tempi del congiuntivo sono quattro, due semplici (presente e imperfetto) e due composti (passato e trapassato).

Presente

Il congiuntivo presente (es. che io ami) si usa per esempio:

● nelle frasi dipendenti per esprimere la contemporaneità con la principale al presente (mi fa piacere che tu vada; spero che sia giusto);
● nelle frasi indipendenti per esprimere un dubbio, un augurio o un ordine nel presente (che sia giusto? Che Dio ti aiuti! Che si inchini davanti al re!).

Imperfetto

Il congiuntivo imperfetto (es. che io amassi) si usa nelle frasi dipendenti per esempio:

● per indicare la contemporaneità al passato con la principale (ieri pensavo che tu andassi al mare);
● per un’azione anteriore a quella della principale (oggi penso che a quel tempo tu andassi a scuola);
● spesso quando nella principale c’è il condizionale (mi piacerebbe → che tu andassi; mangerei → se tu cucinassi), e sempre nel caso ci sia un condizionale di volontà o di desiderio, per cui si dice: voglio (indicativo presente) → che sia (presente), ma vorrei (o mi piacerebbe: condizionale di desiderio) → che fosse (vedi anche → “Voglio che sia ma vorrei che fosse“).

Mentre nel modo indicativo l’imperfetto ha sempre e solo un valore passato, bisogna tenere presente che nelle frasi indipendenti il congiuntivo imperfetto non ha affatto necessariamente un valore di passato, ma si può usare anche per indicare qualcosa che deve ancora realizzarsi, con un valore futuro, e può esprimere per esempio un dubbio, un augurio o un desiderio: magari vincessi il primo premio!

Passato

Il congiuntivo passato (es. che io abbia amato) si forma con il congiuntivo presente del verbo ausiliare + il participio passato, e si usa:

● nelle frasi dipendenti per indicare un’anteriorità rispetto a ciò che è espresso nella principale (penso che ieri tu sia andato al mare);
● nelle frasi indipendenti per dubbi e possibilità riferiti al passato (che ieri sia uscito?).

Trapassato

Il congiuntivo trapassato (es. che io avessi amato) si forma con il congiuntivo imperfetto del verbo ausiliare + il participio passato, e si usa:

● nelle frasi dipendenti per indicare un’azione anteriore a un’altra avvenuta nel passato (pensavo che tu fossi uscito);
● nelle frasi indipendenti per dubbi e possibilità che non si sono realizzati (magari avessi frequentato la scuola! Ah, se non avessi abbandonato la scuola!).

Vedi anche
→ “Il congiuntivo nelle frasi autonome
→ “Il congiuntivo nelle subordinate
→ “Congiuntivo: come evitare la sindrome di Fantozzi
→ “Penso che è o penso che sia? Dubbi sul congiuntivo
→ “Voglio che sia ma vorrei che fosse
→ “Congiuntivo o indicativo? Attenzione alle negazioni
→ “Condizionale: si può dire se sarebbe?”



I tempi dei verbi

■ Cosa sono i tempi dei verbi? ■ Quali sono i rapporti possibili tra il momento in cui si scrive e parla e quelli dell’azione espressa da un verbo? ■ Cos’è la correlazione dei tempi? ■ Che differenza c’è tra i tempi semplici e quelli composti dei verbi? ■ Quali sono i tempi dei verbi?

I verbi non esprimono solo il modo dell’azione, ne indicano anche il tempo.

Il tempo dei verbi serve a specificare quando sta avvenendo una certa azione: nel presente, nel passato o nel futuro.

Per essere più precisi: i tempi esprimono il rapporto tra il momento in cui si svolge l’azione e quello in cui si scrive o si parla.

Può essere un rapporto di:

contemporaneità (nel presente): io mangio (= adesso: nel momento in cui scrivo/parlo sto mangiando);
● di anteriorità (passato): io ho mangiato (= prima: nel momento in cui scrivo/parlo ho già finito);
● di posteriorità (futuro): io mangerò (= tra un po’: nel momento in cui scrivo non è ancora successo).

Questi rapporti possono avvenire non solo nel presente, ma anche nel passato o nel futuro, e possono riguardare due frasi in correlazione tra loro, per esempio:

ieri ho mangiato mentre andavo a casa (contemporaneità nel passato);
ieri ho mangiato quel che avevo preparato il giorno prima (anteriorità nel passato);
ieri ho mangiato la stessa cosa che mangio anche adesso (posteriorità rispetto al passato).

O ancora:

adesso mangio quel che mangerò anche domani (posteriorità rispetto al presente).

Questi esempi fanno meglio comprendere la correlazione dei tempi, cioè il rapporto temporale tra due azioni (o due frasi) che può avere tante combinazioni. Esistono infatti diversi “gradi” di passato e di futuro, che possono essere più o meno recenti o prossimi rispetto al momento in cui si parla.

Nel caso del modo indicativo, per esempio, ci sono due gradi futuro (mangerò e avrò mangiato, dunque si possono esprimere due futuri, uno più vicino e uno più lontano: mangerò dopo che sarò tornato: anteriorità nel futuro). E poi ci sono tanti gradi di passato (mangiai, mangiavo, ho mangiato, avevo mangiato ed ebbi mangiato). Ciò vale anche per il caso degli altri modi, anche se in alcuni casi i tempi sono molto meno: nel congiuntivo posso dire “se avessi mangiato”,  e “che abbia mangiato”, nel condizionale c’è solo avrei mangiati, e così via per ogni modo.

In queste forme di coniugazione, la cosa più importante è comprendere che ci sono le forme semplici, che si esprimono con una parola sola (mangiai, mangiavo) e quelle composte (ho mangiato, avevo mangiato, ebbi mangiato) che si formano con il verbo ausiliario (essere o avere a seconda dei verbi) + il participio passato.

Dopo queste premesse generali che riassumono le regole a grandi linee, ecco un riepilogo di come i tempi si combinano con i modi.

L’indicativo possiede:
il presente (amo);
i tempi passati semplici imperfetto (amavo) e passato remoto (amai) + i tempi composti passato prossimo (ho amato), trapassato prossimo (avevo amato) e trapassato remoto (ebbi amato);
il futuro semplice (amerò) e il futuro anteriore che è composto (avrò amato).

Il congiuntivo possiede:
il presente (che io ami);
l’ imperfetto, tempo semplice (che io amassi), e i tempi composti passato (che io abbia amato) e trapassato (che io avessi amato).

Il condizionale possiede:
il presente (amerei);
il passato che è composto (avrei amato).

L’imperativo possiede:
il presente (ama!).

L’infinito possiede:
il presente (amare)
il passato che è composto (avere amato).

Il gerundio possiede:
il presente (amando);
il passato che è composto (avendo amato).

Il participio possiede:
il presente (amante);
il passato (amato).

Morfologia e dubbi grammaticali

■ Che cos’è la morfologia? ■ Che cos’è la grammatica? ■ Che cos’è il lessico? ■ La divisione della grammatica in fonologia, morfologia e sintassi è universalmente accettata?

Questa sezione intitolata Morfologia e dubbi grammaticali (caratterizzata dalla graffetta azzurra nela testatina) è suddivisa in 9 parti dedicate alle → nove parti del discorso. Nell’analisi grammaticale, infatti, ogni parola appartiene necessariamente a una di queste categorie divise in cinque parti variabili (verbi, nomi, articoli, aggettivi, pronomi) e quattro invariabili (preposizioni, congiunzioni, avverbi, interiezioni/onomatopee).

Ogni categoria è stata suddivisa in vari paragrafi che contengono le spiegazioni necessarie per la comprensione dei concetti chiave e per rispondere ai dubbi grammaticali più diffusi.

La sezione contiene anche tutto ciò che riguarda la morfologia, letteralmente lo studio della “forma della parola”, dunque non solo le flessioni, coniugazioni e declinazioni delle parti del discorso, ma anche la formazione delle parole, quelle semplici e quelle derivate, le alterazioni (dagli accrescitivi ai superlativi) e via dicendo. Spesso gli argomenti si intrecciano inevitabilmente con le altre sezioni, dedicate all’Ortografia e alla composizione delle parole, o alla Fonologia e alle regole della pronuncia. Dunque alcune voci sono state etichettate in più di un modo, per favorire la rintracciabilità dei contenuti. Tra queste etichette alcune riguardano anche il lessico (cioè il vocabolario) e altre la sintassi (cioè lo studio dei rapporti tra le parole nella composizione della frase e del periodo). Attraverso lo studio del congiuntivo o del condizionale, infatti, ci si imbatte anche nel periodo ipotetico, così come nello studio delle congiunzioni si incontrano quelle subordinative che collegano tra loro le frasi, e non solo le singole parole.
Sono poi state incluse anche altre informazioni che escono dalla grammatica e riguardano per esempio alcuni consigli di scrittura, dunque lo stile, perché non basta seguire le regole della grammatica per scrivere in un buon italiano.

Il titolo Morfologia va perciò inteso in senso generale e segue un approccio molto pragmatico, visto che tradizionalmente questa parte della grammatica studia come le parole si flettono a partire dalla  loro radice attraverso desinenze, prefissi o suffissi anche in base alle categorie grammaticali. Ma le categorie grammaticali non sono rigide, e spesso una stessa parola può assumere una funzione diversa e può diventare a seconda del contesto un aggettivo, un pronome o un avverbio (vedi per esempio: → “Come distinguere gli avverbi dagli aggettivi, congiunzioni e preposizioni“).
Dunque le cose sono più sfaccettate di come si possono raggruppare attraverso le categorie e le etichette tradizionali, e infatti la suddivisione della grammatica in fonologia, morfologia e sintassi non è accettata in alcuni approcci della linguistica contemporanea moderna.

Sigle e acronimi

■ Le sigle si scrivono tutte in maiuscolo? ■ Le sigle si scrivono con i punti di abbreviazione tra le lettere o meglio ometterli? ■ Quando scrivere le sigle solo con l’iniziale maiuscola? ■ Le sigle si possono scrivere tutte in minuscolo? ■ Che differenza c’è tra sigle e acronimi?  ■ Come si pronunciano le sigle? ■ Ci sono delle regole per stabilire se una sigla è di genere maschile o femminile? ■ Le abbreviazioni di avanti e dopo Cristo, si scrivono attaccate (a.C. e d.C.) o con lo spazio? ■ Cosa significano Ndr, Ndt e Nda?

Un tempo si tendeva a scrivere le sigle non solo tutte in maiuscolo, ma addirittura con i punti di abbreviazione per ogni lettera, ma questa consuetudine è caduta in disuso: una parola in maiuscolo all’interno di un testo spicca sul resto in modo pesante, se poi fosse spaziata e infarcita di punti, apparirebbe davvero mostruosa “bucando” la pagina al primo sguardo (es. S.M.S.). Dunque attualmente non bisogna usare il punto che si usa per le abbreviazioni, per esempio a.C e d.C. (cioè avanti Cristo e dopo Cristo, che si scrivono senza gli spazi).

Il genere delle sigle: maschili o femminili?

Le sigle o acronimi, sono formati dalle iniziali di più parole: la SIAE, (Società Italiana Autori ed Editori) che si riporta al femminile sottintendendo il significato esteso, così come si dice l’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) e gli USA (in italiano Stati Uniti d’America, ma l’acronimo deriva dall’inglese United States of America). Tuttavia, altre volte il loro genere, maschile o femminile, non segue questa regola e per esempio si parla di Aids al maschile anche se sarebbe la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita. In altri casi si assiste a delle oscillazioni, per esempio il (o la) Tav (lett. Treno ad Alta Velocità, dunque al maschile logicamente, ma sentito spesso come equivalente di linea ad alta velocità).

La pronuncia delle sigle

Alcune volte si possono pronunciare senza problemi, così come si scrivono, per esempio l’Avis (Associazione Volontari Italiani del Sangue), mentre altre volte si devono scandire lettera per lettera, e in questi casi si tendono ad apostrofare anche se iniziano per conosonante perché si segue la loro pronuncia, per esempio l’Fbi o l’Html.

Sigle o acronimi?

La sottile differenza tra sigle e acronimi, secondo alcuni, sta nel fatto che le prime sono formate dalle semplici iniziali delle parole, e non è detto che si possano sempre leggere come una parola, a volte si scandiscono lettera per lettera perché sarebbero impronunciabili, come nel caso di CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), mentre gli acronimi costituiscono di solito una parola pronunciabile come si scrive (es. RAI) e possono anche essere parole formate da elementi diversi dalle semplici iniziali, per esempio radar (dall’inglese RAdio Detection And Ranging). Tuttavia in linguistica questa distinzione non viene fatta.

Tutte in maiuscolo o solo l’iniziale?

Rimane aperto il problema di come scrivere le sigle, tutte in maiuscolo o solo con l’iniziale?

Secondo una normativa (UNI 7413, Acronimi, grafia e impiego, 1975) andrebbero scritte in maiuscolo, senza spazi tra le lettere e punti di abbreviazione. Ma questa prescrizione è un po’ datata e questa tendenza è sempre più in disuso.

Il consiglio che riportano tutti i manuali e le norme editoriali dei principali editori è di trattare le sigle più diffuse ed entrate nel linguaggio corrente come parole normali che si possono scrivere solo con l’iniziale maiuscola, per esempio Unesco, Fiat, Rai e via dicendo, o anche completamente minuscole nel caso di sigle entrate nel linguaggio comune come cd, sms, tv, pc o ufo e laser, così diffuse che si è perso l’etimo della sigla (rispettivamente Unidentified Flying Object e Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation). E proprio tra le sigle editoriali capita di trovarle con la prima maiuscola (es. Ndr = nota del redattore), tutte in minuscolo (nda = nota dell’autore) e anche con i punti (N.d.T. = nota del traduttore).

Comunque, la scelta di scriverle tutte in maiuscolo è possibile (dunque si trovano esempi di HTML, Html e html a proposito del famoso codice delle pagine web) ed consigliabile per le sigle tecniche o di settore che non sono note a tutti, e in questi casi è buona norma affiancarle, tra parentesi, con la dicitura completa, per essere più chiari.

Lo stile di un testo e l’uso del corsivo

■ Cos’è il “rotondo” in tipografia? ■ Che differenza c’è grassetto e neretto? ■ Per evidenziare una parola è meglio il grassetto o il corsivo? ■ Quando è obbligatorio l’uso del corsivo? ■ Per citare il capitolo di un libro o un articolo di giornale si usa il corsivo? ■ Per le citazioni meglio usare il corsivo o le virgolette? ■ Si può usare il sottolineato per evidenziare le parole? ■ Si può usare il corsivo e il neretto sulla stessa parola? ■ Che differenza c’è tra maiuscolo e maiuscoletto?

A proposito di caratteri e fonti, lo stile di un testo non si riferisce al modo di scrivere in senso figurato (stile giornalistico, poetico…), ma al modo di scrivere in senso tipografico. Ogni tipologia di carattere presenta diversi stili possibili e cioè delle diverse forme per la stessa fonte: il carattere normale, detto rotondo, può diventare corsivo o grassetto (detto anche neretto).

Esiste anche il sottolineato, ma non è molto elegante e nei libri non si utilizza: per evidenziare le parole si usano solo il neretto o il corsivo.

A loro volta questi stili possiedono il maiuscolo, oltre al minuscolo, ma scrivere in maiuscolo per evidenziare una parola in una pagina non si usa mai nei libri (“buca” il testo in modo sgraziato), si tende ad evitarlo persino nelle sigle e addirittura nei titoli, dove si preferisce il minuscolo con un corpo grande in neretto.

Quando non si può fare a meno del maiuscolo è preferibile scegliere il maiuscoletto, che mantiene la differenza tra maiuscole e minuscole, ed è più aggraziato, se si vuole introdurre in qualche titolo.

Di solito il neretto si impiega per i titoli di paragrafi e sezioni, oppure all’interno del testo per evidenziare dei concetti o delle parole in modo forte e marcato. È questa la scelta più adatta.

Anche il corsivo – detto talvolta italico perché fu disegnato dal tipografo Aldo Manuzio – serve per dare risalto alle parole, ma in modo più discreto del neretto. Si può usare per esempio per riportare delle parole straniere, ma è una scelta dell’autore, non è obbligatorio, mentre si usa obbligatoriamente per indicare le parole e espressioni latine (es. l’incipit di un libro) a meno che non siano così diffuse da essere assimilate alla stregua delle parole italiane (dunque si può anche scrivere virus, referendum o album in rotondo, ma si scrive dulcis in fundo).

Talvolta il corsivo può essere usato, un po’ come le virgolette, per dare risalto a una parola o al suo suono più che al significato:

● la parola francese stage significa “tirocinio”;
● la lettera n non si impiega prima della b e viene spesso sostituita con la m (imbuto);
● nella Divina Commedia il termine Italia ricorre 11 volte.

Naturalmente il corsivo, il neretto, il maiuscolo… si possono incrociare tra loro. Se è da evitare il maiuscolo come scelta tipografica a maggior ragione è da evitare il maiuscolo + grassetto; quanto al corsivo + grassetto si usa quando non se ne può fare a meno (per esempio per marcare una parola all’interno di un testo tutto in corsivo), ma altrimenti si tende a evitare questo accostamento.

Il corsivo: quando è obbligatorio

Oltre alle citazioni latine (Deus ex machina), il corsivo si usa obbligatoriamente per indicare i titoli dei libri (I malavoglia di Verga), le testate come i periodici o i giornali (il New York Times), i titoli dei film (Amarcord di Fellini), le opere musicali (il Don Giovanni di Mozart), i titoli di dipinti o sculture (la Primavera di Botticelli, il David di Michelangelo). Per gli articoli delle riviste, le canzoni e le parti di un’opera qualunque, per es. il titolo di un capitolo di un libro, si usano invece le virgolette.

Talvolta si usa anche per le citazioni brevi all’interno di un testo al posto delle virgolette (Diceva sempre: Ricordati di me!), ma in questi casi è bene evitare di usare sia le virgolette sia il corsivo, si usa o l’uno o le altre (Diceva sempre: “Ricordati di me!“).

Oppure, quando le citazioni di un’opera altrui sono lunghe, e quindi non vengono riportate tra virgolette nel corpo del testo, ma staccate e fuori corpo, si possono trovare anche tutte in corsivo.

Quando si scrive un pezzo tutto in corsivo si inverte la prospettiva e tutto ciò che andrebbe in corsivo si trasforma in rotondo e viceversa: “Il film che il Time ha definito un capolavoro”.

Attenzione ai colori


Tra le tante opzioni, quando si scrive si possono impostare anche colori diversi dal nero predefinito (o intervenire cambiando lo sfondo bianco). Ma come nel caso della scelta del carattere il consiglio è di privilegiare la semplicità. La tentazione di usare colori o sfondi colorati rischia di creare arlecchinate di cattivo gusto, che confondono il lettore. La leggibilità di un testo è importante e, come si suol dire, “nero su bianco” è sempre la scelta più semplice e chiara. Se volete potete controllare e regolare l’intensità, per esempio utilizzare un grigio molto scuro al posto del nero può essere una scelta, se lo sapete fare. Oppure, se dovete realizzare delle scritte su sfondo scuro potete usare per il testo un colore chiaro che contrasti e sia leggibile, ma queste soluzioni richiedono un po’ di esperienza. Nello scrivere per la Rete potete impostare dei colori personalizzati per esempio per i collegamenti ipertestuali (ma che siano sempre uniformi), ma il consiglio, che vale solo per chi non è un grafico esperto, è di lasciare perdere queste scelte ardite.

La giustificazione di un testo

■ Cos’è la giustificazione di un testo? ■ Che differenza c’è tra la giustificazione a bandiera e a pacchetto? ■ Per scrivere un articolo è meglio utilizzare l’impaginazione a bandiera o a pacchetto? ■ Cos’è la gabbia editoriale? ■ Perché bisogna evitare i doppi spazi? ■ Perché è bene occuparsi della giustificazione di un testo solo dopo aver ultimato la stesura?

La giustificazione di un testo è il suo allineamento ai margini, cioè la sua impaginazione all’interno della gabbia editoriale (il formato del foglio o il layout, in inglese) o della pagina. Può essere “a bandiera”, quando il margine a destra è irregolare e le parole vanno a capo formando un bordo frastagliato; oppure può essere “a pacchetto”, cioè con il margine destro allineato come quello di sinistra.
Questa seconda modalità prevede “l’allargamento” degli spazi interni della riga in modo che le parole terminino tutte sulla stessa linea. Così l’impaginazione è decisamente più elegante per stampare un testo finito e ben presentabile, ma per evitare che alcune righe contengano spazi vuoti troppo ampi o, viceversa, siano troppo fitte, bisogna prevedere anche l’inserimento della divisione in sillabe delle parole.

Nella prima colonna una giustificazione a bandiera (adatta per i lavori da inviare a una redazione che si occuperò successivamente dell’impaginazione); nella seconda colonna una giustificazione a pacchetto automatica: come si vede lascia degli spazi biachi tra le parole poco eleganti; nella terza colonna la stessa giustificazione è stata lavorata inserendo gli a capo quando necessario (è la più elegante ma si può fare solo a testo concluso e nella fase di impaginazione finale).

In generale, è meglio evitare la giustificazione a pacchetto quando si prepara un documento da inviare a una redazione o che sarà impaginato da altri, sarebbe un lavoro inutile. L’impaginazione finale del testo, infatti, non sarà quella realizzata, ma sarà rifatta completamente dell’impaginatore che si occupa dell’adattamento dei contenuti nella gabbia prevista, probabilmente con un’altra fonte di caratteri e un altro corpo, e partire da un testo a bandiera e non trattato sarà per lui più semplice.

Se invece dovete stampare da soli il vostro documento, preoccupatevi della sua giustificazione solo alla fine del lavoro, quando non sono previste altre modifiche. Se inserite a mano la divisione delle sillabe che vanno a capo, il rischio è che poi si spostino lasciando i trattini che finiscono con il rimanere tra le parole che sono passate alla riga successiva. Basta cambiare una parola, a volte anche qualche virgola, per scombinare tutto l’impaginato.
Se invece il programma prevede la sillabazione automatica tutto è più elastico, ma in ogni caso è sempre meglio occuparsi degli aspetti formali solo dopo aver ultimato i contenuti, per evitare imprevisti.

Prima dell’impaginazione finale conviene cercare ed eliminare ogni doppio spazio: uno spazio (vedi → “I caratteri della tastiera“) è un carattere come gli altri, e i programmi automatici li conteggiano come tali, senza eliminarli, con il risultato di lasciare una spaziatura tra le parole irregolare.

Caratteri speciali, simboli e faccine

■ Cosa sono i caratteri speciali? ■ Quando si devono usare i caratteri speciali? ■ Si possono sostituire i caratteri non presenti sulla tastiera come il trattino disgiuntivo con quello congiuntivo che è presente? ■ Si può scrivere E’ invece di È che non è presente sulla tastiera? ■ Cosa significa il simbolo © del copyright? ■ Cosa significa il simbolo ® dei marchi registrati? ■ Che differenza c’è tra il copyright © e il marchio registrato ®? ■ Cosa sono le losanghe? ■ Che cosa significa il simbolo di paragrafo §? ■ Cos’è la cediglia francese? ■ Cos’è la dieresi? ■ Che differenza c’è tra dieresi e Umlaut? ■ Cos’è la tilde? ■ Würstel si scrive con la u e la dieresi o senza?

Oltre ai caratteri che si trovano sulla tastiera, può capitare che ne occorrano altri che non sono presenti (come il trattino lungo, le virgolette caporale…).

Nei programmi di videoscrittura questi ultimi si trovano di solito tra i caratteri speciali o i simboli, e includono per esempio molte lettere straniere che possono ricorrere quando si scrive, nel caso di nomi o citazioni da altre lingue.

Tra i più frequenti si possono ricordare:

● la cediglia francese (ç) che davanti alle vocali rende dolce la pronuncia della “c“, e non è elegante sostituirla con una normale c, dunque meglio citare correttamente l’Académie française e non (francaise);
● la n spagnola combinata con la tilde (ñ) che conferisce un suono equivalente al nostro gn (es. il fenomeno climatico El Niño);
● la dieresi (¨ ) che caratterizza alcune vocali per esempio del tedesco (in tedesco si chiama Umlaut) e che ricorre in varie parole, come Würstel. Anche se è consuetudine traslitterarle nel nostro sistema quando sono di uso comune (scriviamo più sbrigativamente wurstel e crauti) è meglio non farlo quando si fanno citazioni precise;
● ci sono poi lettere di altri alfabeti, come quelle dell’alfabeto greco che ricorrono per esempio in matematica, alfa (α), beta (β) e così via fino a omega (in maiuscolo Ω è simbolo dell’ohm), oppure l’alef (א), la prima lettera dell’alfabeto ebraico…

Tra i simboli che è bene conoscere si può citare la c cerchiata del copyright (©), letteralmente il diritto di replica, cioè di eseguire delle copie di un’opera d’ingegno, che grosso modo corrisponde al diritto d’autore. Si può scrivere anche utilizzando le parentesi, per esempio: (C) 2019 nome***, e deve essere sempre seguita dalla data in cui l’opera è stata composta (per tutelarne la paternità da quel momento) o pubblicata e dal nome di chi ne detiene i diritti: ha lo scopo di dichiarare la proprietà intellettuale di un autore oppure o di riproduzione di un’opera di ingegno da parte di una società che l’ha acquisita.

Nel caso dei brevetti industriali o dei marchi (che non sono opere di ingegno), la proprietà e i diritti esclusivi di utilizzo di ciò che è registrato si esprimono con ®, il marchio registrato o con , letteralmente trade mark, cioè un marchio depositato o in attesa di registrazione, che si possono indicare anche tra parentesi (R) e (TM).

Ci sono poi molti altri caratteri che si trovano nei libri, per esempio le losanghe (♦) cioè i rombi che si possono utilizzare come i pallini  (●) o a volte i quadratini (■) per marcare graficamente delle porzioni di testo o degli elenchi, oppure il simbolo § che, soprattutto in passato, indicava i paragrafi dei capitoli. E poi le frecce che si possono utilizzare per i rimandi (→), e ancora un gran numero di simboli matematici √, ≠, ±…
Di volta in volta, poiché non sono presenti direttamente sulla tastiera bisogna cercare questo tipo di segni tra i simboli e i caratteri speciali.

Tra i caratteri speciali ci sono anche il trattino disgiuntivo lungo, e la “È” che serve per il maiuscolo della voce del verbo essere “è“. Quando si scrive bisogna usare questo apposito carattere che non va sostituito con l’apostrofo (E’), una forma scorretta, perché apostrofo e accento sono due segni diversi.

Le faccine

Con i caratteri si possono anche creare dei disegni, e per esempio nel linguaggio della Rete si possono trovare le faccine, emoticone (emoticon in inglese) che si usano per dare un tono alle frasi, per esempio la faccina sorridente, in inglese smile 🙂, quella triste 🙁, l’occhiolino 😉, il bacio :-*… anche se ormai i programmi traducono automaticamente queste faccine fatte con i caratteri in simboli grafici colorati.
Esistono anche faccine che invece di essere espresse orizzontalmente sono composte come si guardano: =^.^= e queste composizioni si possono spingere oltre la scrittura fino a vere e proprie creazioni artistiche fatte con i caratteri ASCII (il codice standard americano per lo scambio delle informazioni). Esistono poi anche veri e propri disegni codificati, persino animati, che si possono inserire direttamente nei testi.

Ma tutte queste nuove espressioni comunicative vivono in Rete e non si possono importare nella scrittura formale. Inserire le faccine in un libro è assolutamente fuori luogo: non si usa ed è di cattivo gusto.

Tuttavia, agli inizi del Novecento, Luigi Pirandello, anticipando le faccine dell’era internettiana scriveva:

“Le mie sopracciglia parevano sugli occhi
due accenti circonflessi ^ ^.” (Uno, nessuno e centomila).

L’asterisco

■ Quando si usa l’asterisco? ■ Si può usare l’asterisco per le note a piè di pagina? ■ Si possono usare più asterischi insieme? ■ Perché nei libri si possono trovare tre asterischi separati da spazio in una riga morta? ■ Come si usa l’asterisco per indicare un’omissione di un nome? ■ Perché gli asterischi sono inclusi nella punteggiatura?

L’asterisco viene di solito incluso tra i segni d’interpunzione perché si può trovare:

● apposto a fine parola, senza spazi, per indicare una nota a piè di pagina, per esempio: parola* (se non si usa la numerazione progressiva di solito espressa con il numero in apice: es. parola1 o in altri casi con la numerazione romana in minuscolo); quando nella stessa pagina sono presenti più note l’asterisco si moltiplica, per esempio così**;
● per indicare un’omissione, e in questo caso se ne mettono tre, per esempio: il signor ***;
● talvolta se ne mettono tre, di solito separati dallo spazio (* * *) e in una riga morta che serve per separare dei blocchi di testo all’interno di uno stesso paragrafo, creando in questo modo una separazione grafica che indica una pausa fortissima, superiore a quella del capoverso, ma inferiore a quello di un nuovo capitolo che richiede la sa titolazione. Serve per esempio per marcare un salto temporale nella narrazione o un salto a un altro argomento completamente slegato dal testo precedente.

La sbarretta (in inglese slash)

■ Quando si usa la sbarretta? ■ Che differenza c’è tra la sbarretta o barretta e lo slash? ■ Si può usare la sbarretta per separare i numeri delle date scritte in cifre (4/3/43)? ■ Che differenza c’è tra la sbarretta o barretta, e la sbrarretta rovesciata detta anche backslash?

La sbarretta (/) o barretta (spesso detta anche immotivatamente in inglese: slash) di solito sulle tastiere è posta sullo stesso tasto del numero 7, e non va confusa con la sbarretta o barretta rovesciata, inversa o retroversa (in inglese backslash) di uso informatico (\).

Nella scrittura si impiega di solito per indicare l’alternativa tra due possibilità (la verdura e/o la frutta) e si usa per scrivere le date in cifre (15/09/2019).

Accanto a questo uso storico, fuori dalla punteggiatura, nel nuovo Millennio si usa moltissimo soprattutto per gli indirizzi internet, e di solito separa, raddoppiata, l’http: dal www di un indirizzo Internet, per esempio:

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com.

In informatica è molto usata anche come segno separatore dei percorsi delle liste dei documenti (in inglese le directory dei file) che indicano la gerarchia di cartelle e sottocartelle di archiviazione, per esempio:

www.repubblica.it/cronaca/titoloarticolo.html.

In matematica si usa per le frazioni (2/3), ma nei discorsi è meglio evitare il simbolo e scrivere l’espressione in lettere (i due terzi).

Le parentesi

■ Quando si usano le parentesi? ■ Quando si fa un’omissione in una citazione si usano le parentesi tonde o quadre? ■ Che differenza c’è tra le parentesi tonde e quelle quadre? ■ Quando si usano le parentesi quadre? ■ Se una frase tra parentesi chiude la frase, il punto si mette dentro o fuori? ■ La virgola precede o segue un inciso tra parentesi? ■ Le parentesi quadre si possono usare all’interno di quelle tonde?

Le parentesi tonde si usano per gli incisi (come il trattino lungo o le virgole), ma hanno un “potere di separazione” più marcato e si preferiscono quando l’inciso è una spiegazione che spezza la linearità del discorso.


Si possono usare per esempio:

per indicare un autore dopo una citazione: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” (Dante);
per altre indicazioni da aggiungere senza appesantire la frase: “Italo Calvino (1923-1985)”;
per rimandi interni a un testo: (vedi paragrafo X);
per segnalare un’omissione all’interno di una citazione con i puntini di sospensione (…), altre volte riportate invece con le parentesi quadre […].

Quando si aprono vanno sempre chiuse, tranne nel caso degli elenchi numerati, e in questi casi sono sempre precedute dai numeri o dalle lettere dell’alfabeto: 1) 2)… oppure a) b)…

A volte le parentesi si usano anche per scrivere il copyright (C) o i marchi registrati come (R) e (TM), che più elegantemente si sotituiscono con i simboli che si trovano tra i → Caratteri speciali della tastiera: ©, ® e .

La punteggiatura associata alle parentesi

Prima delle parentesi di apertura e chiusura non si usa la punteggiatura (e non si lasciano mai spazi bianchi all’interno tra le parentesi e le parole), e la virgola, se necessaria, è da porre dopo la parentesi di chiusura e non prima di quella di apertura:

● Sono stanco (ho corso tutto il giorno), mi merito un po’ di riposo;
e non:
Sono stanco, (ho corso tutto il giorno) mi merito un po’ di riposo”.

Analogamente, bisogna sempre evitare la punteggiatura prima della parentesi di chiusura tranne quando la frase è un inciso compiuto e indipendente:

Sapevo che stava per suonare il campanello. (Lo avevo visto arrivare dalla finestra.)

Oppure quando si vuole inserire un punto interrogativo o esclamativo che si riferisce al testo interno:

Si dice (sarà vero?) che sia un brigante (incredibile!).

Le parentesi quadre

Le parentesi quadre, al contrario di quanto avviene in matematica, si possono usare all’interno delle parentesi tonde se servono ulteriori parentesi:

(là [avverbio] si scrive sempre con l’accento.)

Ma è meglio evitarlo e non abusarne, la scrittura non è algebra.

Si usano anche come parentesi editoriali, per esempio:

● per aggiungere una parola mancante in una citazione: “Pur di stare con lui [il signor Mario] avrebbe fatto di tutto”;
● per indicare che in una citazione c’è una lacuna che si riporta così com’è; oppure un refuso che si trascrive come nell’originale (e si scrive in questo caso sic, cioè “così” in latino): “Il zafferano [sic] è una spezia”;
● a volte si possono usare per indicare delle omissioni di parte di una citazione […], ma altre volte si trovano anche le parentesi tonde con questa stessa funzione (…);
● talvolta racchiudono le sigle NdR, NdT e NdA che rispettivamente indicano, di solito come note a piè pagina, le note del redattore, del traduttore o dell’autore.

Il trattino (o lineetta) corto e lungo

■ Che differenza c’è tra il trattino lungo o disgiuntivo e quello breve o congiuntivo? ■ Quando si usa il trattino corto? ■ Quando si usa il trattino lungo? ■ Negli incisi è meglio usare il trattino disgiuntivo, le virgole o le parenesi? ■ Nei dialoghi si usa il trattino breve o quello corto? ■ Dove si trova il trattino lungo sulla tastiera? ■ Quali altri trattini ci sono oltre a quello congiuntivo e disgiuntivo? ■ Come si dice underscore in italiano? ■ Dopo il trattino congiuntivo ci vuole lo spazio? ■ Dopo il trattino disgiuntivo ci vuole lo spazio? ■ Le norme editoriali italiani prevedono l’uso della “lineetta emme” (—) come in alcuni testi americani?

Ci sono vari tipi di trattini (o lineette), con dimensioni diverse, ma quelli che si usano nello scrivere sono solo due: quello corto e quello lungo.


Il trattino corto, detto anche di unione o congiuntivo, non prevede di inserire spazi prima e dopo e si usa:

per indicare periodi di valori: periodo marzo-settembre; durata 3-6 mesi;
per unire due parole: il treno Roma-Milano;
per le parole composte: il linguaggio tecnico-scientifico;
per la sillabazione delle parole (a-ba-co) che si utilizza per andare a capo.

Il trattino lungo o disgiuntivo () si utilizza invece per indicare un inciso o anche uno stacco del discorso, più elegante e meno netto delle parentesi tonde, ma più marcato di quanto non si fa con la semplice virgola. E in questo caso richiede sempre uno spazio prima e dopo:

I tre grandi poeti del Trecento – Dante, Petrarca e Boccaccio – erano detti le corone fiorentine.

Talvolta si usa per un inciso esplicativo all’interno di una citazione:

Vieni – disse l’uomo – e non avere paura”.

Si usa infine anche nei dialoghi per separare le battute:

– Ciao!
– Ciao a te!

In qualche caso, dialoghi come questo che introducono il discorso diretto vengono riportati di seguito all’interno di un testo senza andare a capo (Mi disse – Entra!).

Il trattino lungo non è presente sulla tastiera (si trova tra i caratteri speciali o tra i simboli) e per questo motivo quando si scrive spesso si utilizza (in modo non preciso) il trattino di unione, perché è più facile. Ma quando si scrive professionalmente è meglio essere precisi e cercarlo con un po’ di fatica tra i simboli.

Tra i trattini e lineette ce ne sono altri che non fanno parte della punteggiatura. Per esempio il trattino basso _ (spesso chiamato immotivatamente in inglese underscore), che si trova soprattutto negli indirizzi internet o nei nomi dei documenti informatici (ai tempi della macchina per scrivere si utilizzava per sottolineare le parole).

C’è poi il segno meno che si utilizza in matematica (3 − 1 = 2) che per essere precisi è di dimensioni leggermente diverse da quello lungo o da quello corto che di solito si impiegano per comodità nello scrivere.

Circola infine un altro tipo di trattino di dimensioni maggiori di quello lungo (—), detto lineetta emme, perché le sue dimensioni sono quelle dei due caratteri “em”, ma in italiano non si usa! Si trova invece nell’editoria statunitense spesso usato al posto dei due punti, ma nelle norme editoriali italiane non è contemplato e dunque in caso di traduzioni va sostituito con i segni della nostra punteggiatura.

Le virgolette

■ Che differenza c’è tra le virgolette alte e basse? ■ Quando si usano le virgolette? ■ I titoli dei libri si scrivono con le virgolette o in corsivo? ■ Che differenza c’è tra le virgolette doppie e quelle singole? ■ Come si fa una citazione dentro la citazione? ■ Si possono usare i simboli di maggiore e minore invece delle virgolette? ■ Quando si fa una citazione virgolettata il punto si mette dentro o fuori dalle virgolette? ■ Si possono fare citazioni senza usare le virgolette?

Le virgolette si usano nel discorso diretto, per citare parole o brani di testo di altri autori, e ce ne sono di due tipi, quelle alte (“”) dette anche all’italiana, e quelle basse («») dette anche caporale, sergente (perché ricordano il simbolo dei gradi militari).
La differenza è solo grafica, non c’è un regola per preferire le une alle altre, basta rispettare l’uniformità e non usarle entrambe all’interno di uno stesso scritto. Ricorrere alle virgolette basse o alte è dunque una scelta editoriale, non grammaticale.

Nel caso di citazioni lunghe di interi brani, nell’editoria si preferisce di solito andare a capo e riportare la citazione con un altro carattere o con un altro corpo del testo, invece di usare le virgolette, per esempio:

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In altri casi, quando la citazione è breve o di poche parole e inserita all’interno del testo, può capitare di trovare esempi d’uso in cui si usa il corsivo al posto delle virgolette (sono scelte editoriali). Bisogna però evitare di associare le virgolette al corsivo, in questi casi, si mette o l’uno o l’altro (mi chiese: Come stai? ma non ascoltò la mia risposta, e non mi chiese: “Come stai?” ma non ascoltò la mia risposta).

Le virgolette si usano anche:

● per citare una sola parola (es. la scritta “Benvenuto”);
● per indicare il significato di una parola (es. mouse letteralmente significa “topo”), ma a volte si usa anche il corsivo;
● per specificare un uso improprio di una parola o per sottolineare un senso figurato o ironico da cui si prendono le distanze (es. quel “furbo” non si è accorto di nulla; quella scuola è un “lager”), ma è meglio non abusarne;

● nelle indicazioni bibliografiche per le citazioni di articoli di giornale e periodici o di capitoli di libri: mentre il titolo di una rivista, giornale o libro si indica in corsivo, le sue parti si riportano tra virgolette (es. Giovanni Boccaccio, “Chichibio e la gru”,  Decameron).

Poiché le virgolette basse non sono presenti direttamente sulla tastiera , a volte si sostituiscono con il doppio simbolo di minore e maggiore (<<>>) ma non è una scelta molto elegante. Lo stesso vale per le cosiddette virgolette singole “all’inglese” o apici (’): talvolta si usa marcare una parola anche con l’apice (es. quella ‘maestrina’), ma è una scelta meno diffusa e diventa indispensabile solo quando c’è una citazione nella citazione, per evitare confusioni: “Disse: ‘Certo!’ Ma non sembrava contento”.

Per essere precisi gli apici sono segni che possono differire dall’apostrofo e quando occorre distinguerli sono dritti invece che curvi. Ma non tutte le fonti di caratteri permettono questa distinzione, oppure molti programmi di scrittura li convertono direttamemte, anche se distinguerli può essere invece fondamentale da un punto di vista tipografico.

La punteggiatura associata alle virgolette

La punteggiatura associata alle virgolette si trova sia all’interno sia all’esterno, dipende dai casi e anche dalle norme editoriali delle case editrici.

In linea di massima, quando si cita una parola o una frase la punteggiatura è posta all’esterno, per esempio:

● Grazie a quella specie di “barca”, i naufraghi si misero in salvo.

Oppure:

● “Fatta l’Italia, restano da fare gli italiani”, diceva Massimo D’Azeglio.

Tuttavia, davanti a segni d’interpunzione che riguardano l’intonazione, come il punto di domanda o quello esclamativo, si inseriscono all’interno:

Mi disse: “Davvero?”.

E in tal caso è bene aggiungere il punto fermo dopo le virgolette, perché il punto interrogativo che fa parte della citazione, seguito dalle virgolette, perde la sua forza di chiusura.

Quando invece la citazione include un periodo completo, indipendente e finito, si tende a lasciare la punteggiatura di chiusura all’interno delle virgolette, e non bisogna mettere un ulteriore punto successivamente:

“Chi la fa l’aspetti.” Non c’è altro da aggiungere.

I puntini di sospensione

■ Quando si usano i puntini di sospensione? ■ Se i puntini di sospensione chiudono la frase è necessario aggiungere il punto fermo? ■ Si possono scrivere in numero superiore a tre per rafforzare il senso di continuità? ■ Si possono usare solo due puntini di sospensione invece di tre? ■ Dopo i puntini di sospensione si procede con la maiuscola? ■ Si possono associare i puntini di sospensione a ecc. o eccetera? ■ Meglio scrivere ecc. o etc.?

I puntini di sospensione si usano:

● per indicare che un elenco di esempi può continuare: il mio equipaggiamento comprende zaino, piccozza, corda, ramponi…
● per lasciare il discorso in sospeso: non ricordo…
● a volte per marcare un’allusione che non viene esposta: con il mestiere che fa… (lascia intendere all’interlocutore di che mestiere si tratti);
● in alcuni casi per indicare tra parentesi un’omissione di una parte di un testo citato: “Quel ramo del lago di Como (…) vien (…) a ristringersi” (talvolta si usano indifferentemente anche le parentesi quadre).

Quando i puntini di sospensione chiudono una frase è necessario iniziare la successiva con la lettera maiuscola, perché costituiscono una pausa forte come quella del punto fermo. Se invece si utilizzano all’interno di un discorso senza chiudere il periodo… si prosegue normalmente con la minuscola.

Tra gli errori più frequenti nell’uso dei puntini di sospensione si registrano:

● metterne solo due (..), o più di tre (…..): i tre puntini di sospensione, come i tre porcellini, sono sempre e solo tre;
● quando chiudono il discorso non bisogna aggiungere il punto fermo e farli diventare quattro;
● davanti a un elenco che termina con i puntini di sospensione non si deve associare la parola eccetera (né prima …eccetera, né dopo eccetera…): hanno il medesimo significato e sarebbe ridondante, quindi o si mettono i puntini o si mette ecc., e mai ecc… (quanto a etc. è un’abbreviazione che scomoda inutilmente il latino et cetera che è sempre meglio evitare in buon italiano, è tipica dei registri burocratici; vedi anche → Meglio scrivere “eccetera”, “ecc.” o “etc.”?);
● quando chiudono un elenco non si deve inserire la e prima dell’ultima parola (zaino, piccozza, corda e ramponi): la e finale serve per introdurre l’ultimo elemento, ma nel caso in cui ci sono i puntini l’ultimo elemento è lasciato in sospeso;
● l’abuso dei puntini di sospensione, e il loro prevalere sulla punteggiatura normale, come avviene soprattutto in Rete (es. sono andato al mare… c’era un sacco di gente… non si riusciva a trovare posto… ed è stato uno strazio…). Vanno usati con moderazione e solo se indispensabili, altrimenti si conferisce al discorso un tono da fumetto e sgrammaticato.

Il punto esclamativo

■ Dopo il punto esclamativo ci vuole sempre la maiuscola? ■ Dopo il punto esclamativo si può mettere il punto fermo? ■ Si può raddoppiare o triplicare il punto esclamativo per rafforzare lo stupore? ■ Si può usare il punto interrogativo associato a quello interrogativo? ■ Se il punto di domanda è associato a quello esclamativo si mette prima (!?) o dopo (?!)? ■ Quali sono esempi di frasi in cui dopo il punto esclamativo si può procedere con la minuscola?

Il punto esclamativo serve per conferire un’intonazione rafforzativa (magari fossi ricco!), e si usa spesso con gli imperativi (esci!) o con le interiezioni (Ah!).
Chiude una frase con la forza di un punto fermo e dunque successivamente il discorso procede con l’iniziale maiuscola:

Sono sicuro! Esclamò.

Tuttavia in alcuni casi sporadici in cui l’esclamazione venga integrata all’interno di una frase, quando il  discorso continua è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola, una consuetudine diffusissima in passato e anche fino a pochi decenni fa, che oggi è invece più rara:

● “Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto!” (I promessi sposi)

Talvolta si trova associato al punto di domanda per conferire allo stesso tempo un tono di stupore e di interrogazione (e si può trovare collocato prima !? o dopo ?!), ma questo tipo di rafforzamento è tipico dei registri da fumetto, o pubblicitari e non è frequente in quelli formali, dunque va utilizzato con molta cautela. Anche l’abuso del punto esclamativo da solo è sconsigliabile nello scrivere; si trova frequentemente nei dialoghi, per conferire l’intonazione (Ecco! No!), ma altrimenti è meglio usarlo con moderazione, solo quando è indispensabile.

Tra gli errori più diffusi da evitare ci sono:

● il raddoppio o la moltiplicazione del segno: “Accidenti!!”, “Caspita!!!” (accettabile solo nei fumetti);
● l’aggiunta di un punto fermo o altri segni di interpunzione: “Certo!.” (il punto di domanda è già un segno di chiusura).

Nella lingua spagnola lo si mette anche all’inizio della frase, rovesciato (¡), in modo che l’intonazione sia chiara sin da subito, ma in italiano questa consuetudine non esiste.

Il punto di domanda

■ Dopo il punto di domanda ci vuole sempre la maiuscola? ■ Dopo il punto di domanda si può mettere il punto fermo? ■ Si può raddoppiare il punto di domanda per rafforzare l’interrogazione? ■ Si può usare il punto interrogativo nelle domande indirette? ■ Quali sono esempi di frasi in cui dopo il punto di domanda si prosegue con la minuscola?

Il punto interrogativo o di domanda serve per conferire la giusta intonazione nelle domande dirette e chiude la frase con la forza di un punto fermo, per cui richiede che dopo si usi la maiuscola, per esempio:

Vuoi venire al cinema? Gli domandai.

Tuttavia in alcuni casi sporadici in cui la domanda venga integrata all’interno di una frase, quando il  discorso continua è possibile trovare esempi d’uso seguiti dalla minuscola:

Certo che sei invitata – e perché mai non dovrei invitarti? – alla mia festa!
Si dice (sarà vero?) che le piante sentano.

Naturalmente, in alcuni casi, stabilire quando un discorso continua e quando no ha margini di soggettività e può essere una scelta dell’autore, per esempio: “Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?” (I promessi sposi). Fino a qualche decennio fa questa consuetudine di continuare il discorso senza la maiuscola era molto diffusa, oggi si trova più di rado.

Talvolta il punto interrogativo viene associato a quello esclamativo per conferire allo stesso tempo un’intonazione di domanda e di sorpresa (e si può trovare collocato prima ?! o dopo !?), tuttavia questo tipo di rafforzamento è tipico dei registri spiritosi o pubblicitari/fumettistici più che letterari, e va utilizzato con molta cautela.

Tra gli errori più diffusi da evitare ci sono:

● il raddoppio o la moltiplicazione del carattere: “Perché??”, “Cosa???” (un uso accettabile solo nei fumetti);
● l’aggiunta di un punto fermo o altri segni di interpunzione: “Davvero?.” (il punto di domanda è già un segno di chiusura);
● il suo impiego  nelle interrogative indirette: non si scrive mai: “Mi chiedo che cosa pensi?”, esistono esempi del genere che appartengono al passato, ma nell’uso dell’italiano moderno non è accettabile.

Poiché il punto di domanda, che serve per dare la giusta intonazione, compare solo alla fine della frase, il consiglio è quello di non scrivere mai frasi interrogative troppo lunghe: il rischio è che chi legge si accorga troppo tardi che si tratti di una domanda.

Per ovviare al problema, nella lingua spagnola lo si mette anche all’inizio della frase, ma rovesciato (¿), in modo che l’intonazione sia chiara da subito, ma in italiano questa consuetudine non esiste.

Il punto fermo

■ Dopo il punto si deve sempre usare la maiuscola? ■ Le unità di misura abbreviate come cm o cl richiedono il punto finale? ■ 2.014 si scrive con il punto o senza?  ■ Bisogna mettere il punto alla fine di un titolo di capitolo? ■ Che differenza c’è tra punto e punto fermo? ■ Il punto si usa sempre nelle abbreviazioni? ■ Quando un’abbreviazione chiude la frase il punto va raddoppiato?

Il punto (detto anche punto fermo) ha la funzione di chiudere il periodo con un distacco forte, che viene ulteriormente ampliato se dopo si va a capo, iniziando un nuovo capoverso. Lasciare una riga bianca dopo il capoverso precedente conferisce uno stacco ancora maggiore.

Dopo il punto fermo bisogna utilizzare la maiuscola, al contrario di quanto avviene nel caso di virgola, punto e virgola e due punti. Ma il punto si usa anche per le abbreviazioni (sig. = signore, dott. = dottore) e solo in tal caso dopo la maiuscola non si utilizza: “Socrate nacque nel 469 a.C. ad Atene”.

Attenzione, però, a non mettere il punto dopo le abbreviazioni delle misure: km (chilometri), m (metri), cl (centilitri) e così via, non lo richiedono.
Inoltre, non si mettono i punti di abbreviazione nel caso delle sigle (vedi → “Sigle e acronimi“)

A proposito delle date: si scrivono sempre senza il punto delle migliaia, che invece è sempre consigliabile per i numeri (si mette ogni tre cifre: 100.000.000) per renderli più leggibili; perciò il 2014 (anno), ma 2.014 euro.

Quando un’abbreviazione chiude il periodo, il punto non va mai raddoppiato, se ne lascia uno solo: ho comprato pasta, riso ecc. Allo stesso modo non si aggiunge dopo i puntini di sospensione.

Infine, non bisogna mai mettere il punto alla fine dei titoli di un capitolo o paragrafo, non ce n’è bisogno, sarebbe ridondante e graficamente poco elegante.

Il punto e virgola

■ Quando si usa il punto e virgola? ■ Scegliere il punto e virgola o la virgola è sempre soggettivo ed equivalente? ■ Che differenza c’è tra punto e virgola e punto fermo? ■ Dopo il punto e virgola si usa la maiuscola? ■ Quando si usa il punto e virgola negli elenchi?

Il punto e virgola si impiega per conferire una separazione maggiore di quella della virgola, ma non forte come nel caso del punto. Dopo questo segno di interpunzione si procede con la minuscola.

Anche se di solito è usato di rado, rispetto alla virgola è indispensabile quando nella frase c’è un cambio di soggetto. Per esempio:


la gatta si sistemò su una pila di libri; questa cominciò a barcollare per il peso.

In questo caso la virgola sarebbe insufficiente. In alternativa si può mettere il punto.

È consigliabile usare il punto e virgola anche quando ci sono degli elenchi che includono sottoinsiemi, per esempio:


la redazione è composta da Marco, il redattore; Sara, la grafica; e Maurizio, il direttore.

Usare la virgola sarebbe meno elegante e farebbe apparire la frase meno chiara: si potrebbe pensare che “Marco” e “il redattore” siano persone diverse.

Anche negli “elenchi punto” si usa preferibilmente il punto e virgola per separare ogni voce, tranne l’ultima che richiede il punto fermo; per esempio:

ingredienti per la torta:

● burro;
● uova;
● farina.

La virgola

■ Esistono delle regole che prescrivono quando la virgola è obbligatoria? ■ Esistono delle regole che prescrivono quando la virgola non si può mettere? ■ Quali sono le differenze tra virgola e punto e virgola? ■ Quando le incidentali richiedono la virgola invece delle parentesi? ■ Quali sono gli esempi di frasi in cui la virgola cambia il significato?

La virgola ha la funzione di separare un concetto o una frase, ma senza staccarli completamente, perché continuano, e dunque conferisce una separazione debole, rispetto al punto fermo. Si usa per esempio in un inciso (o incidentale), e in questo caso bisogna sempre chiuderlo con un’altra virgola (il telefono, inventato nell’Ottocento, oggi si è molto evoluto). L’inciso può racchiudere a volte anche una sola parola e non sempre un frase, per esempio nel caso di appellativi rivolti a qualcuno: correte, donne, è arrivato l’arrotino!

Nello scrivere è bene evitare di usare troppe incidentali, appesantiscono il periodo, ma quando capita o c’è un’incidentale nell’incidentale è possibile ricorrere alle parentesi o al trattino lungo disgiuntivo, invece della virgola, per essere più chiari; per esempio:

Nello scrivere è bene evitare di usare troppe incidentali (appesantiscono il periodo), ma quando capita o c’è un’incidentale nell’incidentale è possibile ricorrere alle parentesi o al trattino lungo disgiuntivo invece della virgola per essere più chiari.

La virgola si usa quasi sempre (ma non obbligatoriamente) prima di ma (vedi → “Si può dire ma però? E altri dubbi su ma“), però, tuttavia, sebbene, se, o quindi (es. mangio la mela, ma scarto la buccia).
È obbligatoria negli elenchi per separare gli elementi (ho messo in valigia pantofole, calze, maglia e pigiama) e nell’ultimo elemento si sostituisce spesso con la e (che invece si tende a omettere quando l’elenco non si conclude e termina con ecc. e non può precedere i puntini di sospensione…).

Nel caso della “virgola seriale” che separa gli elenchi, non è obbligatorio sostituire l’ultima virgola con la e, talvolta possono convivere. Per esempio: “Mi hanno servito antipasto, spaghetti al pomodoro, seppie, e patate” può specificare che il contorno di patate era un piatto separato e non un piatto unico composto di “seppie e patate”. Dunque, anche fuori dagli elenchi, non è necessariamente vero, come si sente dire spesso, che la congiunzione e sia sempre sostitutiva della virgola (vedi → “E o virgola? O entrambe?“), talvolta si possono usare insieme (sono stanco, e non mi vergogno ad ammetterlo). Come avviene nel parlare, anche nello scrivere tutto dipende dalla volontà dell’autore di sottolineare una pausa, e non solo di separare, ma può succedere che la volontà dell’autore di fare una pausa non corrisponda poi all’intonazione del lettore che interpreta. Anche nel caso di un elenco di due parole si può scegliere di usare la virgola oppure la congiunzione e: sono stanco, sfinito oppure sono stanco e sfinito.

In molti casi una semplice virgola può dare diverse valenze a una frase e il suo uso non è più soggettivo. Per esempio nelle relative, quando c’è che:

gli uomini che erano accaldati si fecero una doccia

indica che, tra tutti, solo chi era accaldato si fece una doccia, mentre:

● gli uomini, che erano accaldati, si fecero una doccia

indica che tutti gli uomini in questione erano accaldati e si fecero una doccia.

Allo stesso modo dire:

quando il gatto mangia, il topo è contento

è diverso rispetto a:

quando il gatto mangia  il topo, è contento.

Nel secondo caso il soggetto della frase cambia, e con esso il senso.

Se non è possibile prescrivere quando si deve mettere la virgola, viceversa ci sono casi in cui metterla è sicuramente sbagliato, per esempio quando c’è una continuazione logica che non consente una separazione (come tra l’articolo e il nome). Gli errori più comuni da evitare sono di metterla:


tra soggetto e predicato (Mario andava per la città e mai: Mario, andava per la città);
tra predicato e complemento (mangio un panino e mai: mangio, un panino);
tra il nome e l’aggettivo (ho comprato una maglia rossa e non: ho comprato una maglia, rossa).

La punteggiatura

■ Quali sono i segni d’interpunzione? ■ Quali sono i segni d’interpunzione che esprimono l’intonazione? ■ Quali sono le regole che regolano la punteggiatura? ■ Quando ci vogliono gli spazi con i segni d’interpunzione? ■ Quali segni d’interpunzione richiedono di proseguire con la maiuscola?

Quando parliamo facciamo delle pause tra le parole e tra le frasi, e diamo anche un’intonazione.
Nello scrivere utilizziamo la punteggiatura per esprimere le stesse cose.

Ci sono segni che esprimono le intonazioni, per esempio il punto di domanda o quello esclamativo, e altri che hanno una funzione più logica, cioè fanno sentire le pause per separare i concetti all’interno di una frase e anche per separare le frasi all’interno del periodo, come le virgole o i punti.

Questo secondo aspetto è molto soggettivo, e come nel parlare possiamo interpretare in vari modi uno stesso discorso con pause e toni differenti, allo stesso modo nello scrivere non ci sono sempre delle regole ferree, tutto dipende dallo stile e dagli intenti di chi scrive.

L’interpunzione, perciò, non può essere codificata in modo rigido, è un’arte delicata, soggettiva, che richiede orecchio, e una buona punteggiatura può migliorare un testo e renderlo più chiaro o semplicemente più “bello”. Un punto esclamativo alla fine della frase ha la funzione di conferire enfasi all’intonazione; un punto fermo invece di una virgola ha la funzione di separare maggiormente i concetti, e per dire le stesse cose si può scegliere di costruire un periodo lungo con tante virgole (per esempio in contesti esplicativi e razionali) oppure preferire tante frasi brevi con uno stile completamente diverso (per esempio nella narrativa).

In questa soggettività, tuttavia, dei punti fermi ci sono, ed esistono degli errori oggettivi da evitare e delle prescrizioni logiche da seguire.

La prima regola riguarda gli spazi: i segni di interpunzione si attaccano alle parole di solito alla fine (ma nel caso dell’apertura delle virgolette o delle parentesi anche subito prima) e ne diventano parte integrante, dunque non richiedono spaziazioni per esempio:

disse: e non disse : (una consuetudine che si ritrova nel francese, ma non in italiano);
«esempio» e non « esempio » ;
Addio! e non Addio !

Quanto agli altri usi obbligatori, bisogna tenere presente che la punteggiatura può cambiare il senso di una frase:

il maestro dice: Pierino è un somaro

è molto diverso da:

il maestro, dice Pierino, è un somaro.

In linea di massima, dopo i segni d’interpunzione di chiusura come il punto, il punto di domanda e quello esclamativo si procede con l’iniziale maiuscola, mentre dopo quelli deboli come virgola, punto e virgola e due punti il discorso prosegue con l’iniziale minuscola, ma ci sono casi in cui le cose vanno diversamente.

Per scoprire le regole, gli errori da evitare e i consigli per un buon utilizzo della punteggiatura è bene andare a fondo vedendo come comportarsi caso per caso davanti a:

● il punto;
● la virgola;
● il punto e virgola;
● i due punti;
● il punto di domanda;
● il punto esclamativo;
● i puntini di sospensione;
● le virgolette;
● i trattini congiuntivo e disgiuntivo;
● le parentesi;
● la sbarretta (/);
● l’asterisco.

Questi articoli includono anche le norme per esempio dell’associazione delle virgole o dei punti alle virgolette (si mettono fuori o dentro?) o alle parentesi.

Bisogna poi tenere presente che oltre ai segni d’interpunzione ci sono anche altri caratteri della tastiera che è bene sapere padroneggiare, a cominciare dall’apostrofo, dagli accenti o dallo spazio (che è a tutti gli effetti un carattere da sapere usare nel giusto modo) per finire con una serie di caratteri speciali come le losanghe (♦) e tutti gli altri caratteri meno frequenti (per esempio: § che nell’editoria serve talvolta per marcare i paragrafi).

Il modo indicativo e i suoi tempi

■ Quando si usa l’indicativo presente? ■ Cos’è il presente storico? ■ Quando si usa l’indicativo imperfetto? ■ Che differenza c’è tra l’indicativo imperfetto e gli altri passati? ■ Quando si usa il passato prossimo? ■ Quando si usa il passato remoto? ■ Meglio dire “l’anno scorso andai” o “l’anno scorso sono andato”? ■ Quando si usano il trapassato prossimo e trapassato remoto? ■ Che differenza c’è tra il trapassato prossimo e il trapassato remoto? ■ Quando si usa il futuro? ■ Che differenza c’è tra il futuro semplice e il futuro anteriore? ■ Quali sono i tempi dell’indicativo?

L’indicativo è il modo che serve a esprimere qualcosa di certo (amo, corro, sento…).
Il nome indicativo deriva dal dito indice, quello che si usa per indicare le cose, per constatare ciò che avviene. È la maniera o la modalità di esprimere le azioni che si usa più di frequente, e per questo motivo è il modo più articolato dal punto di vista dei tempi possibili.

Oltre al presente, possiede ben 5 diversi tempi passati: 2 semplici (l’imperfetto, per. es. amavo, e il passato remoto, amai) e 3 composti (passato prossimo, ho amato; trapassato prossimo, avevo amato; trapassato remoto, ebbi amato). E poi ha due gradi di futuro, quello semplice (amerò) e quello anteriore (che è composto: avrò amato).

Più precisamente, ecco quali sono e quando si usano.

Presente

L’indicativo presente (es. amo) si usa:

● per esprimere qualcosa che succede nel momento in cui se ne parla o se ne scrive (guardo la partita);
● per qualcosa che è sempre valido, nel passato, nel presente e nel futuro (il corvo è nero, il mare è salato);
● a volte, però, si può usare il cosiddetto presente storico per esprimere qualcosa che è già accaduto ma raccontandolo come se fosse al presente, il che è un espediente narrativo per attualizzare qualcosa con uno stile più vivo, per esempio: “Napoleone nasce ad Ajaccio il 15 agosto 1769”; “nel 2006, l’Italia vince i mondali di calcio”. È evidente che in queste frasi viene a mancare la contemporaneità rispetto a quando si scrive (si potrebbe anche scegliere di dire nacque o vinse), ma in casi come questo il presente può caricarsi di un valore storico che rende la frase come qualcosa che è sempre vera e valida.

(Passato) imperfetto

Il passato imperfetto (es. amavo) si usa:

● per esprimere un’azione passata che continua nel tempo (quando ero piccolo, cioè per tutto il periodo che ero bambino) e nelle descrizioni di eventi prolungati e continuati (quell’anno l’inverno non finiva mai; tirava un forte vento);
● per qualcosa in passato che si ripeteva abitualmente (andavo in ufficio tutti i giorni in autobus);
● per le azioni non compiute (mentre mangiavo è squillato il telefono);
● per mettere in risalto gli avvenimenti passati con uno stile giornalistico (nelle prime ore del pomeriggio lo scippatore aggrediva la vittima e si impossessava della sua borsa);
● talvolta, si usa al posto del condizionale volevo sapere perché… (cioè: vorrei sapere);
● esprime a volte un passato indefinito e imprecisato, per esempio nelle favole  (c’era una volta) o nei giochi dei bambini (facciamo finta che ero il dottore).

Passato prossimo

Il passato prossimo (es. ho amato) indica un’azione passata da molto ma che ha ancora effetti sul presente (la nascita di mio figlio ha cambiato la mia vita). Altre volte si usa anche per esprimere qualcosa avvenuto in un passato lontano, come alternativa al passato remoto: “Napoleone è nato ad Ajaccio il 15 agosto 1769”.  

Passato remoto

Il passato remoto (es. amai) si usa di solito per un passato lontano e concluso che non ha più effetti sul presente: “Quando mia nonna arrivò era ormai troppo tardi”; “Quel ponte crollò durante la guerra”, ma in questi esempi si può usare ugualmente anche il passato prossimo, è solo una scelta stilistica.

Se però si dice: la nascita di mio figlio cambiò la mia vita
la frase implica che il cambiamento è riferito al passato, che si è concluso e non è detto che abbia conseguenze sul presente (al contrario di la nascita di mio figlio ha cambiato la mia vita che lascia intendere che il cambiamento perdura tutt’ora).


Tuttavia, a parte queste sfumature, se un tempo si distingueva il passato remoto come più appropriato per un’azione passata conclusa o lontana, e il passato prossimo più adatto per ciò che non è concluso ed è più recente, nell’italiano vivo di oggi questa distinzione è venuta meno. E nell’italiano moderno il passato remoto tende a scemare e a essere utilizzato sempre meno frequentemente rispetto al passato prossimo.

Non c’è una regola per preferire: “L’anno scorso andai” a “l’anno scorso sono andato”, e questa seconda forma è molto più diffusa per esempio al nord, mentre il passato remoto vive maggiormente al sud, ma sono entrambe lecite, anche perché non esiste un criterio rigido per distinguere quando un passato è concluso e quando è recente. È una questione di stile personale e si può dire benissimo: “Napoleone nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769”, Napoleone è nato ad Ajaccio il 15 agosto 1769” e anche “Napoleone nasce ad Ajaccio il 15 agosto 1769” (presente storico).

Più criticabile è semmai l’uso del passato remoto in espressioni come ieri andai, o poco fa andai, che non sono in uso nell’italiano scritto, in questi casi si usa il passato prossimo.

Trapassato prossimo e remoto

Il trapassato prossimo (es. avevo amato = imperfetto + participio) e il trapassato remoto (es. ebbi amato = passato remoto + participio) si usano per indicare un rapporto di anteriorità tra passati, per esempio:

a pranzo in quel ristorante ho mangiato (passato prossimo) un piatto più abbondante di quello che mangiai (passato remoto) il mese scorso, e anche più abbondante di quello che avevo mangiato (trapassato prossimo) tre mesi fa, quando, dopo che ebbi mangiato (trapassato remoto), avevo ancora un senso di fame.

Questo esempio aiuta a comprendere il rapporto tra diversi tipi di passato, ma non sempre ci sono delle regole precise per stabilire quale tempo usare, e spesso si possono scegliere tempi differenti. Per fare un altro esempio sull’uso dei trapassati, si può dire:

“Mi ero preparato quando mi disse che non sarebbe più venuto”, oppure: “Mi disse che non sarebbe venuto più dopo che mi fui preparato”. Nel primo caso non si potrebbe usare il trapassato remoto (fui preparato), ma in altri casi non esiste una regola ferrea per scegliere una delle due forme di passato, dipende dagli intenti del parlante e dallo stile che sceglie di utilizzare, per esempio: “Sono partito dopo che mi aveva raggiunto” oppure “sono partito (o partii) dopo che mi ebbe raggiunto”.

Futuro semplice

Per quanto riguarda il futuro, il futuro semplice (es. amerò) indica:

● soprattutto le azioni che devono ancora compiersi (domani andrò al mercato);
● a volte si usa anche esprimere un’incertezza o un dubbio (saranno tre giorni che non mangia; sarà malato?)
● si può usare anche per formulare un comando espresso al futuro (visto che il modo imperativo non possiede il futuro si può usare l’indicativo), per esempio: “Domani andrai a scuola!”.

Futuro anteriore

Il futuro anteriore (es. avrò amato) esprime invece:

● un futuro che avviene prima di quello semplice (quando sarai cresciuto, capirai);
● si usa anche per esprimere dubbi e incertezze (quando ho mangiato saranno state le 13; Elena avrà trovato il mio messaggio?).

I modi dei verbi

■ Che cos’è il modo di un verbo? ■ Quali sono i modi indefiniti di un verbo? ■ Quali sono i modi “finiti” di un verbo? ■ Quanti sono i modi di un verbo?

Che cos’è il modo di un verbo?

Come dice la parola: il modo di un verbo è la maniera, la modalità di esprimere un’azione.

“Pierino mangia la mela” è una frase in cui il verbo indica l’azione, ed esprime la costatazione di cosa sta accadendo (modo indicativo).
L’imperativo è invece un modo per impartire gli ordini: mangia!
Il condizionale può essere un modo per esprimere la stessa cosa in modo più gentile: “Pierino mangeresti (o vorresti mangiare) una mela?”, oppure si può usare per esprimere qualcosa che si verifica solo a una determinata condizione: “Pierino mangerebbe di certo una mela, se adesso fosse qui con noi”.
Il congiuntivo è il modo dell’incertezza, della possibilità o dell’impossibilità: “Se Pierino mangiasse la mela finirebbe come Biancaneve”, oppure: “Dubito (o è impossibile) che Pierino mangi la mela”.

I 7 modi dei verbi

I verbi hanno 7 modi e generalmente:

● l’indicativo serve a esprimere qualcosa di certo (amo, corro, sento…) ed è il modo che si usa più spesso;
● il congiuntivo esprime qualcosa di incerto, che può essere possibile o impossibile (è possibile/impossibile che io ami, che io corra o che io senta);
● il condizionale indica una possibilità che dipende da una condizione (io amerei, a condizione che… oppure: correrei e sentirei, se potessi); altre volte è il modo gentile per eccellenza: “Potresti correre?” è una formula di cortesia rispetto a: “Corri!”
● l’imperativo si usa per impartire un ordine (corri!).

Questi quattro modi sono detti finiti, perché definiscono una persona, e si coniugano con il soggetto (= la persona): io, tu, egli
Ci sono poi altri tre modi che vengono detti indefiniti, perché non si coniugano con una persona:

● l’infinito (amare, correre, sentire), esprime l’azione in sé, e questo è il modo che viene riportato nei dizionari (si trova amare, e non per es. amo, amerei o le altre forme);
● il participio, un modo molto importante perché al passato (amato, corso, sentito) si usa per formare tutti i tempi composti (ho amato) e da solo può diventare un nome o un aggettivo (il mio amato);
● il gerundio (amando, correndo, sentendo) è un modo che può avere vari significati: sbagliando (= quando si sbaglia) si impara. E leggendo (= durante la lettura) i prossimi argomenti sarà più chiaro.

Qualunque forma verbale si riconduce a uno di questi sette modi.

Il verbo: cos’è

■ Perché il verbo è la parte portante del discorso? ■ Cosa sono la radice e la desinenza di un verbo? ■ Cos’è la persona del verbo? ■ Tutti i modi dei verbi hanno la persona? ■ Cosa sono i modi verbali indefiniti? ■ Cosa sono i modi verbali indefiniti? ■ Cos’è la vocale tematica di un verbo? ■ Cos’è la diatesi?

Verbum in latino significa “parola”, e infatti, tra tutte le parole, i verbi sono le più importanti, perché esprimono un’azione e sono la parte del discorso più essenziale. Basta un verbo per fare una frase: “Andiamo!” Il soggetto (in questo caso noi) può essere sottinteso, si può omettere ogni altro complemento e spiegazione (dove, come, perché…), ma con un semplice verbo si può esprimere una frase di senso compito, autonoma e autosufficiente:“Piove”.

I verbi hanno una radice e una desinenza variabile che si declina. Coniugare i verbi significa concordare la radice con la desinenza variabile a seconda della persona e del numero (io = prima persona singolare, noi = prima persona plurale), ma anche del modo (indicativo, congiuntivo, condizionale…), del tempo (presente, passato, futuro), della forma (attivo, passivo, riflessivo) e di altre variabili ancora.

Amare, per esempio, è il modo infinito composto dalla radice (am-) che rimane sempre la stessa (ma vale solo per i verbi regolari, nel caso di and-are la radice irregolare oscilla e al presente si dice io vad-o e non and-o) con la desinenza in –are.

Nel caso dell’indicativo presente, per continuare questo esempio, la desinenza si declina a seconda delle persone, e tutti i verbi regolari si coniugano con la stessa regola: radice + desinenza.

  amare Singolare Plurale
Prima persona io am-o noi am-iamo
Seconda persona tu am-i voi am-ate
Terza persona egli (ella) am-a essi (esse) am-ano

Tra la radice e la desinenza c’è spesso una vocale tematica, che caratterizza alcune forme della coniugazione, per esempio l’infinito: se lod-a-re si appoggia alla vocale tematica –a, ci sono anche i verbi in –ere (tem-ere), o in –ire: tem-ere (serv-ire).

Spesso vengono perciò divisi in queste tre coniugazioni, ma è possibile anche suddividerli in quattro coniugazioni a seconda di come l’infinito termina, e raggruppare in questa quarta categoria gli altri verbi come por-re, trar-re o tradur-re che hanno una diversa desinenza (è un criterio più semplice e pratico).

Non tutte le forme verbali hanno necessariamente una persona, nel caso dei modi infinito, participio e gerundio (cioè amare, amato e amante), detti appunto modi indefiniti, non c’è un legame con una persona, così come nel caso del modo imperativo (quello con cui si impartiscono i comandi) non esiste la prima persona (non avrebbe senso impartire un ordine a sé stessi), ci sono solo le altre (es. mangia → tu). E poi ci sono anche le forme cosiddette impersonali (si dice, si va, bisogna studiare, piove…) che esprimono un’azione senza specificare la persona (il chi).

I verbi possono anche essere suddivisi in due generi, i transitivi sono quelli che reggono il complemento oggetto e che rispondono alle domande: “Chi? Che cosa?” (per esempio mangiarequalcosa o qualcuno);  i verbi intransitivi non ammettono questa possibilità e per esempio non si può “andare qualcuno”, ma andare con qualcuno, dunque non fanno transitare l’azione direttamente su un oggetto. Questi ultimi hanno solo la forma attiva.
La forma di un verbo (o diatesi) indica la “direzione” dell’azione che esprime nella frase (o più precisamente il rapporto tra il verbo e il soggetto) che può essere attiva, passiva o riflessiva (rivolta verso sé: mi lavo = lavo mé stesso). Tutti i verbi hanno la forma attiva, ma quelli transitivi hanno anche la forma passiva, un modo di esprimere l’azione in cui la frase si rovescia, e il soggetto, invece di compiere l’azione, la subisce da parte dell’oggetto: io guardo → la tv (forma attiva) si può ribaltare in la tv → è guardata da me (forma passiva). I verbi intransitivi al contrario non possiedono la forma passiva, e andare non si può rovesciare in questo modo, perché non regge il complemento diretto. Inoltre, i verbi transitivi sono caratterizzati dal fatto che nei tempi composti si appoggiano sempre all’ausiliario avere (amareho amato), e usano il verbo essere solo per la forma passiva (io sono amato).

Di seguito un indice dei principali articoli sui verbi:

I modi dei verbi
I tempi dei verbi
Il modo indicativo e i suoi tempi
Il congiuntivo e i suoi tempi
Il congiuntivo nelle frasi autonome
Il congiuntivo nelle subordinate
§ Coniugazione del congiuntivo: essere e avere
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -are
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ere
§ La coniugazione del congiuntivo: i verbi regolari in -ire
§ Congiuntivi irregolari in -are: la coniugazione di andare, dare, fare e stare
§ Congiuntivo: come evitare la “sindrome di Fantozzi”
§ “Penso che è” o “penso che sia”? (Dubbi sul congiuntivo)
§ Congiuntivo o indicativo? Attenzione alle negazioni
§ Voglio che sia ma vorrei che fosse
§ “Se me lo dicevi” o “se me l’avessi detto”?
Il modo condizionale: quando si usa
Condizionale: i tempi e le coniugazioni
– Il condizionale nelle ipotesi (i periodi ipotetici)
– Condizionale: si può dire “se sarebbe”?
Il modo imperativo: uso e coniugazioni
Il modo infinito
Il modo participio
L’urlo ci ha spaventato o ci ha spaventati? Come concordare il participio passato
Il modo gerundio e il suo uso

Le coniugazioni dei verbi sono 3 oppure 4
L’ausiliare essere e la sua coniugazione
L’ausiliare avere e la sua coniugazione
La coniugazione dei verbi regolari in -are
La coniugazione dei verbi regolari in -ere
La coniugazione dei verbi regolari in -ire
I verbi irregolari: la coniugazione di andare
I verbi irregolari: la coniugazione di stare
I verbi irregolari: la coniugazione di fare
I verbi irregolari: la coniugazione di dare
I verbi irregolari in -ere
I verbi irregolari in -ire
La coniugazione di trarre, porre, condurre…

I verbi difettivi
I verbi sovrabbondanti
I verbi transitivi e intransitivi
La forma del verbo attiva e passiva
La coniugazione al passivo
La forma riflessiva dei verbi
Verbi servili, fraseologici e causativi
“Ho potuto” o “sono potuto” andare? Gli ausiliari nelle locuzioni verbali
L’uso impersonale e i verbi impersonali

Divisione in sillabe

■ Come si va a capo? ■ Nell’andare a capo si può dividere una sillaba? ■ Quali sono le regole per andare a capo? ■ Il CQ si può spezzare in due sillabe o appartiene a una sola? ■ Si può andare a capo lasciando l’apostrofo da solo sull’ultima riga? ■ Come si va a capo con le parole con la S seguita da consonante come pesca? ■ Le regole di sillabazione dell’italiano valgono anche per le lingue straniere? ■ Quali sono esempi di parole monosillabe? ■ Quali sono esempi di parole bisillabe? ■ Quali sono esempi di parole trisillabe? ■ Quali sono esempi di parole polisillabe?

Le regole di divisione in sillabe della nostra lingua (quelle che servono per andare a capo nel giusto modo) sono state fissate nel 1969 (norma UNI 6461-97) dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione che disciplina le norme di tutti i settori industriali. Ma sono così complicate da ricordare e imparare che è meglio consultare un dizionario in caso di incertezze.

Perciò le linee guida per la divisione in sillabe riassunte di seguito non fugheranno ogni dubbio, ma permettono perlomeno di orientarsi.

Quando si va a capo non si può mai dividere una sillaba, e le parole si possono dividere in:

● monosillabi (è, voi, );
● bisillabi (ca-ne, gat-to);
● trisillabi (mac-chi-na, cer-biat-to);
e polisillabi che hanno quattro o più sillabe (ma-sti-ca-re, con-si-de-re-vol-men-te).

Una consonante semplice seguita da vocale, dittongo o trittongo costituisce un’unica sillaba (se-ra), così come una vocale iniziale seguita da una sola consonate è una sillaba (o-do).

In caso di vocali consecutive, se non siete sicuri di trovarvi di fronte a uno iato (incontro di due vocali divisibili perché di solito rappresentano due emissioni di fiato differenti: poe-ta) o a un dittongo e trittongo (indivisibili: voi, miei) andate sempre a capo con una consonante e mai con una vocale (pie-no e mai pi-eno), eviterete di sbagliare.

Tenete poi presente che le consonanti doppie si dividono sempre in sillabe diverse (dop-pio) e che il cq è come fosse una doppia consonante (ac-qua).

Non si deve mai dividere un gruppo di consonanti che cominciano per s (pe-sca) e di solito quando una sillaba contiene la lettera s, questa va sempre a capo (perciò: pa-sta e mai pas-ta).

Anche i digrammi (es. ch, sc) e i trigrammi (es. sci, gli) non si dividono mai e di solito formano una sillaba insieme alla vocale che li segue (chie-sa, fi-glio).

Evitate di andare a capo con l’apostrofo, è davvero brutto, almeno quanto eliminare l’elisione e aggiungere una vocale (lo apostrofo) per far tornare i conti come si insegnava un tempo.

Un’ultima avvertenza: attenzione alle parole straniere! Non sempre seguono le regole della divisione in sillabe della nostra lingua. E poiché ormai ci sono programmi di scrittura che fanno la sillabazione automatica, se li avete installati e li utilizzate fate sempre attenzione a impostare la lingua italiana, e non per esempio quella inglese!

Sillabe, dittonghi, trittonghi e iati

■ Che cos’è una sillaba? ■ Cos’è un monosillabo? ■ Cos’è un bisillabo? ■ Cosa sono i polisillabi? ■ Cos’è un dittongo? ■ Cos’è un trittongo? ■ Cos’è uno iato?

Una sillaba si può definire come un gruppo di lettere che contengano almeno una vocale, che si pronunciano con una sola emissione di fiato e che costituiscono un’unità fonetica minima.

Le parole possono essere monosillabi (è, voi, ), bisillabi (ca-ne, gat-to), trisillabi (mac-chi-na, cer-biat-to) e e polisillabi che hanno quattro o più sillabe (ma-sti-ca-re, con-si-de-re-vol-men-te).

All’interno delle sillabe si può trovare un dittongo, che è costituito da due vocali adiacenti che si pronunciano con una sola emissione di fiato e che appartengono alla stessa sillaba; il trittongo è invece formato da tre vocali.

Nei dittonghi, le vocali consecutive formano una sillaba indivisibile (voi, piat-to, fie-no, fio-re, fiu-me, pun-tua-le, duel-lo, fuo-ri), e lo stesso avviene per i trittonghi (miei, tuoi, pi-gliai, ma-riuo-lo). Dunque in questi casi non si può andare a capo dividendoli: fanno parte della stessa silaba (vedi anche → “Divisione in sillabe“).

Se invece le vocali formano uno iato (accostamento di vocali consecutive che rimangono separate), si pronunciano con due emissioni di fiato diverse e appartengono a sillabe diverse (zi-a, ma-e-stra, po-e-si-a).

Solitamente lo iato è il risultato di un incontro tra vocali “forti” (a/e/o) come po-e-ta, bo-a-to, a-e-re-o, e-ro-e, pa-e-se, oppure si ha quando le vocali deboli (i/u) hanno un accento tonico: pa-ù-ra, zì-o, tù-o, vì-a. Ma, come sempre, le eccezioni sono in agguato, per esempio: li-u-to o pi-o-lo. Perciò, visto che la questione delle sillabe è molto complessa, il primo consiglio pratico (per i meno coraggiosi) è quello di evitare di andare a capo, in caso di dubbi (vedi → “Divisione in sillabe“).

Bisogna tenere presente che la stessa definizione di sillaba, basata sui suoni, è stata messa in discussione da alcuni linguisti e che le regole di divisione in sillabe della nostra lingua sono state fissate nel 1969 (norma UNI 6461-97) dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione che disciplina le norme di tutti i settori industriali. Ma sono così complicate da ricordare e imparare che in caso di incertezze è meglio consultare un dizionario che fornisce anche la divisione in sillabe delle parole.

Le regole per combinare le lettere nella formazione delle parole

■ Quando si scrive “ce” di cento e quando “cie” di cielo? ■ Quali sono le parole che si scrivono con la i come cielo? ■ Quali sono le parole che si scrivono senza i, come celeste? ■ Quando si usa “qu” di quaderno, e quando “cq” di acqua? ■ Quando si usa “cu” di cuore e quando “qu” di quadro? ■ Quali sono le parole che non vogliono la q, come taccuino? ■ Perché si scrive iniquo con la Q, ma proficuo con la C? ■ Quando si scrive con il GL (come aglio) e quando senza (come olio)? ■ Quali sono le parole che si scrivono senza il GL come cavaliere? ■ Quali sono le parole che si scrivono con il GL come aglio? ■ Perché glicemia non si pronuncia come aglio? ■ Davanti a B e P la N si trasforma sempre in M? ■ Perché si dice Giampiero con la M ma benpensante con la N? ■ Il GN non è mai seguito dalla i? ■ Si dice sognamo o sogniamo con la “i”? ■ Perché se dopo il GN non si usa la “i” si dice compagnia? ■ Quando si usa il GN di gnomo e quando non si usa come in niente e in genio? ■ Le parole con -ZIA, -ZIO E -ZIE come grazie si possono a volte scrivere con la doppia Z? ■ Perché si dice giustiziere con una sola Z ma corazziere con due Z? ■ Perché “sopra” + “tutto” diventa “soprattutto” con la doppia T? ■ Perché coscienza si scrive con la “i” e conoscenza senza? ■ Quali sono le parole come scienza che vogliono la “i”? ■ Quali sono le parole come conoscenza che si scrivono senza la i? ■ Il suono “sce” di scendere è diverso dal suono “scie” di scienza? ■ Quali sono le forme del verbo avere che richiedono l’H come “hanno”? ■ Quando si usa la H in italiano?

Le lettere dell’alfabeto si combinano tra loro nel formare le sillabe, e dunque le parole, seguendo alcune regole che possono fugare molti dubbi ortografici che spesso attanagliano tutti: perché si scrive coscienza ma conoscenza? Perché si scrive cielo ma celeste? E la q? Come ci si può destreggiare tra acqua, scuola e soqquadro? Quando usare il gl (aglio) e quando no (olio)? E perché si scrive niente ma gnomo?

Di seguito alcune indicazioni, esempi ed eccezioni che dovrebbero risolvere i dubbi grammaticali più frequenti.

 “Ce” di cento o “cie” di cielo?

La maggior parte delle parole con il suono ce non presenta problemi: si scrivono senza la i: cento, cera, cerotto e cetriolo.

Tuttavia ci sono alcuni vocaboli che invece richiedono la i (anche se nella pronuncia non si sente), tra queste è bene ricordare le seguenti eccezioni:

cielo e cieco, che però nei derivati perdono però la i: celeste e cecità;
pasticciere (ma si è diffuso anche pasticcere), anche se pasticceria si scrive senza la i:
crociera, che non deriva da croce, e si scrive diversamente da crocefiggere, crocevia… che come il sostantivo che li ha generati non vogliono la i;
società, superficie e specie;
sufficiente e derivati (insufficienza…), efficienza e derivati (inefficienza…).

Anche il suono ge presenta qualche eccezione che prevede la i, per esempio igiene e derivati (igienico, igienista, igienizzante).

Bisogna poi fare attenzione ai plurali dei nomi che terminano in –cia e –gia che al plurale mantengono la i quando sono preceduti da vocale (ciliegiaciliegie, valigiavalige), mentre la perdono quando sono preceduti da una consonante (provinciaprovince, aranciaarance).

Per saperne di più → “I plurali dei nomi che terminano in -co e -go).

“Qu” di quaderno, “cq” di acqua o “cu” di cuore?

Il suono cu si scrive quasi sempre con “qu” (quaderno, quarzo, questione, quiete, quiz), sempre seguito da vocale, anche se tra le eccezioni (la differenza nella pronuncia è impercettibile) ci sono:

arcuato (da arco), acuire, innocuo, circuire, circuito, cospicuo, cui, cuocere, cuoio, cuoco, cuore, proficuo, promiscuo, percuotere, riscuotere, scuola, scuotere, taccuino e vacuo.

La ragione di queste differenze sta nell’etimo di ogni parola, dunque si scrive iniquo (perché deriva da non equo), ma proficuo (da proficuus cioè che dà profitto).

Quando il suono è rafforzato si usa il “cq” (acqua, acquisto) tranne in soqquadro, l’unica parola della nostra lingua con la doppia q.

Il gl o no? Aglio, olio e glicemia

Nel caso del trigramma gli + vocale (aglio, coniglio, taglio, voglio…) in certi casi è sostituito da li + vocale, ma la pronuncia è un po’ diversa e aiuta a scrivere correttamente parole come olio, cavaliere, concilio, milione o esilio.

Anche se le parole con gli si pronunciano quasi sempre dolci, questi dubbi svaniscono nei pochi casi in cui la pronuncia è dura, per esempio glicemia, glicerina, glicine o glicemico che derivano dal greco glykeròs che significa “dolce” (da cui glucosio). Lo stesso avviene nel caso di glissare, cioè sorvolare (dal francese glisser), o nei derivati di glisso- (incidere) tra cui glittica (tecnica di incisione) o glittografia.

N + B e P = imb e imp (ma non vale per i benpensanti)

Un’altra delle regole alla base della formazione delle parole vuole che la n, davanti alle lettere b e p, si trasformi in m per ragioni eufoniche, per cui in + possibile diventa impossibile, e Gian Piero e Gian Paolo, se diventano un nome solo, si trasformano in Giampiero e Giampaolo (di solito).

Tuttavia il cane sanbernardo, il sanpietrino (ma anche sampietrino), il panpepato e il benpensante mantengono la n, perché sono percepiti come termini staccati, mentre parole straniere acquisite come input o bonbon non seguono certo le regole della nostra lingua.

Il gn non vuole mai la i (a meno che non sogniamo in compagnia e che non ci sia niente da fare)

Tra le regole della formazione dei gruppi consonantici c’è quella del gn che non va mai seguito dalla i (gnocco, gnomo…) tranne per i verbi in -gnare che, coniugati, possono avere forme come sogniamo (dove la i fa parte della desinenza verbale: sogn-iamo è come am-iamo, e omettere la i non è elegante, anche se è diffuso) o in parole come compagnia (dove per fortuna l’accento che cade sulla i non lascia dubbi) che è una cosa diversa da compagna.

Ma anche se la maggior parte delle parole segue la regola del gn, altre volte, invece, la g non è presente (la pronuncia è un po’ diversa, ma bisogna avere orecchio), per cui bisogna fare attenzione a non scrivere con il gn parole come niente, genio o scrutinio!

I raddoppiamenti: dire che zio e zia non vogliono mai la doppia z sarebbe una pazzia

Un’altra regola che si ripete spesso in modo impreciso è che zio, –zia e –zie non vogliono mai la doppia z, dunque si scrive razione, reazione, iniziazione, inezia, grazie… Ciò è vero il più delle volte, però c’è qualche eccezione, come pazzia e razzia, e se giustiziere si scrive con una sola z, ciò non vale per corazziere, tappezziere e carrozziere (costruiti sulla doppia z di corazza, tappezzeria e carrozza). Meglio riformulare la regola specificando che solo davanti alle parole in ione la z – e anche la g – non si raddoppiano mai (ragione, nazione), esattamente come davanti alle parole in ile la b non si raddoppia mai (abile, mobile).

Viceversa, in molti altri casi il raddoppiamento di consonante nelle parole composte diventa una regola (per ragioni eufoniche) per cui sopra + tutto diventa soprattutto (sempre con quattro t in totale), + su (o giù) diventa lassù (o laggiù) o da + capo diventa daccapo.

La scienza e la conoscenza

Un altro dubbio grammaticale frequente riguarda l’ortografia di sc quando è pronunciato dolce, che talvolta è seguito dalla i e altre volte dalla e. Si scrive quasi sempre senza la i: sce (scendere, scemo, cosce), tranne in parole come

usciere;
scie (plurale di scia);
coscienza e derivati (incoscienza);
scienza e tutti i derivati: fantascienza, scientifico… (mentre conoscenza si scrive senza i perché deriva da conoscere e non da scienza).

Attenzione alla H

Un’ultima precisazione riguarda l’uso della lettera h; bisogna ricordare che serve per rafforzare quattro forme del verbo avere:

ho, hai, ha e hanno (nel caso di essere per il rafforzamento si usa l’accento: è).

L’h, inoltre, si usa anche in alcune interiezioni come ahimè! oh! ahi!… oltre che per rendere duro il suono di c e g (chiesa, ghette) e in alcune parole straniere (hotel, hall, humus…).

La fonte (font) e il corpo di un testo

■ Cos’è la fonte o il font di un testo? ■ Che differenza c’è i caratteri con le grazie e senza grazie? ■ È consigliabile usare il Comic? ■ Meglio usare i caratteri di sistema come il Times e l’Arial o quelli speciali? ■ La scelta di carattere dipende anche dallo scrivere per la carta o per il Web? ■ Cos’è il corpo di un testo? ■ Qual è il carattere più utilizzato nei libri?

Per scrivere un testo con un programma di videoscrittura esiste una vasta gamma di caratteri di stampa o fonti (in inglese font) che a loro volta possiedono un corpo (cioè una dimensione), uno stile (normale, corsivo, grassetto…) e altre caratteristiche come il colore.

Il testo è poi impaginato con una sua giustificazione.

La fonte è il tipo di carattere che si può decidere di utilizzare. Ci sono quelle con le grazie (i tratti terminali che marcano i caratteri ben visibili per esempio sulla T o sulla N), per esempio il Times New Roman, il Garamond, il Georgia o il Courier che imita i caratteri delle macchine per scrivere che si utilizzavano prima della rivoluzione digitale; altre fonti sono invece senza grazie e più arrotondate come l’Arial o il Verdana, e poi c’è il Comic, adatto agli scritti per bambini (di pessimo gusto e controproducente per la scrittura professionale). Molti altri caratteri sono adatti per realizzare scritte di impatto grafico più che per la scrittura dei testi.

Quando si scrive un testo che sarà impaginato e trattato da altri, per esempio una redazione, la cosa migliore è non preoccuparsi della fonte. Solitamente le case editrici richiedono testi in Times New Roman (quello spesso predefinito) con giustificazione a bandiera (l’impaginazione è infatti a loro cura).
Se invece dovete produrre un testo che stamperete da soli, da pubblicare in Rete o da far circolare sulla carta, dovrete cercare di dargli anche una forma piacevole e impaginarlo da soli.

La scelta del carattere non dipende solo dal gusto personale, ma anche dall’obiettivo del testo, dal destinatario e dal supporto su cui sarà letto.

In linea di massima meglio usare i caratteri più comuni e diffusi; il Times New Roman non è considerato molto elegante sulle pagine Web, e può essere più adatto il Verdana o l’Arial (senza grazie) oppure il Garamond o il Georgia (con le grazie), che sono molto chiari e utilizzati anche per la carta. Il Garamond è di solito il carattere più utilizzato nei libri. Comunque esiste una vastissima gamma di altre possibilità; spesso le differenze rispetto a questi caratteri principali sono leggere e ognuno può scegliere quella che preferisce a seconda dei gusti e degli scopi, con un po’ di buon senso: usare il Comic, adatto ai bambini, per un lavoro professionale è controproducente.

Quando si scrive per la Rete è bene non utilizzare caratteri speciali, ma ricorrere a quelli di sistema più diffusi. Se utilizzate una fonte particolare che possedete solo voi, è possibile che la pagina che leggerà un altro utente in Rete carichi un altro tipo di carattere, e non quello che visualizzate voi e che sta solo sul vostro sistema.

Dopo avere scelto il tipo di carattere, potete impostare il corpo del testo, cioè la dimensione dei caratteri. Quello di sistema è di solito il Times a 12, e questa dimensione è quella comunemente più utilizzata anche per gli altri caratteri, ma per i titoli, per esempio, potete aumentarlo a 14 o anche a 16, dipende dal testo e dagli intenti.

Maiuscole e minuscole

■ Quando una parola deve essere scritta con l’iniziale maiuscola e quando minuscola? ■ Dopo i due punti si può usare la maiuscola? ■ Dopo il punto interrogativo si può evitare la maiuscola? ■ Dopo i puntini di sospensione è sempre obbligatoria la maiuscola? ■ Perché “Monte” Rosa si scrive maiuscolo, ma il “monte” Gran Sasso in minuscolo? ■ Perché il “fiume” Tevere si scrive minuscolo ma il “Lago” Maggiore tutto maiuscolo? ■ Gli eventi storici come la “Rivoluzione” francese si scrivono con la maiuscola? ■ I movimenti artistici o culturali come il “Futurismo” si scrivono con la maiuscola? ■ I periodi storici come il “Rinascimento” si scrivono con la maiuscola? ■ I movimenti artistici o culturali come il “Futurismo” si scrivono con la maiuscola? ■ Le epoche come il “Novecento” o i periodi come gli anni “Settanta” si scrivono con la maiuscola? ■ Quando nord, sud, est e ovest si scrivono con la maiuscola? ■ I nomi degli ordini biologici come i “Mammiferi” si scrivono con la maiuscola? ■ “Luna” che è il nome proprio del nostro satellite si scrive con la maiuscola? ■ I numeri romani si scrivono sempre con la maiuscola? ■ “Dio” si scrive con la maiuscola? ■ Meglio scrivere “I promessi sposi” o “I Promessi Sposi” con le maiuscole? ■ La Divina Commedia si scrive con entrambe le iniziali maiuscole? ■ “Papa” o “re” si scrivono in maiuscolo? ■ Meglio scrivere “I promessi sposi” o “I Promessi Sposi” con le maiuscole? ■ Meglio scrivere “paese” in minuscolo o maiuscolo? ■ I nomi dei popoli si scrivono in maiuscolo? ■ La “Borsa” di Milano si scrive in maiuscolo? ■ I giorni e i mesi si scrivono con l’iniziale maiuscola? ■ Le sigle si scrivono in maiuscolo? ■ Si può usare il maiuscolo per evidenziare un concetto o una parola in un testo? ■ Che cos’è il maiuscoletto?

L’iniziale maiuscola si usa quando si inizia un periodo o nei nomi propri, e più precisamente in questi casi:

● dopo il punto, il punto esclamativo, interrogativo e i puntini di sospensione, se la frase si conclude; anche dopo i due punti seguiti dalle virgolette che si usano nelle citazioni è buona norma usare la maiuscola, per esempio: disse: “Ciao”;
● nei nomi propri di persona (Laura) o animale (Fido), nei soprannomi e appellativi (il Savonarola e il Canaletto);
● nei nomi geografici e topografici (il Monte Rosa, il Lago Maggiore, Palazzo Marino, via del Campo, piazza Tricolore, la Cappella Sistina, ma anche il Nuovo Mondo e l’Estremo Oriente); tuttavia, nei casi in cui il doppio nome non sia parte integrante della denominazione, solo il nome proprio va in maiuscolo, per cui si scrive il Monte Rosa ma il monte Gran Sasso (monte in questo caso non fa parte del nome proprio, è nome comune), così come il Lago Maggiore ma il fiume Tevere;
● nei nomi commerciali di aziende e marchi registrati (la moto Guzzi, i gialli Mondadori);
● nei nomi di enti e istituzioni (per lo più solo la prima parola, il Ministero dei beni culturali, il Movimento cinque stelle, ma non sempre e necessariamente, per esempio la Croce Rossa) e in quelle di associazioni (Avis), squadre sportive (Juventus) o gruppi artistici (i Beatles, i Gufi);
● per alcuni eventi storici significativi (la Rivoluzione francese o la Prima guerra mondiale o anche Prima Guerra Mondiale);
● nel caso delle epoche (il Medioevo, il Risorgimento) e nei nomi di decenni e secoli (gli anni Settanta, l’Ottocento, l’anno Mille) e delle correnti culturali (l’Espressionismo, il Futurismo);
● nei titoli delle opere letterarie, musicali, giornali, riviste o nei documenti ufficiali (lo Zibaldone, la Traviata, l’Espresso, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo);
● nei punti cardinali quando indicano una particolare regione: il Nord America, il Sud Africa (quando invece indicano una direzione si usa il minuscolo: andare a sud, pochi chilometri a nord di Berlino);
● nei nomi delle festività (Natale, Pasqua);
● nei numeri romani (I, II…), tranne quando sono apposti in un testo come apice per indicare le note editoriali, es. xxxiv;
● nelle classificazioni biologiche del regno animale e vegetale quando indicano ordini, classi e famiglie (i Mammiferi, i Lepidotteri, le Conifere) che diventano invece tutti minuscoli quando sono usati in senso comune, così come in senso scientifico si scrive la Luna (il nome proprio del satellite) ma diventa la luna nel linguaggio comune.

Dio, stando al dizionario, per rispetto si scrive maiuscolo quando indica l’essere supremo delle grandi religioni monoteistiche, mentre diventa un dio quando si riferisce alle altre divinità, “al tempo degli dei falsi e bugiardi” per dirla con Dante (Divina Commedia, Inf., I, 72).

Quando si scrive in maiuscolo una lettera accentata è sempre evitare di usare l’apostrofo invece dell’accento, ed è consigliabile cercare il simbolo apposito tra i caratteri speciali, visto che non è presente sula tastiera. In particolare bisogna fare attenzione alla voce del verbo essere “è”, che sia in minuscolo sia in maiuscolo, va scritta con il suo accento grave (“è” e “È” e non e’ e E’): accento e apostrofo sono infatti due segni diversi.

Maiuscole o minuscole?

Se un tempo si tendeva a utilizzare il più possibile le iniziali maiuscole, oggi la tendenza è quella di evitarle, quando non sono indispensabili. Vanno scomparendo e attenuandosi sempre maggiormente le forme reverenziali, un tempo preferibilmente maiuscole. Ormai nessuno (o quasi) si fa chiamare “dottore” per ostentare la laurea, per cui scrivere Dottore addirittura in maiuscolo risulta sempre più fuori luogo. Come anche presidente, ministro, re e papa si possono tranquillamente scrivere in minuscolo, quasi obbligatoriamente quando sono apposizioni di nomi (re Umberto II, papa Francesco, il presidente della Repubblica, il marchese del Grillo), mentre da soli, il Papa e il Re, si possono tollerare, ma stanno cadendo in disuso. Anche nelle lettere formali o commerciali, sono ormai in regressione e suonano un po’ obsolete le formule referenziali di una volta che prevedono l’uso delle maiuscole per i pronomi che riguardano il destinatario come: “PorgendoLe i miei migliori auguri La saluto cordialmente”.

E così, anche se paese (minuscolo) indica un agglomerato urbano e Paese indica una nazione, ormai questa distinzione si trova sempre meno, nei libri e sui giornali, e non è più obbligatoria, come anche i nomi dei popoli (gli Italiani, i Cinesi) tendono a comparire sempre più in minuscolo, senza più fare distinzioni tra il loro uso come nome (gli Inglesi), e quello come aggettivo (i costumi inglesi) obbligatoriamente in minuscolo, in questo secondo caso. Sono ancora diffusi e quasi obligatori, invece, nel caso delle popolazioni antiche: gli Egizi, gli Etruschi.

Le distinzioni tra maiuscole e minuscole continuano ad avere un senso in certi contesti per esempio per differenziare il significato di alcune parole: una chiesa e la Chiesa (come istituzione), la borsa e la Borsa (degli affari), un consiglio e il Consiglio (dei ministri o di amministrazione), la facoltà di parola e la Facoltà di Filosofia… Altre volte si può scrivere per esempio Web o Internet con le iniziali maiuscole, ma nel vocabolario sono riportati minuscoli e di fatto non c’è una regola per preferire una forma all’altra, soprattutto quando questi termini penetrano nel nostro linguaggio in modo profondo e sempre più diffuso.

Non c’è alcuna ragione per scrivere con l’iniziale maiuscola, come spesso si vede, per esempio i nomi dei mesi, o i giorni della settimana: non sono nomi propri di mesi e giorni, sono nomi comuni: lunedì 3 gennaio.

Ciò vale anche, dopo la prima parola, per i titoli dei libri, dei film e simili, che spesso sono scritti per vezzi grafici con le iniziali maiuscole, all’americana, per cui si trova I promessi sposi, ortograficamente corretto e preferibile (a mio gusto), ma anche I Promessi Sposi. Fate un po’ come volete, in questi casi, è una questione di stile (ma Divina Commedia si scrive per convenzione sempre con la doppia maiuscola).

Un discorso a parte va fatto per le sigle e gli acronomi che un tempo si scrivevano preferibilmente in maiuscolo (ENEL, AIDS), ma oggi la tendenza è di riportare almeno quelle più conosciute solo con l’iniziale maiuscola (Unesco, Fiat) o addirtura completamente in minuscolo per quelle entrate nell’uso comune (tv, cd). Per approfondire l’uso delle maiuscole in questi casi e anche il loro genere e la loro pronuncia, vedi → “Sigle e acronimi“.

Per lo stesso motivo di carattere grafico e di buon gusto, nell’editoria non si usa mai il maiuscolo per evidenziare parole o concetti a cui dare risalto all’interno di un testo. Si tende a evitare il corpo tutto maiuscolo persino nei titoli, perché appesantisce, a maggior ragione nel testo è meglio farne a meno. Per dare risalto a delle parole meglio usare il grassetto o il corsivo (vedi → “Lo stile di un testo e l’uso del corsivo“).

Quando non si può fare a meno del maiuscolo è preferibile scegliere il maiuscoletto, che mantiene la differenza tra maiuscole e minuscole, ed è più aggraziato, se si vuole introdurre in qualche titolo.

I due punti

■ Quando si usano i due punti? ■ Dopo i due punti si può usare la maiuscola? ■ Sono indispensabili i due punti prima degli elenchi? ■ Come si abbinano i due punti con le virgolette nel discorso diretto? ■ È giusto scrivere ho mangiato: un panino? ■ Si possono usare i due punti nello scrivere l’ora seguita da minuti e secondi? ■ Si possono usare i due punti nel discorso indiretto?

I due punti servono a specificare e chiarire qualcosa che segue, e hanno la funzione di precisare; per esempio:

a quel punto ho capito tutto: l’assassino era il maggiordomo.

Però non si possono usare per specificare per esempio l’oggetto di un verbo, dunque si dice ho mangiato un panino (e non ho mangiato: un panino).

Si usano anche per introdurre il discorso diretto (mai quello indiretto), e sono in questo caso di solito seguiti dalle virgolette; per esempio:

le domandai: “E tu che fai?” (e mai per il discorso indiretto: “le domandai: che cosa facesse”).

Dopo i due punti si procede con la minuscola, tranne quando sono seguiti dalle virgolette, in tal caso è buona norma cominciare con la maiuscola (mi disse: “Aspettami!”).

Si impiegano di solito (anche se non sempre e obbligatoriamente) prima degli elenchi (es. ingredienti: uova, farina, latte); quando gli elenchi sono numerati o “elenchi punto” diventano indispensabili ed è consigliabile anche andare a capo subito dopo. Per esempio:

lista della spesa:

● detersivo;
● vino;
● insalata.

Si trovano anche per indicare le ore in modo puntuale con la separazione di minuti e secondi, per esempio: sono le 15:34:05. E poi si possono trovare in matematica come segno di divisione (8 : 2 = 4).

I caratteri della tastiera e lo spazio

■ Quando si usa lo spazio bianco? ■ Perché bisogna evitare i doppi spazi? ■ Quando si usa la e commerciale (&)? ■ Perché il cancelletto (#) è impropriamente detto hastag? ■ Per scrivere 1° si usa lo stesso carattere dei gradi centigradi (°)?

Quando si scrive non si ha a che fare solo con le lettere dell’alfabeto, ci sono anche i caratteri accentati (é, è), i segni che servono per la punteggiatura, l’apostrofo e moltissimi altri caratteri.

Anche lo spazio bianco è un carattere: la barra spaziatrice serve per separare le parole. In generale non va mai messo prima della punteggiatura, e non si mette mai per separare le parentesi o le virgolette dalla parola che racchiudono.

Quando si scrive è bene evitare di usare i doppi spazi all’interno del testo: essendo a tutti gli effetti caratteri, scombinano l’impaginazione o creano una separazione tra le parole eccessiva. Anche il carattere della tabulazione (talvolta indicato sulla tastiera con tab, o con il simbolo della freccia) è da evitare nei testi che devono poi essere giustificati e impaginati, perché introduce una serie di spazi fissi che rimaneggiando il testo possono creare spaziazioni errate.

Tra i caratteri non alfabetici più frequenti presenti sulla tastiera ci sono i simboli delle monete (, £, $), il percento (%) o la “e commerciale” (&) che è sempre meglio evitare quando si scrive in italiano: se non fa parte di un nome proprio (es. il gruppo musicale Kim & The Cadillacs) si sostituisce con la “e” normale (mentre in inglese equivale a “and”). Il simbolo ° si usa per indicare per esempio i gradi centigradi (10 °C), anche se spesso si usa per semplicità anche come indicatore dei numeri ordinali (1°, 2°… al femminile sostituito da una “a” in apice, 1ª = prima); per essere pignoli sarebbero due caratteri leggermente differenti (se le fonti scelte e i programmi di scrittura li supportano), e “primo” corrisponderebbe a una piccola o, più ovale.

Ci sono poi altri caratteri che nell’era di Internet sono diventati imprescindibili, per esempio la chiocciola (@) che si impiega negli indirizzi di posta elettronica o il cancelletto (#), impropriamente detto anche hastag (ma in inglese si chiama hash, e hashtag è un composto con tag = etichetta) che, posto prima di una parola, serve per creare una categoria o un’etichetta che si può inserire e rintracciare su varie piattaforme sociali.

Infine, bisogna tenere presente che possono servire moltissimi altri caratteri che non sono presenti sulla tastiera e che all’occorrenza vanno individuati e inseriti cercandoli tra i simboli e i caratteri speciali.

Apostrofo: elisione e troncamento

■ Cos’è l’elisione? ■ Cos’è un troncamento? ■ Cos’è l’aferesi? ■ Che differenza c’è tra elisione e troncamento? ■ Che differenza c’è tra apostrofo e accento? ■ I troncamenti richiedono l’apostrofo? ■ Quando l’apostrofo è obbligatorio? ■ Davanti a vocale l’apostrofo è sempre obbligatorio? ■ Scrivere questa azienda è errato? ■ Si può dire c’è e c’ha? ■ Qual è e tal altro si possono scrivere con l’apostrofo? ■ Si può scrivere qual’erano? ■ Quali sono i troncamenti che richiedono l’apostrofo? ■ Perché non si può scrivere “la penna d’Antonio” ma si scrive “d’altro canto”? ■ Per ché “l’isola” si apostrofa ma la iella non si può apostrofare? ■ Si può apostrofare una parola che inizia per consonante? ■ Si può scrivere l’Fbi o l’8 marzo? ■ Tra e fra si possono apostrofare?

L’apostrofo (che non bisogna mai confondere con l’accento) si mette al posto di una vocale che cade e viene omessa, e si chiama anche elisione (da elidere). Sta al posto dell’ultima vocale di una parola, che si sostituisce con l’apposito segno () e si attacca alla parola successiva. Il motivo di queste elisioni è quello di far suonare meglio e in modo più naturale e semplice la pronuncia.

L’apostrofo prende il posto dello spazio che dividerebbe le parole, dunque le parole apostrofate si scrivono attaccate e senza spazio, come fossero una sola (mai scrivere “l’ amico“).

Proprio per questa ragione eufonica, l’uso dell’apostrofo è spesso una questione di stile e di orecchio: non ci sono delle regole rigide, e si può scrivere correttamente sia “una ipotesi” sia “un’ipotesi”, oppure “questa azienda” e “quest’azienda” (ma anche se non è grammaticamente scorretto la forma apostrofata è preferita e molto più frequente). Per sapere di più sull’uso con gli articoli vedi → articoli determinativi e → indeterminativi.

Più precisamente, l’uso dell’apostrofo davanti a vocale è facoltativo con:

questo e questa (solo al singolare): questo uomo o quest’uomo;
● la preposizione di: di interesse o d’interesse, di intesa e d’intesa;
● le particelle pronominali mi, ti, si e vi (nel caso di ci è obbligatorio con il verbo essere, c’è e c’era, ma errato con le parole che iniziano con altra vocale e il verbo avere, c’aveva, c’ho): mi illumino e m’illumino, ti amo e t’amo
anche seguito dai pronomi personali: anche io o anch’io, anche egli o, anch’egli (ma solo in questi casi, non si può dire anch’Elena);
come, dove, quando e quanto seguiti dal verbo essere: come è o com’è, dove è o dov’è… (ma non si usa dire quand’andiamo o quant’armonia).

L’elisione è invece diventata obbligatoria davanti a vocale:

● con gli articoli lo e la (e le preposizioni articolate da loro formate): l’anima, l’apostrofo, dell’uomo, sull’albero, nell’acqua;
● con quello e bello (solo al singolare): bell’armadio, bell’uomo, quell’altro;
● con ci seguito dalle forme del verbo essere che iniziano con è: c’è, c’era, c’erano;
● con santo seguito da una parola che inizia con vocale: sant’Antonio, sant’Anna;
● in varie frasi fatte come mezz’ora, d’altra parte, d’ora in poi, d’altronde, buon’anima, senz’altro

Viceversa, l’elisione non si fa mai:

● con da: andiamo da Antonio, vengo da Ancona, da anni (tranne in alcune locuzioni fatte come: d’altro canto, d’altra parte, d’ora innanzi, d’ora in poi, d’altronde…);
● con le, gli e i loro derivati e composti: le elezioni (e mai l’elezioni), delle erbe, degli altri, gli elefanti (solo davanti alla i è in teoria possibile apostrofare gli, per esempio gl’istrici, ma è meglio evitarlo, non è molto usato);
● con su, tra e fra: tra amici, fra alunni;
● davanti alle i con valore di semiconsonante (cioè che fungono da consonanti perché sono seguite da vocale): la iella (e mai l’iella), la Juventus, la iuta
● Con questi, queste, quelle, quegli, belle, belli, begli…: che begli occhi (meglio non scrivere begl’occhi).

Talvolta, si usa l’apostrofo anche quando una parola si pronuncia come se iniziasse per vocale, e per esempio si può scrivere l’Fbi, perché anche se si scrive con la f è pronunciato come se iniziasse per e (sulla pronuncia delle sigle vedi “Sigle e acronimi“); lo stesso vale nel caso di l’8 marzo (perché è considerato come se iniziasse con la o). Dunque in questi casi si può trovare l’apostrofo anche per parole che iniziano con consonante o con numeri.

Il troncamento

Il troncamento si distingue dall’apostrofo perché anche se in qualche caso si usa il medesimo segno per indicare la caduta di un sillaba (po’ per poco, a mo’ per a modo), non si lega alla parola successiva, e fa parte della parola troncata.

Quando po’ è vicino ad altre parole mantiene lo spazio di separazione: “un po’ a me” è ben diverso da “l’amico” che si scrive tutto attaccato. Nel primo caso l’apostrofo è parte integrante della parola che ha perso una sillaba e che vive da sola, nel secondo caso lo stesso segno indica che è avvenuta la caduta di una vocale per l’elisione (l’ non è una parola che vive da sola).

Negli altri casi, però, i troncamenti non richiedono l’apostrofo e utilizzarlo nelle forme tronche sarebbe un errore grave: buon uomo non si apostrofa mai, e il fatto che la parola che segue buon inizi per vocale o consonante è indifferente, si scrive “un buon amico” esattamente come “buon pasto”, “buon libro” o “buon giorno”.

Gli errori più comuni e diffusi in proposito riguardano tale e quale: si scrive “qual è”, “qual era”, “tal uomo”, “tal altro” sempre senza apostrofo, come a “tal punto”, perché tal e qual sono parole che vivono da sole e sono già tronche, non necessitano perciò dell’elisione: “Qual’è” è uno degli errori/orrori più diffusi da evitare!
L’uso di qual e tal tronchi o per esteso è facoltativo, si può dire qual buon vento ma anche quale buon vento, così come si può dire “chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto” (I promessi sposi), e in qual maniera, la qual cosa, qual si voglia, chissà in qual ordine

Invece al plurale quali si può elidere (la forma tronca qual significa quale, non quali), dunque è corretto scrivere qual’erano oltre a quali erano.

Dunque, quando esiste una parola tronca che vive da sola, come qual, tal, buon, alcun… non bisogna mai usare la parola senza troncamenti e apostrofarla!
Lo stesso vale nel caso degli articoli indeterminativi un e uno: al maschile uno non si apostrofa mai, si usa la forma tronca un; solo al femminile, visto che esiste solo la forma una, la si apostrofa davanti a vocale: un’amica (ma mai un’amico).
Allo stesso modo non si mette l’apostrofo in casi come signor Antonio (signor al posto di signore vive da solo: per es. signor Marco), nessun amico e nessun soldo (nessuno segue le regole di uno da cui è composto).

I troncamenti che richiedono l’apostrofo

Tra i pochi casi di troncamento che richiedono l’apostrofo oltre a po’ (troncamento di poco, che non bisogna mai scrivere con l’accento: “” è un errore) e mo’ (nel significato di a modo: a mo’ d’esempio) c’è anche to’ (prendi), ca’ (nel senso di casa: ca’ Foscari).
Spesso si trova l’apostrofo anche negli imperativi tronchi: fa’ (= fai), da’ (= dai), sta’ (= stai), va’ (= vai), ma non obbligatoriamente (queste forme verbali si trovano anche per esteso, a parte di’ = dimmi).
Oppure si usa l’apostrofo nelle date troncate: il ’68 (cade la prima parte sottintesa di 1968).

L’unico caso in cui si usa l’accento invece dell’apostrofo per indicare un troncamento è piè al posto di piede (Achille piè veloce, a piè di pagina, piè fermo), e poi alcuni dizionari riportano anche l’imperativo del verbo dare da’ affiancato anche dalla variante accentata (decisamente meno corretta ed elegante).

L’elisione nell’aferesi

L’elisione, infine, può comparire anche quando la caduta di una sillaba è all’inizio di parola (in questo caso il “troncamento” iniziale si chiama aferesi) per esempio nelle forme di registro popolare come ‘sto e ‘sta (meglio evitarle fuori dai registri popolari) al posto di questo o questa, in quelle poetiche come ‘l per il (S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo), o in quelle gergali non ufficializzate nei dizionari come ‘notte per buonanotte.

Vedi anche
→ “Apostrofo e accento sono segni diversi da non confondere
→ “Uno, un e una: gli articoli indeterminativi e quando si apostrofano
→ “L’apostrofo degli articoli: non si usa nel caso di gli e le” (paragrafo interno al collegamento)
→ “Le preposizioni articolate” (contiene le prescrizioni sull’apostrofo)

Apostrofo e accento sono segni diversi da non confondere

■ Che differenza c’è tra apostrofo e accento? ■ Perché po’ si scrive con l’apostrofo e però con l’accento? ■ Si può scrivere “pò”? ■ Si può scrivere E’ al posto di È? ■ Il troncamento di piede è piè o pie’?

Anche se si assomigliano, non bisogna confondere mai l’accento grafico con l’apostrofo, detto anche elisione: sono due segni diversi.

Per ragioni eufoniche, quando una parola che termina con vocale (es. una) è seguita da un’altra che inizia con vocale (es. amaca), l’ultima vocale della prima parola si può omettere sostituendola con l’apostrofo (un’amaca).

Questo segno indica perciò che è avvenuta la caduta di una lettera, ma talvolta, e solo di rado, si pone anche per indicare che è avvenuto un troncamento, cioè la caduta di una sillaba finale di una parola. Per esempio è obbligatorio l’apostrofo con: po’ (= po-co), a mo’ di (= mo-do), ca’ Foscari (= ca-sa Foscari).

La confusione che talvolta si può generare con l’accento si verifica proprio in questi casi: quando l’apostrofo è posto a fine parola. Ma non bisogna mai scrivere po’ con l’accento (). In altri termini, non bisogna confondere le parole tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba, come maestà, perché o caffè, colibrì, però e Belzebù) con quelle “troncate”, cioè che hanno subito un troncamento, come po’.

L’unico caso in cui si usa l’accento per indicare un troncamento è piè invece di piede (Achille piè veloce, a piè di pagina), ma si può considerare “l’eccezione che conferma la regola” (anche se qualche dizionario annovera con l’accento accanto alla forma più corretta da’ per l’imperativo tronco di dare (al posto di dai).  

Per lo stesso motivo, non bisogna neanche mai usare l’apostrofo al posto dell’accento e scrivere per esempio realta’ o caffe’ invece di realtà e caffè, e questo vale anche nei casi in cui il carattere accentato non è presente sulla tastiera, come avviene per la è maiuscola (che si scrive È e non E’ così come nel caso del minuscolo si scrive è e non e’).

Monosillabi che cambiano significato con l’accento

■ Quali sono i monosillabi che vogliono l’accento? ■ Che differenza c’è tra “te” e “tè”? ■ Che differenza c’è tra “di” e “dì”? ■ Che differenza c’è tra “ne” e “né”? ■ Che differenza c’è tra “da” e “dà”? ■ Che differenza c’è tra “si” e “sì”? ■ Che differenza c’è tra “se” e “sé”?

In linea di massima, nei monosilabi l’accento grafico non si mette: avendo una sola sillaba è chiaro dove l’accento va a cadere, sull’unica vocale esistente.

Tuttavia, si usa per distinguere tra loro monosillabi omofoni (dallo stesso suono) ma con diverso significato, e bisogna perciò fare attenzione in questi casi, quando si scrive.

Di seguito un elenco di questi monosillabi che cambiano significato a seconda dell’accento, ed è importante anche fare atenzione agli accenti acuti per esempio di e da quelli gravi che distinguono il pronome te dal che si beve (come il caffè).

e (congiunzione) egli è (verbo)
da (preposizione) egli (verbo)
si (pronome o nota musicale) (affermativo)
se (congiunzione) (pronome)
te (pronome) (bevanda)
ne (pronome/avverbio) (negazione)
di preposizione (giorno) e o di’ (verbo dire)
li (= loro) e la (articolo o nota musicale) e là (luogo)
che (pronome/congiunzione) ché (nel senso di poiché)

Gli accenti grafici

■ Quando l’accento grafico coincide con l’accento tonico? ■ Quali sono gli accenti grafici? ■ Quando si usa l’accento circonflesso? ■ È meglio scrivere l’accento per non confondere parole come àncora e ancòra? ■ Che differenza c’è tra accento grave e accento acuto? ■ Quando si usa l’accento nei monosillabi? ■ Perché su qui e qua l’accento non va? ■ Perché sugli avverbi e è obbligatorio l’accento? ■ Perché me e te si scrivno senza accento ma vule l’accento? ■ Perché sulle tastiere la E è presente con due tipi di accento mentre tutte le altre vocali ne hanno uno solo? ■ Perché nei monosillabi come giù, già o ciò si mette l’accento?

Non bisogna confondere l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere e riguarda l’ortografia, con quello tonico, che riguarda la pronuncia e dà l’intonazione: sono due cose diverse che solo in pochi casi possono coincidere.

Quando pronunciamo una parola facciamo sempre cadere l’accento tonico su una vocale che contraddistingue una sillaba, e le parole possono essere perciò piane (accentate sulla penultima sillaba, per es. càne), sdrucciole (accentate sulla terz’ultima, per es. càvolo), tronche (accentate sull’ultima, per es. maestà) e così via (vedi → “La pronuncia delle parole”).

Solo in quest’ultimo caso l’accento tonico (che si pronuncia ma non si scrive) coincide con l’accento grafico, quello che è obbligatorio scrivere. Questo accento si usa solo sulle vocali alla fine delle parole per indicare quando sono tronche, cioè accentate sull’ultima sillaba (papà, però, virtù).

Gli accenti grafici sono due, quello acuto (es. perché, pronuncia stretta) e quello grave (es. è, pronuncia aperta) e si mettono solo sulle vocali. Si può immaginare questo segno come un rubinetto che apre o chiude la pronuncia spostando la lineetta da sinistra a destra: , caffè (pronuncia aperta) e , (pronuncia chiusa e stretta). Per saperne di più → “E e O aperte o chiuse? La pronuncia cambia il senso“.

Un tempo nei libri si poteva trovare anche l’accento circonflesso, che si usava per indicare un’originaria doppia i, poi caduta, per esempio in parole come principî o dominî (contrazione dei plurali principii e dominii) proprio per fare capire la giusta pronuncia e non far confusione con “i prìncipi” e “tu dòmini”, ma nell’italiano corrente questa consuetudine sta sempre di più scomparendo e l’accento circonflesso è ormai caduto in disuso: nell’editoria si tende a non utilizzarlo più.

Anche la consuetudine di indicare gli accenti tonici in caso di confusione possibile (àncora e ancòra) è poco seguita, si capisce dal contesto e indicarla forzatamente costituisce uno strappo alle regole che si può fare se proprio è necessario, ma non è affatto obbligatorio né necessariamente elegante.

Nel caso di à, ì e ù, non è importante distinguere l’accento: la pronuncia è una sola, e di solito si usa l’unica lettera accentata presente sulla tastiera, con l’accento grave. Anche nel caso della “o“, benché abbia due pronunce possibili, quando è accentata a fine parola si legge sempre aperta, e dunque si usa l’accento grave (però, menabò, Totò…).

La questione si complica per la lettera “e”, che può avere l’accento grave pronunciato aperto (è) o acuto che si pronuncia chiuso (é). Quindi si scrive sempre perché (e mai perchè o perche’ con l’apostrofo al posto dell’accento), esattamente come poiché, affinché, benché, cosicché, purché, , e tutti i composti di tre (ventitré, trentatré, centotré).

L’accento acuto si usa di solito anche nelle terze persone singolari del passato remoto di verbi come poté, batté, ripeté, mentre nel caso del verbo essere si scrive e pronuncia aperto: è.

In genere nei monosillabi l’accento non si usa: qui e qua (“su cui l’accento non va”, come recita la regola), sta, su, sto… e si aggiunge solo quando è necessario indicare una differenza rispetto a un altro monosillabo che possiede un diverso significato, per esempio: bevanda e te pronome (dico a te); pronome e se congiunzione; congiunzione negativa e ne particella; affermativo e si riflessivo (per il no invece non è necessario); nel senso di giorno e di preposizione (c’è anche di’ imperativo di dire, con l’apostrofo, non con l’accento); e avverbi di luogo e li pronome e la articolo; dal verbo dare e da preposizione.

Nel caso di fa e do (voci dei verbi fare e dare) non è necessario distinguerli dalle note musicali (che non sono mai accentate), si capisce dal contesto, come anche per le note re e si, che è difficile confondere con il titolo di re o il si riflessivo. Tuttavia si usa quasi sempre l’accento quando i monosillabi si fondono con altre parole: re diventa viceré, tre diventa ventitré, su diventa lassù… perché acquisendo altre sillabe si rende necessario rimarcare l’accento finale che quando sono monosillabi si dà per scontato. Analogamente si usa l’accento su parole come giù, ciò e già, perché pur essendo monosillabi hanno più di una vocale, e dunque presentano ambiguità di pronuncia e l’accento finale è indicato come nel caso dei polisillabi.

Bisogna fare attenzione a non confondere l’accento con l’apostrofo e scrivere per esempio “” (accentato) invece di po’, oppure e’ e E’ al posto di “è” e “È“.

Vedi anche
→ “Si scrive se stesso o sé stesso?
→ “Quando l’accento cambia il significato

L’alfabeto e il falso mito delle lettere straniere

■ Cosa distingue le vocali dalle consonanti? ■ Che differenza c’è tra vocali forti e deboli? ■ La J è una vocale o una consonante? ■ Perché alcune lettere sono considerate straniere? ■ Il numero dei fonemi è uguale a quello delle lettere dell’alfabeto? ■ Perché, per scrivere, i segni dell’alfabeto non bastano? ■ Nella scrittura si usano anche lettere di alfabeti diversi dal nostro?

L’alfabeto moderno è costituito da 26 segni o grafemi che seguono un ordine preciso, l’ordine alfabetico appunto, che permette di rintracciare facilmente ogni parola in un dizionario o in un indice analitico:


a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z.

Si possono dividere in vocali e consonanti.
Le prime (A, E, I, O, U ma anche y e j quando sono pronunciate come la i, se invece la j si pronuncia “g” come in jolly si comporta da consonante) si chiamano così perché derivano da voce: sono suoni sonori che si pronunciano con la voce e costituiscono la parte forte della sillaba.
Le consonanti si appoggiano alle vocali e si possono distinguere a seconda di come vengono articolate in labiali, linguali, dentali, palatali o gutturali. Ma queste distinzioni appartengono alla fonetica, non riguardano la scrittura (Per saperne di più → “Fonologia e fonetica“).

Vocali forti e deboli
A, E e O  sono chiamate vocali forti, e I e U deboli. Questa distinzione serve per comprendere meglio la differenza tra dittongo e iato. Due vocali che si pronunciano con un’unica emissione sono dittonghi e di solito sono costituiti da 2 vocali deboli (es. pie-no, chiu-so) oppure dalla combinazione di una forte e una debole all’interno della stessa sillaba (es. fio-re). Lo iato è invece l’incontro di due vocali che si pronunciano con suono separato (po-eta, le-one, pa-ese, be-ato). Questa distinzione è importante anche per comprendere meglio la → divisione in sillabe.

Non è vero, come si dice spesso, che a ogni lettera corrisponde un solo suono, questa è solo una semplificazione. La “c” e la “g“, per esempio, possono essere dolci o dure, la “s” e la “z” sorde o sonore, le vocali “e” e “o” possono essere aperte o chiuse. Dunque i fonemi pronunciabili sono di più, come insegna la fonologia (per saperne di più → “La pronuncia delle lettere“). Viceversa, alcuni caratteri associano a una lettera anche un accento, grave o acuto (é e è) che è necessario utilizzare.

Per scrivere, però, non basta conoscere le lettere del nostro alfabeto! Ci sono anche grafemi di altri alfabeti in cui si può imbattere, come quello greco, per esempio alfa (α), beta (β) e così via fino a omega (in maiuscolo Ω è simbolo dell’ohm), oppure l’alef (א), la prima lettera dell’alfabeto ebraico, che si usa in matematica… Nei programmi di scrittura questi caratteri si trovano tra quelli speciali o tra i simboli. Ma esistono moltissimi altri caratteri presenti sulla tastiera, a cominciare dall’apostrofo, dalle lettere accentate (è, é) e dai segni d’interpunzione per finire con altri caratteri speciali che si usano comunemente come il percento (%), la e commerciale (&) e molti altri simboli che bisogna conoscere e padroneggiare (, @, °…). Per saperne di più vedi anche → “Le norme editoriali“.

Le cosiddette lettere straniere

Solitamente, si dice che il nostro alfabeto sia costituito da 21 lettere più 5 straniere (j, k, w, x, y), ma non è propriamente vero. La “k“, per esempio, si trova nelle prime e più antiche testimonianze del volgare scritto (i Placiti cassinesi: “Sao ko kelle terre…”, cioè: so che quelle terre) ed era presente anche nei dialetti e nell’italiano arcaico. E lo stesso si può dire della “j lunga” (sempre più spesso pronunciata immotivatamente all’inglese, jay) molto diffusa fino al Settecento, ma sopravvissuta anche dopo (si trova in Pirandello che scriveva “jella”). Quanto alla “x”, a parte l’uso nei numeri romani, e l’esistenza di parole come xilofono, tra gli uomini che combatterono per l’unità d’Italia al seguito di Garibaldi non bisogna dimenticare che c’era anche Nino Bixio! La “y“, chiamata anche “i greca” era appunto presente nel greco, e solo la “w” ci è veramente estranea, anche se il suo uso come abbreviazione di “evviva” è attestato almeno dall’Ottocento.

Agricola di Tacito, ediz. del 1805: l’uso della i lunga era normale.

Tuttavia, l’uso di queste lettere appartiene all’italiano antico e storico, e nel corso dei secoli sono decadute, il lessico dell’italiano moderno le ha escluse, e perciò quasi tutte le voci che contengono queste cinque lettere sono straniere. Poiché però l’italiano evolve (ed è evoluto) anche per l’interferenza delle altre lingue, queste lettere si possono considerare assimilate. Sono presenti e utilizzate sulle tastiere con cui scriviamo, e sono necessarie, visto che i dizionari monovolume registrano circa 5.000 parole straniere crude (cioè non adattate e riportate più o meno come si scrivono nella lingua di provenienza), a cui si possono aggiungere tantissimi nomi propri (da Tokyo a New York e da William Shakespeare a Johnny Depp).

Dubbi di pronuncia

■ Si dice appèndice o appendìce? ■ Si dice amàca o àmaca? ■ Si dice pùdico o pudìco? ■ Si dice ìinfido o infìdo? ■ Si dice mòllica o mollìca? ■ Si dice utènsileo utensìle? ■ Si dice èdile o edìle? ■ Si dice Sàlgari o Salgàri? ■ Si dice facòcero o facocéro? ■ Si dice io vàluto o valùto? ■ Si dice sàlubre o salùbre? ■ Si dice cùculo o cucùlo? ■ Si dice persuadére o presuàdere? ■ Si dice tèrmite o termìte? ■ Si dice cosmopolìta o cosmopòlita?

Ci sono molte parole che presentano frequentemente dubbi di pronuncia, e spesso vengono dette usando un accento tonico errato.

Di seguito un elenco di quelle più “spinose” che bisognerebbe conoscere, anche se per alcune i dizionari ormai riportano anche la pronuncia meno corretta proprio perché viene travisata così di frequente che tende a diventare quasi la norma.

amàca (non àmaca);
appendìce (non appèndice);
bocciòlo (non bòcciolo);
codardìa (non codàrdia);
cosmopolìta (non cosmopòlita);
cucùlo (non cùculo);
edìle (non èdile);
facocèro (e non facòcero);
gòmena (non gomèna);
guaìna (non guàina);
gratùito (non gratuìto);
infìdo (non ìnfido);
incàvo (non ìncavo sul modello di còncavo);
ìnternet (non internèt);
isòtopo (non isotòpo);
leccornìa (non leccornia);
libìdo (non lìbido);
mollìca (non mòllica);
ossìmoro, ma anche ossimòro;
persuadére (non persuàdere);
pudìco (non pùdico);
robòt (o ròbot, ma non robò alla francese: è un termine diffuso da un romanzo dello scrittore ceco K. Capek, 1890-1938);
rubrìca (non rùbrica);
salùbre (non sàlubre);
Salgàri (e non Emilio Sàlgari);
scandinàvo (meglio di scandìnavo, accettabile, ma meno corretto);
scòrbuto ma anche scorbùto;
seròtino (non serotìno);
sìlice (non silìce sul calco di silìcio);
tèrmite (più corretto di termìte);
ùpupa (non upùpa);
utensìle, meglio di utènsile anche se varia a seconda del contesto: se usato come aggettivo è accettabile utènsile (una macchina utensile); se è sostantivo si pronuncia utensìle (l’utensile del calzolaio);
● (io) valùto, (tu) valùti, (egli) valùta (più corretto e preferibile e alla forma vàluto, che però è ormai accettata ed entrata in uso);
zaffìro (è più diffuso e preferibile a zàffiro, con la pronuncia alla greca).

Vedi anche
→ “Quando l’accento cambia il significato
→ “La pronuncia della O può cambiare il significato
→ “La pronuncia della E può cambiare il senso alle parole
→ “La dizione corretta di E, O, S e Z

Quando l’accento cambia il significato

■ Che differenza c’è tra nòcciolo e nocciòlo? ■ Si dice egli viòla o egli vìola? ■ Si dice ìmpari o impàri? ■ Che differenza c’è tra bàlia e balìa? ■ Che differenza c’è tra nèttare e nettàre?

Alcune parole cambiano significato a seconda di come si pronunciano, per esempio nel caso della dizione della “e” aperta o chiusa, oppure della “o”.

Queste sfumature riguardano però la corretta dizione dell’italiano nazionale, ma l’italiano vivo regionale si può distaccare da questi modelli che invece utilizzano per esempio gli attori.

Ci sono invece altri casi in cui la pronuncia riguarda non una singla lettera, ma l’intera parola e lo spostamento dell’accento tonico da una sillaba all’altra, cambia il significato in un modo che deve essere rispettato da tutti, non è più una questione di dizione, ma di lessico italiano.

Non sono omonimi (parole dallo stesso nome), si tratta di omografi (si scrivono allo stesso modo), ma non sono omofoni (dallo stesso suono) perché possiedono un diverso accento tonico che, anche se non si scrive, è obbligatorio pronunciare nel modo corretto.

Tra queste parole ci sono per esempio:

àltero (modifico) altèro (superbo)
àmbito (cerchia) ambìto (desiderato)
bàlia (che allatta) essere in balìa (di qualcuno)
càpitano (da capitare) capitàno (comandante)
circùito (elettrico) circuìto (da circuire)
dècade (dieci giorni) egli decàde (da decadere)
ìmpari (disuguale) tu impàri (da imparare)
lèggere (verbo) leggére (non pesanti)
nèttare (degli dei) nettàre (pulire)
nòcciolo (del discorso) nocciòlo (l’albero)
io prèdico (da predicare) io predìco (da predire)
rètina (dell’occhio) retìna (piccola rete)
che essi rùbino (da rubare) rubìno (pietra preziosa)
sèguito (scorta) seguìto (da seguire)
tèndine (del muscolo) tendìne (piccole tende)
egli vìola (da violare) viòla (fiore)

Questi accenti tonici si pronunciano ma non si scrivono! Per saperne di più → “Gli accenti grafici“.

Vedi anche
→ “Dubbi di pronuncia
→ “La pronuncia della O può cambiare il significato
→ “La pronuncia della E può cambiare il senso alle parole
→ “La dizione corretta di E, O, S e Z

La dizione corretta di “E”, “O”, “S” e “Z”

■ Come si fa a sapere se la S e la Z si pronunciano sorde o sonore? ■ La S e la Z sorde sono la stessa cosa di aspre? ■ Z e S sonore o dolci sono la stessa cosa? ■ Come si pronuncia “dinosauro”? ■ Che differenza c’è tra la Z sorda (o aspra) e quella sonora (o dolce)? ■ La E di “tre” e dei suoi composti si pronuncia sempre stretta? ■ Come si pronuncia la E finale delle terze persone del passato remoto (batté, poté)? ■ La E si pronuncia stretta su perché e tutti i derivati di che? ■ Quali sono gli esempi di parole con la Z sonora? ■ Quali sono gli esempi di parole con la Z sorda? ■ Quali sono gli esempi di parole con la S sonora? ■ Quali sono gli esempi di parole con la S sorda? ■ Quali sono gli esempi di parole con la E aperta? ■ Quali sono gli esempi di parole con la E chiusa? ■ Quali sono gli esempi di parole con la O aperta? ■ Quali sono gli esempi di parole con la O chiusa?

Chi vuole sfoggiare una dizione corretta, perché è un attore o ha esigenze professionali che lo richiedono, segue di solito corsi specifici per “ripulirsi” dalle inflessioni regionali e impara per esempio a dire bène (e non béne), perché (e non perchè), o dinosauro con la S sorda di sasso (e non con quella sonora di rosa).

Le questioni che generano più dubbi sono rappresentate dalla doppia pronuncia di S e Z e di E e O.

La S sonora (o dolce) si trova in parole come asilo o sbaglio e si chiama così perché nel pronunciarla emettiamo un suono sonoro attraverso la laringe. Spesso si trova tra due vocali (chiesa, rosa, musica, viso, paese), ma ci sono troppe eccezioni (goloso, frettoloso….) per farne una regola. Ricorre anche davanti alle consonanti sonore (come b, d, g, v): sbadiglio, sdegno, sgabello, dislivello, asma, slegato, snaturato, sregolato, svelto.

La S sorda (o aspra) si pronuncia senza che le corde vocali vibrino, quasi come fosse raddoppiata e ricorre in parole come sasso o rosso, cioè quando è doppia (posso, masso) o quando è a inizio parola seguita da vocale (sale, sera, siedi, solo, subito). E ancora quando è preceduta da un’altra consonante (penso, psicologo, immenso).

La Z sonora (o dolce) ricorre in parole come zanzara o dozzina (le corde vocali vibrano come nel ronzio della zanzara). Di solito si pronuncia così quando è in mezzo a due vocali (ozono, azalea), nei verbi in –izzare (organizzare, penalizzare) e nella prima parte di tutte le “-izzazioni” (la seconda parte di organizza-zione è invece aspra).

La Z sorda (o aspra), senza vibrazioni delle corde vocali e movimenti della laringe, ricorre in parole come stanza o bellezza e si usa di solito nelle parole che terminano in –zione (colazione, petizione), quando precede i dittonghi con la i (pazzia, grazie, ozio, tizio, polizia), quando segue la l (calzini, sfilza, alzato), nelle terminazion in –anza (stanza) o –enza (pazienza) e quando ha un raddoppiamento forte (pazza, pezza, pizza, pozzo e puzza), ma ci sono eccezioni come azzardo e azzurro e molti altri casi complessi.

Dunque, per la S e la Z le cose non sono semplici, e a parte questi accenni ci sono tantissimi altri casi che richiederebbero una trattazione molto più approfondita, che però riguarda la dizione professionale, perché la pronuncia delle lettere ha anche forti oscillazioni regionali che non è necessario modificare, se non c’è l’esigenza di parlare l’italiano “nazionale”.

Pronuncia chiusa di E e O

Per quanto riguarda la doppia pronuncia di E e O, ecco una breve lista di casi, che ha solo il valore di fornire qualche esempio, in cui si dovrebbe pronunciare l’accento chiuso di é e ó:

● quando l’accento tonico cade sulla “e” o sulla “o” le pronunce sono spesso chiuse (dóccia, sónno, vólere, pótere), anche se ci sono eccezioni come cièlo, gèlo, mèntore o gònna (ma anche gónna è accettato dai dizionari). Ciò vale per gli accenti tonici che cadono all’interno della parola, e non per le parole accentate sull’ultima (tronche);
● su tre e tutti i composti (ventitré, trentatré… dove però è giusto indicare anche l’accento grafico, oltre che tonico, perché cade sull’ultima sillaba);
● su venti (il numero 20, altrimenti si dice vènti alisei) e derivati (ventuno, ventidue…);
● su perché, affinché, cosicché e tutti gli altri composti di che (ma anche in questo caso è obbligatorio mettere l’accento grafico acuto, che indica proprio la pronuncia);
● su me, te e (nell’ultimo caso si indica, acuto, per non confondere la parola con il se congiunzione; quanto al con l’accento aperto è invece una bevanda, vedi anche → “Monosillabi che cambiano significato con l’accento“);
● nelle preposizioni proprie e negli articoli: ló , le, cón, per, degli, dei… (dèi aperto, è invece il plurale di dio);
● negli avverbi in -mente;
● su questo, quello, dópo, mentre, entro, spesso;
● tra i molti nomi si possono ricordare per esempio: capello, cerchio, forchetta, giorno, maschietto, mente, segno, tristezza, teschio, vetro;
● spesso nelle terze persone singolari del passato remoto dei verbi, per esempio: poté, batté, ripeté…;
● in molte flessioni verbali come: sembra, balbetto, metto, mento (mentire).

Pronuncia aperta di E e O

Di seguito qualche esempio in cui, invece, la pronuncia è con l’accento aperto (è/ò):

● quasi sempre nei dittonghi in ie: ariete, cerniera, irrequieto, obbedienza, (ma bigliétto è un’eccezione, come anche gaiézza);
● spesso nelle parole dove la sillaba con la “e” è seguita da una sillaba con un dittongo: genio, miseria, sedia, serio, straniero;
● nei participi in -ente: aderente, incongruente, pezzente, potente, presente, presidente, solvente;
● su pòi e fuòri;
● su sei, sette, òtto e dieci;
● nelle parole che terminano in “o” accentate, tutte aperte così come si scrivono: (oblò, menabò).

A parte queste sommarie indicazioni e questi esempi che aiutano, le cose sono molto più complesse, e in caso di dubbi non resta che controllare le pronunce corrette su un dizionario.

Vedi anche
→ “Quando l’accento cambia il significato
→ “La pronuncia della O può cambiare il significato
→ “La pronuncia della E può cambiare il senso alle parole

Pronuncia e dizione

■ Cos’è la dizione? ■ Che differenza c’è tra l’italiano nazionale e quello regionale? ■ Si dice stèlla o stélla? ■ Come si dovrebbe pronunciare la Z di zucchero? ■ Che differenza c’è tra la dizione di una lettera e la pronuncia di una parola? ■ Dire “perchè” invece di “perché” è un errore? ■ Secondo le regole della dizione si dovrebbe die “bène” o “béne”?

Si dice stélla o stèlla?

La prima opzione è quella corretta, come riportano i dizionari, ma sull’apertura delle vocali – come anche sulla doppia pronuncia di “s” e “z”, per cui è più corretto dire (z)zucchero e (z)zio, sonori, quasi con il raddoppiamento – pesano molto le inflessioni regionali e non è sempre fondamentale uniformarsi alle regole della dizione. O più precisamente: quando dalla pronuncia degli accenti dipende il significato di una parola (èsca = verbo ed ésca = verme da mettere sull’amo) sarebbe meglio essere precisi, ma negli altri casi ognuno ha il diritto di esprimersi con la vivacità del proprio bagaglio linguistico territoriale, e le inevitabili parlate e inflessioni dialettali sono espressive e caratterizzanti. Dal modo naturale con cui ognuno parla è possbile riconoscere per esempio l’area geografica dove è nato o vissuto, mentre l’italiano “nazionale” che ascoltiamo per esempio nell’audio di una pubblicità è impersonale, nella sua “perfezione”.

Nella pratica quasi nessuno parla con l’impostazione perfetta dell’italiano “standard” dei dizionari, tranne gli attori, che sulla dizione e la pronuncia fondano la loro professione, ed è per loro fondamentale essere impostati e dire “bène” invece di “béne” o “perché” invece di “perchè”. La dizione non riguarda solo la pronuncia, insegna anche a scandire bene ogni lettera, a impostare la voce e a usarla in modo profesionale. Ma l’italiano impostato e privo di connotazioni regionali vive solo in televisione, al cinema e a teatro, e spesso nemmeno lì: che ne sarebbe di Massimo Troisi o di Eduardo De Filippo senza il napoletano, di Alberto Sordi senza il romano o di Roberto Benigni senza il toscano?

A seconda dei contesti comunicativi, perciò, una dizione perfetta può essere essenziale per gli attori, o utile per parlare in pubblico, ma viceversa per il linguaggio colloquiale tra amici e parenti essere troppo impostati può essere recepito come un parlare artificiale, distante o freddo.

Fatte queste premesse, ci sono alcune regole della dizione sovraregionale che si possono seguire soprattutto nella pronuncia delle “e”, delle “o”, delle zeta o delle esse.

Ma bisogna fare un’importante distinzione tra la dizione delle lettere (per esempio le sfumature regionali della zeta o le aperture di certe vocali) e la pronuncia delle parole, che riguarda l’accento tonico vero e proprio, cioè dove cade l’accento di una parola. In questo caso lo spostamento di un accento da una sillaba all’altra è una questione di lessico, non di dizione, e può cambiare il significato delle parole: il nòcciolo del discorso non è il nocciòlo, cioè l’albero delle nocciole, e la rètina dell’occhio non è una retìna per prendere i pesci! Questi accenti tonici devono essere seguiti da tutti, non solo dagli attori.

Per saperne di più vedi → “Quando l’accento cambia il significato” (un elenco di parole che cambiano significato in base a dove cade l’accento), e → “Dubbi di pronuncia” (un elenco di parole che si sbagliano spesso, come rùbrica e non rubrìca, o edìle e non édile) .

L’accento: differenze tra parlare e scrivere

■ Gli accenti grafici coincidono con quelli tonici? ■ Si può pronunciare una parola diversamente da come indicato nel dizionario? ■ Come si fa a sapere come pronunciare e scrivere correttamente gli accenti?

La “A“, la “I” e la “U” in italiano hanno una sola pronuncia possibile.

La “E” e la “O” hanno invece ognuna due diverse pronunce possibili, aperta (è e ò) e chiusa (é e ó).

E allora come si fa, di volta in volta, a sapere quale utilizzare sia nello scrivere sia nel parlare?

Quando scriviamo l’unico problema si pone per la lettera “E” a fine parola, e infatti sulle tastiere sono presenti due caratteri distinti (è/é). Per esempio, caffè si scrive e pronuncia con la e aperta (accento grave), mentre perché si pronuncia con la e chiusa (accento acuto). In questi casi la pronuncia è indicata dall’accento grafico che coincide con l’accento tonico, dunque le cose sono più facili. Se non si sa come scrivere e pronunciare correttamente queste parole si può consultare un dizionario, anche se esistono delle indicazioni che aiutano a orientarsi (vedi → “La dizione corretta di e, o, s e z“). L’ortografia delle altre parole accentate sull’ultima sillaba (tronche), in italiano non presenta problemi, si scrivono tutte con un solo accento (e sulle tastiere ci sono solo le lettere con l’accento grave, bsta usare quello): maestà, colibrì, cucù e anche però. Dunque la “O” accentata a fine parola si scrive e pronuncia sempre aperta (accento grave).

Quando parliamo le cose sono più complicate, perché gli accenti si pronunciano ma non si scrivono e anche la “O” (come la “E“) all’interno di parola può essere detta in due modi. Ancora una volta in caso di dubbi si può consultare un dizionario, che riporta anche la pronuncia corretta di ogni parola nell’italiano “nazionale”, e seguire alcune regole e indicazioni che possono aiutare.

Bisogna però precisare che se, nello scrivere, gli accenti grafici a fine parola sono obbligatori e non si può scrivere “perché” con l’accento grave (perchè), quando parliamo, in generale, non è richiesta una dizione come indicata nel vocabolario, e tranne nel caso di attori o annunciatori che seguono la dizione sovraregionale ognuno usa la propria parlata e inflessione regionale, che non è “errata”, fa parte dell’italiano vivo che caratterizza il modo di parlare di ciascuno. Un toscano dirà istintivamente “perché”, e un lombardo “perchè”, ma questo distaccamento non è un “errore”, fa parte della lingua viva. L’italiano standard è un’astrazione che vive solo in tv, a teatro o al cinema, e spesso anche in questi contesti si trovano le varietà che contraddistinguono l’italiano “reale”.

Tuttavia, è bene sapere che una dizione corretta può cambiare il significato delle parole, e per esempio le domande da pórci (con la o chiusa, da porgere) non sono la stessa cosa delle domande da pòrci (con la o aperta), cioè da maiali.

Vedi anche
→ “Quando l’accento cambia il significato
→ “La pronuncia della O può cambiare il significato
→ “La pronuncia della E può cambiare il senso alle parole
→ “La dizione corretta di E, O, S e Z
→ “Dubbi di pronuncia

La pronuncia delle parole: accenti tonici

■ Cosa sono gli accenti tonici? ■ Che differenza c’è tra accenti tonici e accenti grafici? ■ Quando bisogna scrivere gli accenti tonici? ■ Cosa sono le parole tronche? ■ Cosa sono le parole piane? ■ Cosa sono le parole sdrucciole? ■ Cosa sono le parole bisdrucciole? ■ Cosa sono le parole trisdrucciole?  ■ Quali sono gli esempi di parole trisdrucciole? ■ Quali sono gli esempi di parole bisdrucciole? ■ Quali sono gli esempi di parole trisdrucciole? ■ Quali sono gli esempi di parole sdrucciole? ■ Quali sono gli esempi di parole piane? ■ Quali sono gli esempi di parole tronche?

Ogni parola è composta da sillabe (i monosillabi come o no ne hanno una sola) e possiede un suo accento, su cui la voce si appoggia con maggior forza.

Gli accenti tonici (cioè quelli che si pronunciano ma non si scrivono) cadono sempre su una vocale.

La sillaba dove cade l’accento è detta tonica (dal greco tònos, “forza”), mentre le altre sillabe sono àtone (senza tono). Per esempio: “farfallina” è composta da quattro sillabe, far-fal-lì-na, e quella tonica è la penultima.

A seconda di dove cade l’accento, le parole si dividono in:

tronche, cioè accentate sull’ultima sillaba (però, città);
piane, accentate sulla penultima (cà-ne, pa-rò-la);
sdrucciole, sulla terz’ultima (cà-vo-lo, rò-to-lo);
bisdrucciole, sulla quart’ultima (di-mò-stra-me-lo, pre-cì-pi-ta-no);
trisdrucciole, sulla quint’ultima (fàb-bri-ca-me-ne, òr-di-na-glie-lo).

Gli accenti tonici di questi esempi (marcati in grassetto) si pronunciano ma non si scrivono, tranne per le parole tronche accentate sull’ultima (però, città): solo in questo caso è obbligatorio indicarli anche nella scrittura (e l’accento grafico coincide con l’accento tonico).

Le regole ortografiche non prevedono di scrivere questi tipi di accenti nemmeno in casi di ambiguità (come si faceva talvolta in passato), perciò “ancora”, a seconda dell’accento tonico e di come si pronuncia, può essere l’àncora di una nave o l’avverbio ancòra, ma non c’è bisogno di aggiungere l’accento grafico (è facoltativo ma in disuso), il significato si ricava dal contesto; allo stesso modo “principi” può indicare i prìncipi figli di un re, o i  princìpi morali, e “capitano” può essere la terza persona plurale del verbo, càpitano, oppure un capitàno.

Per un elenco di queste parole → “Quando l’accento cambia il significato“.

Ci sono molte parole che presentano spesso dubbi di pronuncia e di frequente gli accenti tonici vengo sbagliati e fatti cadere erroneamente sulla sillaba errata (per esempio “rùbrica” al posto di rubrìca, o “édile” al posto di edìle). Per un elenco di quste parole → “Dubbi di pronuncia“.

Inoltre, questi accenti che si pronunciano ma non si scrivono non riguardano solo l’accento della parola che cade sulla giusta sillaba, ma possono anche riguardare il fonema (cioè il suono) di una singola lettera, per esempio le o” aperte o chiuse. Le parole che cambiano il significato a seconda della dizione di queste lettere (come pésca e pèsca) vengono chiamate omografe, cioè che si scrivono allo stesso modo.

Vedi anche:
→ “Omografi, omofoni e omonimi
→ “Quando l’accento cambia il significato
→ “La pronuncia della O può cambiare il significato
→ “La pronuncia della E può cambiare il senso alle parole
→ “La dizione corretta di E, O, S e Z
→ “Dubbi di pronuncia
→ “L’accento: le differenze tra parlare e scrivere

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